True
2018-09-26
Il ministero inchioda Autostrade: «Il rischio di crolli era evidente»
Ansa
Il governo del cambiamento una cosa l'ha cambiata. I tempi per la pubblicazione delle carte riservate. Ieri il ministero dei Trasporti ha messo online, quasi in tempo reale, la relazione dei commissari scelti dal ministro Danilo Toninelli per individuare le cause del crollo del ponte Morandi di Genova. Sul sito del Mit è così stato possibile leggere le 250 pagine della relazione firmata dall'ingegner Alfredo Principio Mortellaro (presidente) e da quattro colleghi ingegneri. Il contenuto è una sentenza di colpevolezza per Autostrade che anticipa di qualche anno quella dei tribunali. Il primo dato pazzesco che emerge è il seguente: dal 1982 a oggi per gli interventi strutturali sul viadotto sono stati spesi 24.610.500 euro. Ebbene il 98% di quei soldi (1,3 milioni l'anno di media) è stato investito nei primi 17 anni, ovvero sino al 1999, quando la rete venne privatizzata e quel tratto ceduto ai Benetton. Nei successivi 19 anni (sino all'agosto 2018) la spesa è scesa a 23.000 euro l'anno, 470.000 in tutto. In effetti tra il 1982 e il 1992 vennero effettuati investimenti per la manutenzione di campate e stralli, la sostituzione di cavi e il retrofitting dei cavi della pila 11. Da allora solo lavoretti.
Per i commissari «emerge un'irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria (…) come ad esempio la pulizia della rete di scarico dei pluviali segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale». Ma secondo gli esperti scelti dal ministero questa sciatteria avrebbe una precisa logica visto che nel piano economico finanziario della convenzione tra Stato e privati gli interventi straordinari garantivano «maggiore rimuneratività» e ne discende «come logico corollario, una massimalizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali». Aspi ha dichiarato il 23 giugno 2017 di aver effettuato le valutazioni di sicurezza sul ponte (che avrebbero permesso di fare stime sul rischio crollo), ma secondo la Commissione tale valutazione non risulterebbe agli atti.
Il progettista, l'ingegnere Riccardo Morandi, aveva messo in guardia circa le problematiche dell'aggressività ambientale, che potevano esaltare gli aspetti negativi. Già dal 1993 era chiaro che la corrosione era stata innescata in tutta l'opera eppure, al posto di «indagini esaustive», i commissari hanno trovato negli archivi di Autostrade delle semplici schede ispettive. È vero che Aspi ha monitorato l'ammaloramento del viadotto, ma le misure adottate «erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema». La bocciatura dei commissari è senza appello: «La procedura di controllo della sicurezza (…) documentata da Aspi e basata sulle ispezioni, è stata in passato, ed è tuttora, inadatta a prevenire i crolli e del tutto insufficiente per la stima della sicurezza nei confronti del collasso». Un metodo che può andare bene per l'ordinaria manutenzione, ma che non è in grado di prevedere «gli stati limite ultimi». Per esempio la presenza di cavi rotti non ha fatto scattare l'allarme, facendo estendere l'ispezione a tutti gli altri cavi. Inoltre le risposte del ponte agli esami propedeutici al progetto esecutivo di ammodernamento del 2017 avrebbero dovuto portare a «un provvedimento di messa in sicurezza improcrastinabile». In particolare la Commissione mette sotto processo lo stato precario degli impalcati tampone del viadotto - le travi di sostegno della sede stradale - visto che Aspi ne aveva rinforzati solo 3 su 10. Per la Commissione la causa del crollo, avvenuto con forti «dissimmetrie», non andrebbe ricercata «tanto nella rottura di uno o più stralli, quanto in quella di uno dei restanti elementi strutturali» come le travi degli impalcati tampone, «la cui sopravvivenza era condizionata dall'avanzato stato di corrosione degli elementi strutturali».
Su impalcati e travi risulta un'ispezione del 2012. Si era verificato il distacco di un'anima di metallo e i fili rotti erano ben visibili. All'intervento fu dato un valore molto basso: 40. Per la commissione la valutazione non era assolutamente coerente con il danno. E siccome quel difetto «ha influenza sulla statica e riduce la sicurezza», puntualizzano i tecnici del Mit, il coefficiente esatto avrebbe dovuto essere 70.
