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2019-06-08
La responsabilità è del Pd
anche se ora si finge scandalizzato
Ansa
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, abituale frequentatore di Procure come persona informata dei fatti (a Firenze i più attenti hanno già contato quattro sue audizioni) e non certo come indagato, ha le carte in regola, asseriscono i suoi, per mettere mano anche alla riforma della giustizia. O almeno alla sua riorganizzazione dal punto di vista amministrativo. Peccato che le nuove norme contenute nel decreto legge sulla pubblica amministrazione sembrino avere un solo obiettivo: occupare manu militari il potere giudiziario come neanche nella Corea del Nord. Un piano contro il quale il presidente Giorgio Napolitano sembra essersi opposto solo in parte. Il Quirinale avrebbe infatti dato il suo parere negativo all'immediato prepensionamento di oltre 400 tra giudici e procuratori, a causa dell'abbassamento dell'età pensionabile a 70 anni. Il ricambio generazionale potrà iniziare tra tre anni, nel 2017. Ma eccoci alla seconda parte del piano renziano. A luglio ci saranno le elezioni per rinnovare il Consiglio superiore della magistratura e la maggioranza parlamentare dovrebbe piazzare cinque membri laici e un vicepresidente di peso. Sarà poi questo Csm «matteizzato» a scegliere i nuovi procuratori e presidenti di tribunale, sino alla rivoluzione del 2017. Un piano che i magistrati non allineati considerano scellerato. Lo spiega a Libero Andrea Reale, giudice dell'udienza preliminare a Ragusa e unico membro su 36 del Comitato direttivo dell'Associazione nazionale magistrati non appartenente alla troika di correnti Unicost, Area e Magistratura indipendente, bensì esponente della cosiddetta Proposta B, quella di chi vorrebbe un Csm selezionato per sorteggio e non monopolizzato da logiche politiche e partitiche. «Ho presentato un'istanza per chiedere di riunire il comitato direttivo per una doverosa discussione. Questa bozza è a mio modo di vedere un vero e proprio attentato all'indipendenza interna della magistratura e in particolare a quella delle singole toghe. Infatti impedisce per legge di difendere la loro legittima aspettativa a un posto direttivo o semidirettivo. Per me si tratta di una norma incostituzionale perché gli articoli 24 e 103 della Suprema carta garantiscono a tutti i cittadini la tutela dei propri interessi legittimi e di poter ricorrere per motivi di legittimità sostanziale ai giudici amministrativi». Diritto che ora verrebbe calpestato. Ma che cosa dice esattamente l'articolo incriminato? «Contro i provvedimenti concernenti il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi, il controllo del giudice amministrativo ha per oggetto solo la legittimità formale e procedurale del provvedimento di nomina e la verifica che esso non sia manifestamente volto a perseguire finalità arbitrarie, diverse dal buon funzionamento degli uffici giudiziari». Praticamente i magistrati che riterranno ingiusta una nomina e che penseranno di avere titoli migliori di chi gli ha soffiato il posto in un determinato ufficio non potranno più rivolgersi al Tar. A meno che non riescano a dimostrare le succitate «finalità arbitrarie» da parte del Csm. «Un'impresa impossibile» conclude Reale. In sostanza il decreto introduce un regime di non impugnabilità delle delibere di nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari. Ma è nella coda dell'articolo che c'è il vero veleno e riguarda l'ipotesi in cui un magistrato avrà avuto la possibilità di rivolgersi al Tar e avrà vinto: «Nel caso di azione di ottemperanza il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l'ottemperanza e assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere». La manina dell'estensore del decreto aggiunge