2020-06-27
Il pane, radici da portare sempre con sé
Sta scomparendo la tradizione di conservarne un pezzetto durante un trasloco o se si cambia città per non spezzare legami. Scuro o bianco, con semi, frutta secca, verdure e condimenti vari, solo nell'area Mediterranea se ne contano 1.500 varietà.Abbiamo lasciato gli Argonauti, due sabati fa, in navigazione verso la Colchide con il panbiscotto in bocca. Inventato per caso dal fornaio di Giasone, addormentatosi durante l'ultima infornata, il pane biscotto dei marinai divenne uno degli alimenti più importanti da tenere in cambusa per i lunghi viaggi in mare. Dal mito del vello d'oro alla diaspora di Troia dopo la caduta della città il passo è breve e ci permette di riprendere l'affascinante storia del pane con la leggenda della frisella di Enea, figlio di Anchise e di Venere, che in fuga dalla città di Priamo sbarca nel Salento e fa conoscere una ciambella croccante, tagliata a metà e biscottata, che aveva nutrito la sua gente durante la fuga in mare: la frisella, appunto.La storia dell'alimentazione, però, dice che la frisella è di origine fenicia. Era il pane da viaggio che resisteva al mare e durava nel tempo degli indomiti marinai-mercanti che s'avventuravano sulle rotte mediterranee e su quelle che varcavano le colonne d'Ercole. Quando gli veniva l'uzzolo di sbocconcellare qualcosa, il marinaio fenicio pucciava la frisella in mare, la ritirava salata e ammorbidita al punto giusto, la condiva con un filo d'olio d'oliva, vi stendeva sopra fette di cipolla e... buon appetito. Nella sfiziosa ricetta ammodernata si possono aggiungere olive, pomodoro a fettine, formaggio e origano. Dopo aver venerato e ringraziato Demetra, dea del grano, per il dono del pane, i Greci cominciano a mangiare pane e filosofia con Platone, che nel Gorgia esalta il fornaio Tearione, una sorta di Canavacciuolo del pane del tempo di Pericle. Ateneo, storico greco-egiziano del III secolo dopo Cristo, riferisce minuziosamente nell'opera Dotti a banchetto di 72 tipi di pane: dalla pagnotta ai pani di farina più o meno setacciata, dal pane all'olio a quello con i vari tipi di semi. Un'eredità cresciuta di secolo in secolo. Attualmente nell'area mediterranea si contano circa 1.500 tipi di pane, dall'azzimo ebraico alla pita araba che sta prendendo sempre più piede nel mondo occidentale grazie ai venditori di kebab. Si chiama pita anche il tipico pane greco, pite l'albanese. Pare che questo tipo di pane basso a forma di minuscolo disco volante, sia nato in Mesopotamia più di quattromila anni fa. Molti pani mediterranei sono arricchiti con semi (sesamo, papavero, zucca, girasole, lino), con frutta secca (noci, nocciole, fichi) o con verdure (olive, pomodorini, cipolle, broccoletti).Il controllo del pane e del potere vanno a braccetto. Lo capirono bene il senato e il popolo della Roma repubblicana che istituirono un'apposita magistratura, gli edili, per sorvegliare sull'equa distribuzione della farina e sui forni pubblici. Lo assimilarono altrettanto bene i Cesari della Roma imperiale che sedavano il popolo, quando si agitava, con dosi massicce di panem et circenses. Dopo essersi nutriti di pappette di farina i Romani conobbero finalmente, grazie ai Greci sottomessi, l'arte di cuocere il pane. Nell'Urbe erano numerosissimi i fornai greci. All'epoca di Augusto le panetterie erano 329. Alcune pitture pompeiane illustrano come fossero fotografie i banchi dei panettieri mentre servono i clienti.I libri di storia raccontano di numerose rivolte popolari scatenate da carestie e mancanza di pane. Famoso l'assalto ai forni raccontato da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. La miccia che innestò la rivoluzione francese fu la rabbia dei parigini che non avevano più pane. «Non hanno pane? Che mangino brioches», avrebbe suggerito Maria Antonietta. Ma la povera regina, diffamata da molti libri di storia, non disse quella frase. Era già stata citata 40 anni prima da Rousseau. Nella seconda metà dell'Ottocento, in Italia, dette origine a disordini l'odiosa tassa sul macinato, voluta da Quintino Sella ed entrata in vigore nel 1869. Fu tolta 15 anni dopo da Agostino Depretis.La cultura del pane conobbe un periodo di declino dopo la caduta dell'impero romano quando la Penisola fu invasa da orde di popolazioni nomadi, Unni, Goti, Longobardi e Franchi, più abituate alla selvaggina che al prodotto da forno. Fu proprio il pane a far da confine tra la barbarie e l'ultimo, traballante, residuo di civiltà. E fu il pane nostro quotidiano, introdotto dal cristianesimo, predicato da santi evangelizzatori, da vescovi e monaci, a penetrare con la sua carica dottrinale a poco a poco nelle coscienze dei nuovi convertiti, per finire loro in bocca: pane scuro, di cereali poveri, cotto in forni comuni o tra le braci del focolare per il proletariato; bianco, di grano, per l'aristocrazia e la ricca borghesia. Una differenza gastrosociale che sarebbe durata secoli, fino all'inizio del '900.Nell'epoca comunale i forni tornarono a essere numerosi e mugnai e fornai salirono nella scala sociale occupando posti onorevoli nella graduatoria delle corporazioni artigiane. Il Rinascimento portò a nuove conquiste nel processo di lievitazione. Nacquero nuovi tipi di pane: all'olio, al burro, alle olive, alle erbe aromatiche; e, in gran numero, pani dolci, con le uvette, lo zucchero, il miele, l'anice. Per secoli i fornai si sono svegliati in piena notte per cuocere il pane il cui impasto era stato preparato la sera prima e lasciato lievitare per alcune ore. All'alba doveva essere pronto per gli operai, gli artigiani, i bottegai. Il loro lavoro diventa meno pesante grazie alla rivoluzione industriale iniziata a metà '700 e continuata nell'800. Il forno si evolve, si meccanizza sempre più fino ad arrivare alle macchine attuali, computerizzate, che, praticamente, fanno tutto da sole. Il lavoro del fornaio resta duro, ma mai come quello di una volta.Curiosamente resistono nella popolazione molti usi e costumi legati al pane nati nella notte dei tempi. Chi ha una certa età sa che il pane si deve spezzare, non tagliare con il coltello. È un gesto comunitario: Gesù spezza il pane nell'ultima cena e lo passa ai suoi apostoli e lo spezza per i discepoli in Emmaus aprendo loro gli occhi. Anche il galateo invita a spezzare il pane, non a tagliarlo. Guai, poi, rovesciarlo in tavola, si commette peccato contro Gesù, contro la Madonna e si accresce la sofferenza di un parente defunto in purgatorio. Altri guai a buttar via un pezzo di pane. Anche le briciole bisognava raccogliere. «Altrimenti», ammonivano mamme e nonne, «quando ti presenterai alle porte del Paradiso un angelo ti metterà in mano un cesto bucato e ti manderà a raccogliere il pane che hai lasciato in giro».In molte Regioni italiane è viva l'usanza, in concomitanza con le feste di certi santi (Sant'Antonio di Padova, San Nicola da Tolentino, San Biagio) di sfornare pani speciali che saranno poi benedetti e distribuiti alla gente. Alcuni di essi riportano l'immagine del santo protettore o vengono impastati in forme particolari. In Calabria e in altre zone del sud ci sono i pani ex voto: modellati come una gamba, un braccio, un occhio o un'altra parte del corpo guarita per intercessione. Vengono offerti alla santa o al santo taumaturgo. Sta scomparendo la toccante tradizione di portare con sè, traslocando in una casa nuova o in una nuova città o emigrando in una nuova terra, un rosicchiolo di pane vecchio, un gesto simbolico che serve per mantenere un contatto con la vita di prima (il pane è radici) e un po' come portafortuna. Sembra scomparsa del tutto, invece, l'usanza di mettere un tocchettino di pane nella culla del neonato come segno di buon augurio.