Gli ispettori criticano pure il progetto di retrofitting (miglioramento) del viadotto presentato da Autostrade a inizio anno. La società, secondo gli ispettori, «minimizzò e celò (...) gli elementi conoscitivi» in suo possesso, impedendo allo Stato di esercitare le funzioni di controllo. Una delle prove, secondo i commissari, sta nell'aver definito come di semplice «retrofitting» un'opera, in realtà, di «ripristino e rinforzo». Il parere favorevole al piano «è intervenuto a seguito di un esame rapido e apparentemente non approfondito (…) Nessuno quindi, né Autostrade, né la Divisione 4 (del ministero, ndr), né il comitato tecnico amministrativo del Provveditorato ha colto la necessità di valutare l'importanza del progetto e la sua coerenza con la particolare e complessa struttura portante del Viadotto Polcevera».
La società controllata dai Benetton , che in serata ha fatto sapere che quelle della commissione sarebbero solo «mere ipotesi ancora da dimostrare», più che preoccuparsi di fare una seria «analisi di sicurezza», avrebbe preferito «sollecitare l'approvazione del progetto» che prevedeva «solo una parziale messa in sicurezza della parte strallata del ponte». Non basta. Autostrade, acquisito il parere del Politecnico, che evidenziava la «necessità di un diverso monitoraggio dell'opera», non vi ha «tuttavia dato corso». In definitiva Aspi «pur a conoscenza di un accentuato degrado del viadotto e in particolare delle parti orizzontali (…) non ha ritenuto di provvedere al loro immediato ripristino e per di più non ha adottato nessuna misura precauzionale a tutela dell'utenza». La «responsabilità più rilevante» di Aspi resta quella di non essersi «avvalsa dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto (…)» e non aver eseguito «conseguentemente tutti gli interventi necessari per evitare il crollo».
Giacomo Amadori
Fabio Amendolara
Sopralluoghi il 2 ottobre, a dicembre la prima udienza
Una lunga coda davanti al Palazzo di Giustizia di Genova: legali, periti, familiari delle vittime. Anche tanti cittadini, genovesi che si sono presentati all'esterno del Tribunale per esprimere la loro vicinanza alle famiglie delle vittime. Chiedono chiarezza, chiedono giustizia, chiedono di sapere la verità: perché è crollato quel ponte, di chi è la responsabilità di questa immane tragedia. Immagini dell'inizio di un processo che segnerà la storia del nostro Paese. Ieri mattina, nell'aula bunker del Palazzo di Giustizia, è iniziato l'incidente probatorio per il crollo del ponte Morandi, costato la vita a 43 persone. Sono 20 gli indagati, tra i quali i vertici di Autostrade (indagata a sua volta come soggetto giuridico), i tecnici della società Spea (a sua volta indagata), controllata dal gruppo Atlantia, e dirigenti del ministero delle Infrastrutture, chiamati a rispondere di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale e disastro colposo. Presente in aula il provveditore alle opere pubbliche di Liguria, Piemonte e Valle d'Aosta, Roberto Ferrazza, indagato, che si è detto «sereno e tranquillo».
All'incidente probatorio sono state ammesse a partecipare le 145 parti offese, tra familiari delle vittime e feriti. Tra le parti offese, non si è ancora costituito il ministero delle Infrastrutture: «Ci costituiremo parte civile», ha spiegato il ministro, Danilo Toninelli, «appena ne avremo facoltà, ossia in sede di udienza preliminare, dopo che la Procura avrà esercitato l'azione penale mediante la formulazione dei capi di imputazione». Nel corso dell'incidente probatorio il Gip, Angela Nutini, ha rigettato la richiesta di Cgil e altre realtà sindacali di costituirsi parte offesa nel processo, mentre ha accolto la richiesta del Codacons. L'udienza è andata avanti per tutta la mattinata.
Al termine, il Gip Nutini ha stabilito che i suoi tre periti, Giampaolo Rosati, Massimo Losa e Bernhard Elsener, avranno 60 giorni di tempo per effettuare le operazioni di sopralluogo, repertazione e catalogazione dei resti dei monconi del ponte Morandi. Il primo sopralluogo dei periti, insieme ai consulenti dei 20 indagati e dei familiari delle vittime, è stato fissato per il 2 ottobre. Al termine dei 60 giorni, i tecnici discuteranno le conclusioni della perizia in una apposita udienza fissata al 17 e al 18 dicembre.
«Salvo eventuali proroghe», ha detto al termine dell'incidente probatorio l'avvocato Andrea Martini, legale della famiglia Robbiano, il piccolo Samuele e i genitori morti nel crollo del ponte Morandi, «la demolizione potrà partire solo dopo che le prove saranno assicurate, quindi non prima di dicembre. Sarà poi un secondo incidente probatorio che dovrà accertare le cause del crollo e l'individuazione dei responsabili». «In teoria», ha commentato il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, «non appena il ponte sarà dissequestrato, ci sono le condizioni per intimare a tutti i soggetti di procedere alla demolizione e alla ricostruzione. Penso che la Procura avvierà le procedure per il dissequestro dopo l'incidente probatorio». Quindi tra due mesi.
Carlo Tarallo
Il decreto ricostruzione arriva, con polemica
Il decreto Genova? Ancora non è stato reso pubblico che la burocrazia già tenta di demolirlo. La stessa burocrazia a che fino a ieri era un ingranaggio silente dietro alle volontà dei governi e che invece ora, sempre più spesso, dice la sua. Pubblicamente, facendo trapelare notizie, anticipando la politica. Il decreto Genova è l'ultimo terreno di questo scontro. Con questo provvedimento il governo grilloleghista deciderà il destino del moncone del ponte Morandi - che ancora minaccia i caseggiati, ormai vuoti, che affacciano sul Polcevera - e le tappe del cantiere per la ricostruzione dopo il disastro dello scorso 14 agosto.
Il documento, in lavorazione da giorni, atteso per queste ore, ancora non è stato reso noto. Eppure, attraverso indiscrezioni di stampa, si apprende che la Ragioneria generale dello Stato ha fatto sapere che qualcosa non va, perché le coperture economiche sono «indeterminate». Secondo i tecnici del ministero dell'Economia e delle Finanze, infatti, come riportato ieri dal Secolo XIX, il decreto sarebbe «arrivato incompleto» e «senza alcuna indicazione degli oneri e delle relative coperture» e per questo sarebbe stato stoppato.
Tesi che è stata smentita seccamente - e repentinamente - da una nota ufficiale di Palazzo Chigi, che ha replicato: «Le notizie non corrispondono al vero». Forse per non esacerbare lo scontro già in essere da giorni, nel tardo pomeriggio gli stessi tecnici ministeriali avrebbero aggiustato il tiro, precisando di non aver bloccato il decreto ma di stare «lavorando attivamente per valutare le quantificazioni dei costi e individuare le possibili coperture da sottoporre alle amministrazioni proponenti. Nelle prossime ore (probabilmente mentre questo giornale è andato in stampa, ndr) la bollinatura, poi la trasmissione al Quirinale». Una dialettica che di per sé non avrebbe nulla avrebbe di speciale, considerato che la Ragioneria generale dello Stato è un «organo centrale di supporto e verifica per parlamento e governo nelle politiche di bilancio». La vis polemica sta, però, nelle sottolineature sul passaggio (tecnicamente scontato) con i tempi giusti per dare l'assist alle critiche dei detrattori.
Ma partiamo dall'inizio.
Il decreto che deve decidere chi e come demolirà il moncone di ponte pericolante rimasto in piedi dopo la tragedia di Genova è atteso, certamente con ansia, da giorni. Domenica sulla questione era intervenuto il premier Giuseppe Conte, annunciando che il decreto si trovava già in quel momento «al vaglio del Mef in attesa degli ultimi rilievi, prima di essere sottoposto al Quirinale per poi essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale». Ieri, a Genova, era giorno di seduta del consiglio comunale e il Pd ha lanciato una proposta: tenere aperta la seduta fino all'arrivo del decreto sul ponte (per rimarcare i tempi d'attesa?). La proposta è stata bocciata ma nel frattempo ecco spuntare le indiscrezioni dalla Ragioneria di Stato. Giuste giuste per scatenare le invettive della sinistra, come quelle di Luca Pastorino (Leu): «Il limite è stato superato: il decreto per Genova ancora non arriva e addirittura, da quanto si apprende dalla stampa, il testo è stato inviato alla Ragioneria di Stato senza coperture. Ecco questo è un atto di peggiore dilettantismo, che offende l'intera città abbandonata dal governo al di là dei soliti proclami». Ma davvero la Ragioneria può bloccare un decreto? Sì. In Italia la Ragioneria generale ha, tra gli altri, il compito di vidimare i provvedimenti con impatto economico. L'operazione si chiama bollinatura, una sorta di via libera senza il quale qualsiasi provvedimento si blocca.
A capo della Ragioneria generale c'è Daniele Franco, il direttore del dipartimento che Conte ha incontrato per tentare di ricucire lo strappo, tra tecnici e governo, emerso con chiarezza dall'audio di Rocco Casalino reso pubblico qualche giorno fa.
Franco è cresciuto nella Banca d' Italia, dove è stato capo del servizio studi e - fino ad oggi - il suo nome non era noto al di fuori degli ambienti tecnici. Solo in un'altra occasione l'istituto da lui guidato aveva reso palesi le proprie obiezioni ad un provvedimento del governo. Fu per gli 80 euro di Renzi e fu il Quirinale a diffondere la notizia dello stop della Ragioneria. Era ottobre 2014 e presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano.
Alessia Pedrielli
Continua a leggere
Riduci
La commissione ispettiva dei Trasporti parla di «inequivocabili segnali di allarme» che il concessionario avrebbe «minimizzato o celato».Sopralluoghi il 2 ottobre, a dicembre la prima udienza. Ieri l'incidente probatorio: 145 parti offese tra feriti e parenti di vittime. I periti avranno due mesi di tempo per catalogare i reperti.Il decreto ricostruzione arriva, con polemica. Sul dl i burocrati frenano («non ha copertura») poi il Mef smentisce e va avanti: «È pronto per il Quirinale».Lo speciale comprende tre articoli. Il governo del cambiamento una cosa l'ha cambiata. I tempi per la pubblicazione delle carte riservate. Ieri il ministero dei Trasporti ha messo online, quasi in tempo reale, la relazione dei commissari scelti dal ministro Danilo Toninelli per individuare le cause del crollo del ponte Morandi di Genova. Sul sito del Mit è così stato possibile leggere le 250 pagine della relazione firmata dall'ingegner Alfredo Principio Mortellaro (presidente) e da quattro colleghi ingegneri. Il contenuto è una sentenza di colpevolezza per Autostrade che anticipa di qualche anno quella dei tribunali. Il primo dato pazzesco che emerge è il seguente: dal 1982 a oggi per gli interventi strutturali sul viadotto sono stati spesi 24.610.500 euro. Ebbene il 98% di quei soldi (1,3 milioni l'anno di media) è stato investito nei primi 17 anni, ovvero sino al 1999, quando la rete venne privatizzata e quel tratto ceduto ai Benetton. Nei successivi 19 anni (sino all'agosto 2018) la spesa è scesa a 23.000 euro l'anno, 470.000 in tutto. In effetti tra il 1982 e il 1992 vennero effettuati investimenti per la manutenzione di campate e stralli, la sostituzione di cavi e il retrofitting dei cavi della pila 11. Da allora solo lavoretti. Per i commissari «emerge un'irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria (…) come ad esempio la pulizia della rete di scarico dei pluviali segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale». Ma secondo gli esperti scelti dal ministero questa sciatteria avrebbe una precisa logica visto che nel piano economico finanziario della convenzione tra Stato e privati gli interventi straordinari garantivano «maggiore rimuneratività» e ne discende «come logico corollario, una massimalizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali». Aspi ha dichiarato il 23 giugno 2017 di aver effettuato le valutazioni di sicurezza sul ponte (che avrebbero permesso di fare stime sul rischio crollo), ma secondo la Commissione tale valutazione non risulterebbe agli atti.Il progettista, l'ingegnere Riccardo Morandi, aveva messo in guardia circa le problematiche dell'aggressività ambientale, che potevano esaltare gli aspetti negativi. Già dal 1993 era chiaro che la corrosione era stata innescata in tutta l'opera eppure, al posto di «indagini esaustive», i commissari hanno trovato negli archivi di Autostrade delle semplici schede ispettive. È vero che Aspi ha monitorato l'ammaloramento del viadotto, ma le misure adottate «erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema». La bocciatura dei commissari è senza appello: «La procedura di controllo della sicurezza (…) documentata da Aspi e basata sulle ispezioni, è stata in passato, ed è tuttora, inadatta a prevenire i crolli e del tutto insufficiente per la stima della sicurezza nei confronti del collasso». Un metodo che può andare bene per l'ordinaria manutenzione, ma che non è in grado di prevedere «gli stati limite ultimi». Per esempio la presenza di cavi rotti non ha fatto scattare l'allarme, facendo estendere l'ispezione a tutti gli altri cavi. Inoltre le risposte del ponte agli esami propedeutici al progetto esecutivo di ammodernamento del 2017 avrebbero dovuto portare a «un provvedimento di messa in sicurezza improcrastinabile». In particolare la Commissione mette sotto processo lo stato precario degli impalcati tampone del viadotto - le travi di sostegno della sede stradale - visto che Aspi ne aveva rinforzati solo 3 su 10. Per la Commissione la causa del crollo, avvenuto con forti «dissimmetrie», non andrebbe ricercata «tanto nella rottura di uno o più stralli, quanto in quella di uno dei restanti elementi strutturali» come le travi degli impalcati tampone, «la cui sopravvivenza era condizionata dall'avanzato stato di corrosione degli elementi strutturali».Su impalcati e travi risulta un'ispezione del 2012. Si era verificato il distacco di un'anima di metallo e i fili rotti erano ben visibili. All'intervento fu dato un valore molto basso: 40. Per la commissione la valutazione non era assolutamente coerente con il danno. E siccome quel difetto «ha influenza sulla statica e riduce la sicurezza», puntualizzano i tecnici del Mit, il coefficiente esatto avrebbe dovuto essere 70.Gli ispettori criticano pure il progetto di retrofitting (miglioramento) del viadotto presentato da Autostrade a inizio anno. La società, secondo gli ispettori, «minimizzò e celò (...) gli elementi conoscitivi» in suo possesso, impedendo allo Stato di esercitare le funzioni di controllo. Una delle prove, secondo i commissari, sta nell'aver definito come di semplice «retrofitting» un'opera, in realtà, di «ripristino e rinforzo». Il parere favorevole al piano «è intervenuto a seguito di un esame rapido e apparentemente non approfondito (…) Nessuno quindi, né Autostrade, né la Divisione 4 (del ministero, ndr), né il comitato tecnico amministrativo del Provveditorato ha colto la necessità di valutare l'importanza del progetto e la sua coerenza con la particolare e complessa struttura portante del Viadotto Polcevera». La società controllata dai Benetton , che in serata ha fatto sapere che quelle della commissione sarebbero solo «mere ipotesi ancora da dimostrare», più che preoccuparsi di fare una seria «analisi di sicurezza», avrebbe preferito «sollecitare l'approvazione del progetto» che prevedeva «solo una parziale messa in sicurezza della parte strallata del ponte». Non basta. Autostrade, acquisito il parere del Politecnico, che evidenziava la «necessità di un diverso monitoraggio dell'opera», non vi ha «tuttavia dato corso». In definitiva Aspi «pur a conoscenza di un accentuato degrado del viadotto e in particolare delle parti orizzontali (…) non ha ritenuto di provvedere al loro immediato ripristino e per di più non ha adottato nessuna misura precauzionale a tutela dell'utenza». La «responsabilità più rilevante» di Aspi resta quella di non essersi «avvalsa dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto (…)» e non aver eseguito «conseguentemente tutti gli interventi necessari per evitare il crollo».Giacomo AmadoriFabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-ministero-inchioda-autostrade-il-rischio-di-crolli-era-evidente-2607904814.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="sopralluoghi-il-2-ottobre-a-dicembre-la-prima-udienza" data-post-id="2607904814" data-published-at="1765389938" data-use-pagination="False"> Sopralluoghi il 2 ottobre, a dicembre la prima udienza Una lunga coda davanti al Palazzo di Giustizia di Genova: legali, periti, familiari delle vittime. Anche tanti cittadini, genovesi che si sono presentati all'esterno del Tribunale per esprimere la loro vicinanza alle famiglie delle vittime. Chiedono chiarezza, chiedono giustizia, chiedono di sapere la verità: perché è crollato quel ponte, di chi è la responsabilità di questa immane tragedia. Immagini dell'inizio di un processo che segnerà la storia del nostro Paese. Ieri mattina, nell'aula bunker del Palazzo di Giustizia, è iniziato l'incidente probatorio per il crollo del ponte Morandi, costato la vita a 43 persone. Sono 20 gli indagati, tra i quali i vertici di Autostrade (indagata a sua volta come soggetto giuridico), i tecnici della società Spea (a sua volta indagata), controllata dal gruppo Atlantia, e dirigenti del ministero delle Infrastrutture, chiamati a rispondere di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale e disastro colposo. Presente in aula il provveditore alle opere pubbliche di Liguria, Piemonte e Valle d'Aosta, Roberto Ferrazza, indagato, che si è detto «sereno e tranquillo». All'incidente probatorio sono state ammesse a partecipare le 145 parti offese, tra familiari delle vittime e feriti. Tra le parti offese, non si è ancora costituito il ministero delle Infrastrutture: «Ci costituiremo parte civile», ha spiegato il ministro, Danilo Toninelli, «appena ne avremo facoltà, ossia in sede di udienza preliminare, dopo che la Procura avrà esercitato l'azione penale mediante la formulazione dei capi di imputazione». Nel corso dell'incidente probatorio il Gip, Angela Nutini, ha rigettato la richiesta di Cgil e altre realtà sindacali di costituirsi parte offesa nel processo, mentre ha accolto la richiesta del Codacons. L'udienza è andata avanti per tutta la mattinata. Al termine, il Gip Nutini ha stabilito che i suoi tre periti, Giampaolo Rosati, Massimo Losa e Bernhard Elsener, avranno 60 giorni di tempo per effettuare le operazioni di sopralluogo, repertazione e catalogazione dei resti dei monconi del ponte Morandi. Il primo sopralluogo dei periti, insieme ai consulenti dei 20 indagati e dei familiari delle vittime, è stato fissato per il 2 ottobre. Al termine dei 60 giorni, i tecnici discuteranno le conclusioni della perizia in una apposita udienza fissata al 17 e al 18 dicembre. «Salvo eventuali proroghe», ha detto al termine dell'incidente probatorio l'avvocato Andrea Martini, legale della famiglia Robbiano, il piccolo Samuele e i genitori morti nel crollo del ponte Morandi, «la demolizione potrà partire solo dopo che le prove saranno assicurate, quindi non prima di dicembre. Sarà poi un secondo incidente probatorio che dovrà accertare le cause del crollo e l'individuazione dei responsabili». «In teoria», ha commentato il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, «non appena il ponte sarà dissequestrato, ci sono le condizioni per intimare a tutti i soggetti di procedere alla demolizione e alla ricostruzione. Penso che la Procura avvierà le procedure per il dissequestro dopo l'incidente probatorio». Quindi tra due mesi. Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-ministero-inchioda-autostrade-il-rischio-di-crolli-era-evidente-2607904814.