che in questi casi viene abolito il commissario ad acta, l'unico organo terzo in grado di far rispettare la sentenza. «Chiedere al Csm di rivedere le proprie decisioni è come chiedere a un inquilino moroso di sfrattarsi da solo» chiosa un giudice romano che preferisce restare anonimo. Anche perché i membri del Csm, per una vecchia legge ordinaria non sono responsabili dal punto di vista penale, civile e amministrativo per gli atti compiuti o non compiuti nell'esercizio delle loro funzioni. Qualunque altra amministrazione se non ottemperasse verrebbe perseguita penalmente, il Csm no. «Hanno blindato il sistema e consegnato la magistratura alle correnti» conclude la toga sconsolata. Sino a ieri il Tar e il Consiglio di Stato potevano intervenire quando il Csm procedeva a lottizzazioni sistematiche o promuoveva candidati che non avevano i titoli migliori, contestando anche al Csm i vizi tipici degli atti amministrativi. Da domani non potranno più farlo, visto che saranno ammesse solo le contestazioni formali e procedurali. La valutazione del Csm e delle sue correnti diventerà insindacabile al pari di un atto parlamentare. Il che si inserisce, come detto, in un sistema in cui i componenti del Csm con una legge ordinaria sono stati dotati dell'immunità penale, civile e amministrativa per i loro atti. Una legge che la Consulta considerò legittima per sottrarre i membri del Palazzo dei Marescialli alle possibili ritorsioni degli altri magistrati. Con Renzi si va oltre e viene creato un mondo a parte, dove le delibere del Csm non possono essere impugnate e le sentenze del Tar non possono essere eseguite coattivamente. Senza considerare che la mancata esecuzione delle decisioni dei giudici amministrativi non potrà avere conseguenze sui consiglieri del Csm. E allora che cosa dovranno fare le toghe senza padrini e riferimenti politici? «Dovremo presentarci pure noi con il cappello in mano in vista delle elezioni del 5 e 6 luglio per il Csm e metterci al servizio di qualche corrente», risponde amareggiato un pm di Proposta B. Che riassume così il piano di Renzi: «Azzerare i ruoli direttivi delle toghe, fare scegliere quelli nuovi da un Csm politicamente orientato e rendere queste nomine non impugnabili. In pratica vuole scegliere i vertici della magistratura italiana». Nei corridoi di Palazzo Chigi non ci stanno e replicano che la nuova norma è stata scritta per evitare che a causa dei continui ricorsi i posti in magistratura restino vacanti anche per anni. Le toghe avverse al decreto replicano snocciolando la sentenza 497 del 2000 della Corte costituzionale sui magistrati: «Nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell'indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all'interno che all'esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura». Come dire: l'indipendenza della magistratura non è garantita dal Csm. Tantomeno da un Consiglio subalterno alla politica e completamente deresponsabilizzato.
Toghe troppo lente, Mesina esce di galera
Questa volta non è dovuto scappare. Nessuna evasione rocambolesca, come nel 1962 durante un trasferimento dal carcere di Sassari a quello di Nuoro - in treno e con le manette ai polsi - che gli valse il soprannome di Primula rossa. Stavolta è stato un cortocircuito giudiziario a rimettere in libertà Graziano Mesina, il Grazieneddu del banditismo sardo che imperversava tra gli altopiani di Supramonte. A 77 anni, 44 dei quali passati in galera, era dietro le sbarre a Nuoro per traffico internazionale di droga. È stato scarcerato per decorrenza dei termini e potrà tornare nella sua Orgosolo da uomo libero: le motivazioni della sentenza d'appello con la quale è stato condannato a 30 anni di carcere, infatti, non sono ancora state depositate. E così la misura cautelare è decaduta.
A causa di questa condanna, a Mesina era anche stata revocata la grazia concessagli nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. «Sono felicissimo, non me l'aspettavo», ha commentato coi cronisti uscendo dal carcere. D'altra parte non è la prima volta che gli capita di trovare un buco nei meccanismi giudiziari: nel 1995 ottenne un permesso speciale e colse l'occasione per fuggire con la donna di cui era innamorato. Lo riacciuffarono poco dopo. È stata interamente così la vita del bandito che tutti in Sardegna chiamavano «la fera», la fiera. Un po' perché era solitario, un po' perché era riuscito a crearsi un'immagine da cattivo. Con una carriera criminale cominciata giovincello: aveva appena 14 anni, nel 1956, quando lo arrestarono per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Finì di nuovo dentro nel 1960 per aver sparato in luogo pubblico. È con lui che il banditismo sardo diventa un'industria criminale che macina soldi. Non senza qualche intoppo. Il rapimento del ricco possidente Pietrino Crasta, nel 1960, si conclude con la morte dell'ostaggio. Mesina si rifà nel 1977 col rapimento dell'industriale Mario Botticelli. Ma è con il caso del piccolo Farouk Kassam che il brigante diventa un personaggio nazionale. Interviene come mediatore per trattare la liberazione del piccolo sequestrato a Porto Cervo nel gennaio del 1992 e liberato, dopo sei mesi, in circostanze ancora oggi misteriose. Mesina sostiene che la famiglia pagò 1 miliardo di lire, circostanza smentita delle ricostruzioni ufficiali. Nel poco tempo passato da uomo libero, Grazianeddu si è stato spesso protagonista sui rotocalchi, fino a sfiorare l'ingresso all'Isola dei famosi. Un meccanismo che ora, visto che i tempi in cui i baschi blu lo ritenevano imprendibile (dai colli di Supramonte prendeva alle spalle gli uomini che gli davano la caccia e li controllava a distanza con un binocolo) sembrano così lontani, potrebbe innescarsi di nuovo. Probabilmente aspetta già qualche cronista a casa, ma solo tra le 22 e le 6 del mattino: perché l'obbligo di firma giornaliero disposto dalla Procura gli impone di farsi trovare a casa a quell'ora. Sempre che non decida di darsi di nuovo alla macchia, per ricordare i vecchi tempi. In barba ai giudici che hanno mancato il deposito della sentenza d'appello che l'avrebbe tenuto dentro.
Palamara: «Non ho mai preso 40.000 euro»
Si difende senza rinunciare ad attaccare, Luca Palamara, pm romano indagato per corruzione a Perugia e detonatore dello scandalo che, nel giro di un paio di settimane, ha fatto registrare nel Csm un consigliere dimissionario (Luigi Spina) e quattro autosospesi. Attacca dalle retrovie, ben consapevole di non poter andare sotto rete, ancora: «Non ho mai piegato la mia funzione a fantomatici interessi del gruppo Amara, della cui attività sono totalmente all'oscuro avendo avuto rapporti di amicizia e frequentazione esclusivamente con Fabrizio Centofanti», ha spiegato il magistrato che ieri ha depositato una corposa memoria difensiva nell'ufficio inquirente umbro. «Amicizia che per altro ha anche con importanti figure di vertice della magistratura ordinaria e amministrativa». A chi si riferisce, l'ex presidente dell'Anm?
Palamara batte in particolare su due punti emersi nelle indagini, tuttora segretate, condotte anche con l'ausilio di un virus spia nello smartphone: i rapporti con il Pd e l'accusa di aver cercato di pilotare, in cambio di una forte somma di denaro, la nomina del procuratore di Gela a favore di Giancarlo Longo. «Non ho mai ricevuto favori e non ho mai preso la somma di 40.000 euro», ha spiegato Palamara, assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti e Michele Di Lembo. Tant'è che «tra i vari documenti da me presentati» ha incluso anche «il verbale del plenum del Csm (…) dal quale risulta che Longo non ha ricevuto nemmeno un voto». Sugli incontri con Luca Lotti e Cosimo Ferri, entrambi deputati del Pd, la difesa del leader Unicost è più sfumata perché rimandata a «una seconda fase». «Non sono mai stato collaterale a nessun partito politico e mai ho svolto incarichi fuori ruolo di diretta dipendenza dalla politica», ha continuato Palamara. «Non ho mai messo in discussione il mio rispetto per la carica istituzionale del vicepresidente del Csm e più in generale delle prerogative dei singoli consiglieri». Il pm è già stato interrogato nei giorni scorsi a Perugia, sui viaggi e i regali che - secondo l'accusa - gli sarebbero stati fatti dall'imprenditore Centofanti, e che Palamara ha sostenuto di aver sempre rimborsato. Peraltro, come ricorderanno i lettori della Verità, le stesse contestazioni dei pm perugini, nel decreto di perquisizione, a tal riguardo sono tutt'altro che granitiche spesso riferendosi solo a dubbi circa le date delle fatture dei soggiorni e non all'effettiva liquidazione dei conti.
