2020-05-23
Il piano di Conte e Mittal per l’addio: 1 miliardo e fuga dall’ex Ilva a luglio
Lunedì convocazione al Mise e al Lavoro dell'azienda, poi seguirà un incontro telefonico tra premier, ad e indiani, che a Taranto perdono 120 milioni al mese. Per il dopo, solo scenari foschi o svendita ai cinesi.Abbiamo capito che la strategia economica di Giuseppe Conte - iniziata già al tempo dei gialloblù e perfezionata con i giallorossi - è quella di affrontare una crisi d'azienda per volta. Ne fa scoppiare una, l'eco arriva su tutti i giornali. Se ne discute, finché non scoppia una crisi maggiore. E così via fino che è arrivato il Covid-19 a fare l'«all in». C'è stata la Ex Embraco, poi Mercatone uno, a seguire Whirlpool, poi Alitalia che non delude mai in quanto a buco perenne e infine l'ex Ilva. Lo scorso dicembre per trovare una soluzione al bubbone esploso dopo la cancellazione dello scudo penale, i commissari per conto del governo, il tribunale e la franco indiana Arcerlor Mittal si sono accordati per la creazione di una newco, dove il 51% restava in mano al colosso della famiglia Mittal e il rimanente alla componente pubblica e ai vecchi creditori. La ripartenza era però segnata a priori. I Mittal sono riusciti a negoziare una via d'uscita: pagare 500 milioni di penale per lasciare l'Italia. Da lì in avanti è stata una strada in discesa, nel senso che nulla è stato fatto per rilanciare gli impianti a Taranto. Tanto che oggi producono 7.500 tonnellate al giorno. Proiettate in un anno fa 2,7 milioni di tonnellate. Un numero molto lontano dall'obiettivo fissato nell'ultimo piano industriale, approvato lo scorso inverno. Certo, la tragedia del Covid ha accelerato tutti i problemi. Ma non li ha creati. Se da un lato l'opinione pubblica, come da strategia mediatica di Conte, non si occupa più del caso Ilva, nessuno sta disinnescando la bomba. Anzi il governo ha scelto la strada dell'esplosione consensuale. Lunedì i vertici del colosso saranno convocati al ministero dello Sviluppo economico, guidato da Stefano Patuanelli, dove saranno presenti anche il ministro Nunzia Catalfo e probabilmente il collega del Mef, Roberto Gualtieri. Discuteranno assieme ai sindacati di occupazione, cassa integrazione e strategia. Ma l'ad di Arcelor Italia, Lucia Morselli, sa già che il vero appuntamento è fissato in settimana e sarà al telefono con il premeir Conte. I due si sentiranno per trattare la rottura del contratto. Arcelor aveva già accantonato 500 milioni per la way out. E adesso è disposta a metterne sul piatto altri, fino a un massimo di 1 miliardo. Giovedì è uscita una velina, poi smentita dal Mise, nella quale si faceva intendere che Conte avrebbe chiesto in caso di rottura del contratto altri 500 milioni. Si è trattato del classico gioco delle parti per tastarsi reciprocamente il polso. Azienda e premier discuteranno della somma. Gli anglo indiani cercheranno di tenersi nella parte più bassa della forchetta, ma anche se pagassero in tutto 1 miliardo trattando l'uscita a luglio ci guadagnerebbero.Come ha scritto il Sole 24 Ore , l'azienda ha perso nel 2019 circa 700 milioni, con un picco di 100 milioni mese a novembre e dicembre. Adesso, a quanto risulta alla Verità, la situazione sarebbe peggiorato e le perdite viaggiano sui 120 milioni al mese. Lasciando a luglio, Arcelor risparmierebbe circa 700 milioni. Lascerebbe dietro a sé un po' di macerie che dovranno essere rimesse assieme da Invitalia, quasi sicuramente da un partner industriale come Arvedi e un soggetto politico come la Regione Puglia, guidata da Michele Emiliano. A gestire la transizione sarebbe la stessa Morselli che si troverebbe a ripartire da zero indossando di nuovo la divisa del 2016, quando era stata messa a capo della cordata avversaria ai Mittal, quella guidata da Arvedi, Jindal e Cdp. Il problema è che se anche ripartisse il progetto, i Mittal avrebbero un vantaggio di almeno due anni. Potrebbero sfruttare gli stabilimenti in Francia per vendere il prodotto lungo la Penisola dove manterrebbero la filiale commerciale. A complicare la situazione c'è l'interesse cinese. Sia sul porto sia sulla possibile estensione delle attività, tramite il coordinamento della Cccc, pure sull'acciaieria. Non a caso l'altra sera alla commissione Finanze e attività produttive alla Camera è passata la proposta della Lega di estendere il golden power anche al settore della siderurgia. «Stiamo assistendo in queste ore all'incertezza in cui si trovano gli stabilimenti ex Ilva», commenta Edoardo Rixi, «che rappresentano tasselli fondamentali per l'autonomia del nostro Paese nel fabbisogno di acciaio. Attraverso la golden power, lo Stato potrebbe intervenire acquistando quote di capitale o partecipazioni azionarie e nel ruolo di partner sarebbe in grado di mantenere la competitività della filiera nel quadro internazionale, tutelare l'occupazione e il know how di un patrimonio industriale del Paese». Purtroppo, non sappiamo che cosa sia meglio: lasciare al governo l'ex Ilva con il rischio che diventi una nuova Bagnoli o svendere ai cinesi. Perché Taranto è solo l'epicentro. A tremare c'è anche l'acciaieria di Piombino, dove i Jindal vorrebbero l'ingresso di Cdp e pure Terni dove Thyssenkrupp ha fatto sapere di voler abbandonare Ast e gli oltre 2.300 operai.