2020-02-12
Il Pd caldeggia investimenti a parole ma non può farli per ubbidire all’Ue
Dursun Aydemir/Anadolu Agency/Getty Images
Dopo i dati sull'industria, la maggioranza invoca più domanda interna. Ciò che, nel modello dell'eurozona, non è possibile.Il Conte bis è nato ad agosto 2019: la svolta di Nicola Zingaretti, che vi si era pubblicamente e platealmente opposto con una forza pari solo a quella del vecchio Matteo Renzi, venne imperniata su cinque punti, il primo dei quali era l'«appartenenza leale all'Unione europea». Senza un governo si va fuori dall'Europa, era il refrain dei sostenitori della necessità ineluttabile di un accordo tra Beppe Grillo e la sinistra in quei giorni estivi. «Il punto resta l'Italia europea», scandiva perfino la Sir, agenzia dei vescovi italiani. Non era difficilissimo intuire che queste basi si sarebbero rivelate, nella loro retorica inaccessibile, politicamente vuote: buone giusto a mascherare una conventio ad excludendum contro «le destre», i «sovranismi», i «populismi», qualsiasi cosa si intenda con essi. A distanza di pochi mesi, i dati molto negativi sulla produzione industriale hanno fatto risuonare allarmi, preoccupazioni, indotto a stilare priorità, impegni, a dettare proclami. In attesa di vedere l'esito dei tavoli di lavoro che, nelle intenzioni del premier, dovrebbero impostare anche l'azione di politica economica del governo, si è levato un coro sulla necessità di rilanciare la «domanda interna» (Nicola Fratoianni, Leu), di stimolare e attuare gli investimenti pubblici (Roberto Gualtieri, ma pure lo stesso Renzi), di sostenere il lavoro e i redditi. Propositi lodevoli, ma è sulla loro fattibilità pratica che va misurata la concretezza della «lealtà all'Unione europea» sulle cui basi è sorto il governo Conte bis.È come se la fase attuale portasse al dunque una serie di questioni politicamente ed economicamente sopite dalle inutili polarizzazioni (no euro contro sì euro, sovranisti contro globalisti, populisti contro «competenti»). La «credibilità» che la nuova maggioranza riteneva di aver restituito al Paese sarà sicuramente servita a far partire la nuova Commissione con un protagonista italiano (Paolo Gentiloni), a portare a casa una manovra senza gli screzi e i ricatti politici con le stesse istituzioni comunitarie avvenuti nel 2018 (ma con un deficit che probabilmente si rivelerà maggiore), e a condurre le danze sulle nomine 2020, ma non a incidere sul problema epocale della sostenibilità dell'Eurozona.La frenata tedesca - che purtroppo il nostro sistema assorbe e amplifica nella dinamica della produzione - ripropone un dilemma che clamorosamente, salvo poche eccezioni, viene obliterato proprio da chi avverte l'esigenza di proclamarsi «europeista» a ogni passaggio: può un'area valutaria così eterogenea come quella continentale resistere alle flessioni con un modello esclusivamente vocato alle esportazioni? I Paesi possono tutelare benessere, welfare e ricchezza dei propri cittadini in un contesto che, privato della leva del cambio, non ha altro strumento per aumentare la competitività che non sia la compressione dei salari? Le recenti evoluzioni della nostra economia, le crisi industriali gravi e capillari, rendono sempre più acuta una risposta pragmatica a queste domande, che non c'entrano nulla con l'appartenenza geografico-culturale alla dimensione europea, ma dovrebbero essere l'abc di una comunità civile.Le possibili conseguenze negative del coronavirus sulle previsioni di crescita dell'economia mondiale sono ovviamente ulteriori motivi di pressione, e da questo punto di vista è particolarmente ridicolo il tentativo - pure esperito da alcuni esponenti di maggioranza - di attribuire al morbo cinese dati negativi risalenti a dicembre, prima ancora cioè che della malattia respiratoria si iniziasse anche solo a parlare.Per mesi, durante il governo gialloblù, la grancassa mediatica sullo spread ha coperto un'evidenza: il calo del differenziale con i titoli tedeschi non c'entra, al netto di minime oscillazioni, con le fibrillazioni politiche. L'esecutivo attuale non è certo immune da rischi, ma l'attività della Bce tiene basso il delta tra i titoli. Con una conseguenza positiva (per noi: contribuisce a tenere basso il cambio con il dollaro, cosa che a Trump e all'export americano non va benissimo) e una molto complessa da gestire: i tassi azzerati o negativi.È interessante, dunque, che in questo quadro molti, anche a sinistra, invochino investimenti, l'uso di leve fiscali, incentivi alla domanda. Ma come si possono realizzare questi interventi senza tagli di spesa (che penalizzano la crescita) e senza fare deficit, visti i parametri europei cui il governo ha giurato fedeltà? Questo incartamento ideologico, ormai inevitabile da affrontare per chiunque stia al governo, coglie la sinistra italiana in un momento politico drammatico. Un'area che - al netto delle sigle partitiche - ha espresso Romano Prodi, ha sostenuto Mario Monti ed Enrico Letta, un partito - il Pd - che ha aperto la sua ultima campagna elettorale con il commissario francese Pierre Moscovici, è politicamente libero di farsi queste domande e di articolare risposte credibili? È in grado, per esempio, di valutare se le irrazionalità del sistema attuale possano essere in qualche modo corrette? Può chiedersi se la stessa dinamica che pare stritolare industria, redditi e occupazione non sia in atto anche nella finanza e nelle banche, per esempio nel percorso di riforma del Mes? Non è mai troppo tardi.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)