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-decreto-ricostruzione-arriva-con-polemica" data-post-id="2607904814" data-published-at="1765389938" data-use-pagination="False"> Il decreto ricostruzione arriva, con polemica Il decreto Genova? Ancora non è stato reso pubblico che la burocrazia già tenta di demolirlo. La stessa burocrazia a che fino a ieri era un ingranaggio silente dietro alle volontà dei governi e che invece ora, sempre più spesso, dice la sua. Pubblicamente, facendo trapelare notizie, anticipando la politica. Il decreto Genova è l'ultimo terreno di questo scontro. Con questo provvedimento il governo grilloleghista deciderà il destino del moncone del ponte Morandi - che ancora minaccia i caseggiati, ormai vuoti, che affacciano sul Polcevera - e le tappe del cantiere per la ricostruzione dopo il disastro dello scorso 14 agosto. Il documento, in lavorazione da giorni, atteso per queste ore, ancora non è stato reso noto. Eppure, attraverso indiscrezioni di stampa, si apprende che la Ragioneria generale dello Stato ha fatto sapere che qualcosa non va, perché le coperture economiche sono «indeterminate». Secondo i tecnici del ministero dell'Economia e delle Finanze, infatti, come riportato ieri dal Secolo XIX, il decreto sarebbe «arrivato incompleto» e «senza alcuna indicazione degli oneri e delle relative coperture» e per questo sarebbe stato stoppato. Tesi che è stata smentita seccamente - e repentinamente - da una nota ufficiale di Palazzo Chigi, che ha replicato: «Le notizie non corrispondono al vero». Forse per non esacerbare lo scontro già in essere da giorni, nel tardo pomeriggio gli stessi tecnici ministeriali avrebbero aggiustato il tiro, precisando di non aver bloccato il decreto ma di stare «lavorando attivamente per valutare le quantificazioni dei costi e individuare le possibili coperture da sottoporre alle amministrazioni proponenti. Nelle prossime ore (probabilmente mentre questo giornale è andato in stampa, ndr) la bollinatura, poi la trasmissione al Quirinale». Una dialettica che di per sé non avrebbe nulla avrebbe di speciale, considerato che la Ragioneria generale dello Stato è un «organo centrale di supporto e verifica per parlamento e governo nelle politiche di bilancio». La vis polemica sta, però, nelle sottolineature sul passaggio (tecnicamente scontato) con i tempi giusti per dare l'assist alle critiche dei detrattori. Ma partiamo dall'inizio. Il decreto che deve decidere chi e come demolirà il moncone di ponte pericolante rimasto in piedi dopo la tragedia di Genova è atteso, certamente con ansia, da giorni. Domenica sulla questione era intervenuto il premier Giuseppe Conte, annunciando che il decreto si trovava già in quel momento «al vaglio del Mef in attesa degli ultimi rilievi, prima di essere sottoposto al Quirinale per poi essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale». Ieri, a Genova, era giorno di seduta del consiglio comunale e il Pd ha lanciato una proposta: tenere aperta la seduta fino all'arrivo del decreto sul ponte (per rimarcare i tempi d'attesa?). La proposta è stata bocciata ma nel frattempo ecco spuntare le indiscrezioni dalla Ragioneria di Stato. Giuste giuste per scatenare le invettive della sinistra, come quelle di Luca Pastorino (Leu): «Il limite è stato superato: il decreto per Genova ancora non arriva e addirittura, da quanto si apprende dalla stampa, il testo è stato inviato alla Ragioneria di Stato senza coperture. Ecco questo è un atto di peggiore dilettantismo, che offende l'intera città abbandonata dal governo al di là dei soliti proclami». Ma davvero la Ragioneria può bloccare un decreto? Sì. In Italia la Ragioneria generale ha, tra gli altri, il compito di vidimare i provvedimenti con impatto economico. L'operazione si chiama bollinatura, una sorta di via libera senza il quale qualsiasi provvedimento si blocca. A capo della Ragioneria generale c'è Daniele Franco, il direttore del dipartimento che Conte ha incontrato per tentare di ricucire lo strappo, tra tecnici e governo, emerso con chiarezza dall'audio di Rocco Casalino reso pubblico qualche giorno fa. Franco è cresciuto nella Banca d' Italia, dove è stato capo del servizio studi e - fino ad oggi - il suo nome non era noto al di fuori degli ambienti tecnici. Solo in un'altra occasione l'istituto da lui guidato aveva reso palesi le proprie obiezioni ad un provvedimento del governo. Fu per gli 80 euro di Renzi e fu il Quirinale a diffondere la notizia dello stop della Ragioneria. Era ottobre 2014 e presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano. Alessia Pedrielli
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggere
Riduci
Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
Continua a leggere
Riduci
Getty Images
Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
Continua a leggere
Riduci