2020-12-31
Il premier non vuol mollare i Servizi e ritenta il blitz per la cyber security
La passione per l’intelligence e per i dossier riservati rischia di mettere alle corde il presidente del Consiglio Dopo Pd e renziani, anche il M5s boccia il centro per la sicurezza spuntato di nuovo nel piano di investimentiIl premier Giuseppe Conte dev’essersene fatto quasi una malattia. Non riesce proprio a stare senza i servizi segreti. Piuttosto rischia, come sta facendo, di perdere la poltrona. Ieri ha spiegato bene il perché non accetterà di lasciare la delega ai Servizi, condizione che Matteo Renzi gli ha posto per iniziare una discussione che non parta dalla richiesta di dimissioni: «La legge attribuisce al presidente del Consiglio dei ministri responsabilità politica e giuridica che mi avvalga o meno di una persona di fiducia. Vi sono funzioni non delegabili. Il Copasir ha funzioni di vigilanza e controllo e garantisce rispetto di interesse generale. Chi chiede di dover delegare deve spiegare. Se non si fida del presidente del Consiglio si cambi la legge. Io non posso liberarmi di certi poteri». Un po’ Spiderman e un po’ Superman.Che il prossimo eroe della Marvel abbia la fissa per gli 007 lo dimostra anche il Recovery plan, intitolato Next generation Italia, in cui è descritto il piano di investimenti per «la modernizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione» da 2,2 miliardi (prima era di 4,7), per cinque progetti. Il quarto riguarda la cyber security e ha come obiettivo «assicurare infrastrutture e competenze per prevenire e rispondere alle minacce cyber».Nelle scorse settimane la maggioranza, e in particolare il Pd con Dario Franceschini, aveva fatto saltare due volte il tentativo di Conte di finanziare il suo progetto attraverso emendamenti alla legge di Bilancio, prima al Senato e poi alla Camera. Adesso il premier torna alla carica con il suo giocattolo da aspirante James Bond. I dem anche in questo caso hanno provato a mettere qualche paletto nelle loro dieci pagine di osservazioni sul piano: «Riteniamo debba poi essere meglio chiarito lo scopo della struttura indicata della cyber security, in particolar modo il modo in cui si relaziona e si integra con gli strumenti già oggi finalizzati alla tutela della sicurezza nazionale».Ma anche la delegazione grillina (formata dal ministro Stefano Patuanelli, dalla viceministra Laura Castelli e dalla sottosegretaria Laura Agea) che ha incontrato ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri per analizzare le novità del Recovery plan non ha gradito il blitz. In particolare la Castelli ha subito domandato se il «centro di ricerca» citato nel documento fosse la famigerata fondazione e ha sollevato un tema politico: «Commissioni, Copasir, Parlamento avevano costretto il premier a togliere il progetto dalla legge di Bilancio. Adesso Conte pensa di reintrodurlo in un momento tanto delicato, con il rischio di irritare le Camere?» avrebbe ragionato la viceministra. Una riflessione che non fa una piega. Insomma la fondazione avrebbe cambiato solo nome, ma sarebbe ancora lì sul piatto. La novità sta facendo il giro di tutti i palazzi istituzionali e sta suscitando molto fastidio. Anche perché più di un esponente dell’esecutivo ritiene che la fondazione o centro di ricerca che dir si voglia sposti un sacco di poteri e contenga una riforma occulta dei Servizi che, però, non si può attuare in questo modo.Nella bozza del Recovery plan del 21 dicembre non c’era nessun cronoprogramma e si parlava genericamente di «un centro di sviluppo e ricerca che opererà attraverso la costituzione di partenariati pubblici-privati (con i campioni nazionali e le università) e il lancio di spin-off e start-up», futuro interlocutore del costituendo centro europeo dedicato alla sicurezza cibernetica. Poi, martedì, la sorpresa.In due pagine sono descritti tempi e passaggi per «la creazione di un centro nazionale di ricerca e sviluppo in cyber security» e per «il rafforzamento del perimetro di sicurezza nazionale cibernetica» (già avviato), attraverso investimenti in tecnologie, processi e governance. Obiettivo finale: «Aumentare le cyber difese e la resilienza del Paese». La parte che più ci incuriosisce è il primo progetto, che ricorda in tutto e per tutto la fondazione già proposta e bocciata nelle scorse settimane da Pd e Italia viva. C’è un’unica importante differenza: nella prima versione l’unico soggetto attuatore era il Dipartimento delle informazioni e la sicurezza (Dis), la struttura di coordinamento dei servizi segreti che dipende direttamente da Palazzo Chigi. Adesso il tavolo degli attuatori si è allargato a vari ministeri: Innovazione tecnologica e digitalizzazione, Sviluppo economico, Difesa, Economia e finanze, Infrastrutture e trasporti, Sanità e Ambiente. Una lista in cui non compaiono diversi dicasteri del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (come Esteri, Interno, Giustizia e Università e ricerca) che nel precedente progetto erano previsti come fondatori, ma non come attuatori. L’ampliamento del tavolo viene considerata da taluni come una vittoria del Pd e in particolare dei ministri più sensibili ai rapporti con gli alleati occidentali, come il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e il ministro per gli Affari europei Vincenzo Amendola. Questa estensione della governance risolverà il problema che gli addetti ai lavori avevano intravisto nel primo progetto e cioè di un controllo diretto della fondazione da parte di Palazzo Chigi attraverso il Dis? Vedremo.Nel nuovo piano il «set-up» è previsto entro il 2021. Nel cronoprogramma sono elencati anche accreditamento del centro e assunzione dello staff (2022), sviluppo di manufatti di cyber security, metà entro il 2022, l’altra metà entro il 2024, registrazione di brevetti internazionali sempre tra il 2022 e il 2024, «erogazione di training» e «pubblicazione di gare d’appalto» sempre tra il 2022 e il 2024.Siamo convinti che Conte proverà sino alla fine a mantenere il controllo sull’intelligence e sui suoi addentellati, avendo ben chiaro che la delega ai Servizi gli ha attivato un canale diretto di comunicazione con la Casa Bianca e gli ha permesso di visionare una mole imponente di dossier riservati. Il modello è Matteo Renzi (che infatti gli vuole sottrarre la delega): il fu Rottamatore per primo aveva progettato una struttura per la cyber security e grazie ai rapporti instaurati con l’alleato statunitense oggi può aspirare alla poltrona di segretario generale della Nato.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci