2022-05-20
Il ministero orwelliano è già chiuso. Biden perde la faccia sulle fake news
Joe Biden. Nel riquadro, Nina Jankowicz. (Ansa)
L’organismo per il controllo della disinformazione era stato lanciato in pompa magna meno di un mese fa. Ma l’esperta anti trumpiana che lo guidava si è dimessa: troppo faziosa. E il progetto ora è fermo sine die.Clamorosa disfatta per Joe Biden. L’attuale amministrazione americana ha dovuto sospendere il board per la lotta alla disinformazione che aveva appena creato. Non solo: colei che ne era stata nominata direttrice, Nina Jankowicz, ha rassegnato le proprie dimissioni. Ma andiamo con ordine. La nascita dell’organo in questione era stata annunciata lo scorso 27 aprile dal Dipartimento per la sicurezza interna. Reazioni critiche si erano sin da subito registrate da parte del Partito repubblicano, che considerava questa commissione come lesiva della libertà di espressione, paragonandola al «ministero della verità» di orwelliana memoria. Tuttavia le polemiche più accese si erano concentrate sulla figura nominata a dirigere l’organo. Presentata come un’esperta di lotta alla disinformazione, è subito emerso che la Jankowicz vantava un passato «leggermente» controverso. Costei aveva infatti favorito la diffusione di fake news dirette - guarda caso - contro Donald Trump. Nell’agosto 2020, nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali, la Jankowicz rilanciò su Twitter alcuni commenti sull’«evoluzione della disinformazione», fatti dall’ex spia britannica, Christopher Steele: parliamo, cioè, dell’autore del noto dossier che additava Trump come colluso con la Russia. Peccato che quel documento si sia rivelato in larga parte infondato, oltre che finanziato dal comitato elettorale di Hillary Clinton. Non solo: a novembre 2016 la Jankowicz aveva rilanciato l’accusa della stessa Clinton, secondo cui Trump avrebbe intrattenuto malsane connessioni con l’istituto finanziario russo Alfa Bank: peccato che quell’accusa si è rivelata del tutto priva di fondamento ed è attualmente al centro del processo penale intentato dal procuratore speciale, John Durham, contro l’allora avvocato di Hillary, Michael Sussmann. Come se non bastasse, a ottobre 2020 la Jankowicz mise pesantemente in dubbio lo scoop del New York Post relativo al laptop di Hunter Biden, accodandosi a chi lanciava dubbie accuse di disinformazione russa. Purtroppo per lei, a marzo scorso, il New York Times e il Washington Post (due giornali non certo tacciabili di simpatie repubblicane) hanno dovuto ammettere non solo che quel pc esiste ma che le email in esso contenute sono autentiche. Tra l’altro, sempre a ottobre 2020, la Jankowicz minimizzò le tesi dell’allora direttore dell’intelligence nazionale, John Ratcliffe, secondo cui l’Iran stava cercando di interferire nel processo elettorale americano, per indebolire Trump. Eppure un rapporto dei servizi statunitensi del marzo 2021 rilevò che Teheran aveva «condotto una campagna di influenza segreta su più fronti intesa a minare le prospettive di rielezione dell’ex presidente Trump». Ebbene, le polemiche sui reali obiettivi del board e sulla faziosità politica della sua direttrice hanno portato al congelamento del progetto, che sarà adesso sottoposto a una non meglio precisata «revisione». «Avevo sperato che fossimo più trasparenti su come avrebbe operato il board e su cosa avrebbe fatto», ha detto la Jankowicz. «Per qualche ragione, ciò non è accaduto e quel vuoto di informazioni è solo cresciuto. E penso che il vuoto di informazioni abbia in qualche modo diretto molti degli attacchi e scavare nella mia vita personale», ha aggiunto, precisando di essere stata vittima di minacce. Sia chiaro: minacciare una persona è sempre un atto deprecabile e inammissibile. E tale principio vale (ovviamente) anche in questo caso. Bisogna però anche distinguere nettamente le minacce dal diritto di critica, evitando di fare di tutta l’erba un fascio. E allora sorgono alcune domande. Veramente il problema del board consisteva in semplici errori di comunicazione? Perché istituire un organo così opaco a pochi mesi dalle elezioni di metà mandato? Davvero la scelta della Jankowicz come direttrice non aveva motivazioni politiche? Serve a poco sciorinare il suo bellissimo curriculum, se poi si scopre - come ha fatto il Washington Examiner - che considerava un esempio di lotta alla disinformazione un’ex spia nota per propalare fake news a scopo politico. Che il dossier di Steele fosse stato finanziato dal comitato della Clinton era d’altronde noto già da ottobre 2017. Era invece luglio 2020 quando i senatori dell’elefantino pubblicarono documenti ufficiali che mostravano come per l’Fbi Steele non risultasse affidabile. Possibile che la Jankowicz ignorasse tutto questo? Forse, quando i repubblicani bollavano il board sulla disinformazione come uno strumento politico, non avevano proprio tutti i torti.