2019-01-03
Il Papa bastona i suoi: «Meglio essere atei che cristiani ipocriti»
Nuova uscita choc di Jorge Bergoglio. Ancora una volta il Pastore se la prende con le pecore che non si piegano all'accoglienza. Per lui, da condannare al limite della cacciata sono quei cristiani che non si arrendono alla globalizzazione delle anime, che rimangono perplessi davanti alla fabbrica di povertà che sono le migrazioni a senso unico, che hanno il senso della storia occidentale e dell'identità dei padri.E il Pastore prese a bastonate le pecorelle. La prima udienza generale del 2019 vede all'opera un papa Francesco per niente resiliente, per niente misericordioso, come gli accade con una certa puntualità quando deve parlare al suo popolo, a coloro che credono e accolgono a braccia aperte la parola di Dio. Il Santo Padre comincia l'anno tuonando: «Meglio vivere come un ateo anziché dare una controtestimonianza dell'essere cristiani. Le persone che vanno in chiesa e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente sono uno scandalo».Parole che vibrano e colpiscono al cuore. Parole che lui decide di lanciare sui fedeli partendo dal Discorso della Montagna, da Gesù medesimo, da quel «siate figli del Padre vostro che è nei cieli» per rinnovare la rivoluzione millenaria del Vangelo, in questo caso di Matteo. Meglio atei che cristiani ipocriti, sintetizzano i titoli dei giornali e delle tv. Quello che arriva dall'aula Paolo VI è un messaggio estremo, addirittura spericolato come piace a lui, senza quelle sfumature di opportunità diplomatica che Francesco al contrario usa per approcciare temi dottrinali come i matrimoni gay, morali come la pedofilia del clero, istituzionali come la riforma degli apparati vaticani. Con i suoi fedeli il Papa va giù piatto: meglio atei che ipocriti. Ma chi sarebbero gli ipocriti odiatori? Coloro che nascondono la polvere sotto il tappeto invocando il passepartout del «silenzio e preghiera»? Coloro che trasformano la passività in un valore dicendo sì a prescindere? Coloro che, magari indossando una tonaca, antepongono le ragioni delle élite politiche in prima fila alle messe cantate a quelle della gente comune che chiede sommessamente aiuto dal fondo? Non propriamente. Per lui, da condannare al limite della cacciata sono quei cristiani che non si arrendono alla globalizzazione delle anime, che rimangono perplessi davanti alla fabbrica di povertà che sono le migrazioni a senso unico, che hanno il senso della storia occidentale e dell'identità dei padri. E che, da buoni cittadini, distinguono fra bisogni spirituali e laicità dello Stato. Sintetizzando per non essere ipocriti, chi non ha ancora voltato le spalle al governo M5s-Lega, chi non ha ancora mandato al rogo Matteo Salvini e Luigi Di Maio, chi non si è ancora tuffato dentro il mainstream mediatico che va da Paolo Gentiloni a Gad Lerner non può essere un buon cristiano. Quindi prenda la porta. Il Papa non si ferma qui, decide di compilare una classifica che non tiene conto del comportamento davanti ai comandamenti e ai sacramenti, ma antepone la carità a tutto. E dopo aver intimato di non «parlare a Dio come un pappagallo», approfondisce: «Il cristiano non è uno che si impegna a essere più buono degli altri, sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è un uomo che sosta davanti alla rivelazione di un Dio che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome del Padre, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie». Dopo avere sottolineato che saranno beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore (è sempre il Discorso della Montagna a fungere da leit motiv) il Santo Padre affonda sulle pecorelle non progressiste e quindi non teologicamente liberate un'altra randellata: «C'è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio; lo fanno per essere ammirati dagli uomini. La preghiera cristiana invece non ha altro testimone credibile che la propria coscienza». Il problema è che, se la coscienza individuale è un salvagente, quella collettiva non può essere solo e sempre un canotto. Il messaggio è potente, il Papa lo ha certamente ponderato a lungo. Anche perché di questi tempi, con le chiese non proprio ricolme di fedeli, distinguere buoni e cattivi cristiani dall'approccio politico è un gesto che lui stesso in altri contesti definirebbe «divisivo». Ancorandosi a queste parole non si può non notare che è cominciato un percorso contrario alla libertà di coscienza civile e di espressione politica; un percorso che porta all'identificazione - non ancora di un partito - ma di un'area ben precisa di influenza dentro cui il buon cattolico dovrebbe riconoscersi per potersi definire tale. Operazione impervia soprattutto al Nord dove buona parte delle amministrazioni (con un palpabile carico di efficienza, concretezza, coesione sociale) è passata direttamente dalla vecchia Democrazia cristiana alla Lega, con un processo osmotico durato una ventina d'anni quando Jorge Mario Bergoglio stava dall'altra parte del pianeta. Nelle parole di Francesco si coglie anche una sorta di fascinazione nei confronti dell'ateismo e della sua declinazione più palesemente ipocrita, quella degli atei devoti (ossimoro letterario da libreria Feltrinelli). Un'indulgenza che ha avuto rumorosa conferma la notte di Natale in uno dei capisaldi della cristianità, Sant'Ambrogio a Milano, dove a spiegazione dell'omelia il sacerdote non ha trovato di meglio che citare (unico con nome e cognome) Jean Paul Sartre, principe negazionista della nascita stessa di Cristo. Eppure la conclusione del primo destabilizzante ruggito è tutt'altro che adatta ai trulleri turisti della fede. Il Santo Padre sottolinea infatti che «È bello pensare che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore. Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. Lui ci ama tanto». E a differenza sua ci ama tutti.