«Intendo prima dimostrare che non sono un corrotto. Per questo ho allegato alla memoria tutti i dettagli sulle spese da me sostenute dal 2011 a oggi: estratti conto, prelevamenti e ogni movimento bancario». Palamara si dice «certo di chiarire in qualunque sede mi verrà richiesto» i fatti «oggetto delle provvisorie contestazioni» per chiarire «ogni singolo passaggio» comprese le «cene e tutte le condotte da me poste in essere durante l'attività consiliare 2014-2018». Bisognerà ora attendere il prossimo atto istruttorio per capire la direzione dell'inchiesta, ben più complicata è invece l'impresa di intuire la curva della polemica politica e associativa che ne deriva. Ieri, in un comunicato dal titolo che pare occhieggiare a un western di Sergio Leone - «Giù le mani» - la sezione di Roma dell'Anm ha rivendicato «con orgoglio» i «risultati raggiunti negli ultimi anni dagli uffici giudiziari del distretto» grazie al «quotidiano impegno, alla dedizione, alla professionalità e alla schiena dritta dei magistrati». Impegno che, assicurano, «proseguirà immutato e rinnovato per il futuro».
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Il nostro Giacomo Amadori nel 2014 svelò il piano dell'allora premier per piazzare uomini al Csm, fare pensionamenti a raffica e poi controllare il sistema di ricambio.La sentenza di condanna a 30 anni del bandito Graziano Mesina non è stata depositata: torna libero per decorrenza dei termini.Luca Palamara, pm sotto inchiesta, si difende: «Io mai collaterale ai partiti». L'Anm: «Abbiamo la schiena dritta».Lo speciale contiene tre articoli. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, abituale frequentatore di Procure come persona informata dei fatti (a Firenze i più attenti hanno già contato quattro sue audizioni) e non certo come indagato, ha le carte in regola, asseriscono i suoi, per mettere mano anche alla riforma della giustizia. O almeno alla sua riorganizzazione dal punto di vista amministrativo. Peccato che le nuove norme contenute nel decreto legge sulla pubblica amministrazione sembrino avere un solo obiettivo: occupare manu militari il potere giudiziario come neanche nella Corea del Nord. Un piano contro il quale il presidente Giorgio Napolitano sembra essersi opposto solo in parte. Il Quirinale avrebbe infatti dato il suo parere negativo all'immediato prepensionamento di oltre 400 tra giudici e procuratori, a causa dell'abbassamento dell'età pensionabile a 70 anni. Il ricambio generazionale potrà iniziare tra tre anni, nel 2017. Ma eccoci alla seconda parte del piano renziano. A luglio ci saranno le elezioni per rinnovare il Consiglio superiore della magistratura e la maggioranza parlamentare dovrebbe piazzare cinque membri laici e un vicepresidente di peso. Sarà poi questo Csm «matteizzato» a scegliere i nuovi procuratori e presidenti di tribunale, sino alla rivoluzione del 2017. Un piano che i magistrati non allineati considerano scellerato. Lo spiega a Libero Andrea Reale, giudice dell'udienza preliminare a Ragusa e unico membro su 36 del Comitato direttivo dell'Associazione nazionale magistrati non appartenente alla troika di correnti Unicost, Area e Magistratura indipendente, bensì esponente della cosiddetta Proposta B, quella di chi vorrebbe un Csm selezionato per sorteggio e non monopolizzato da logiche politiche e partitiche. «Ho presentato un'istanza per chiedere di riunire il comitato direttivo per una doverosa discussione. Questa bozza è a mio modo di vedere un vero e proprio attentato all'indipendenza interna della magistratura e in particolare a quella delle singole toghe. Infatti impedisce per legge di difendere la loro legittima aspettativa a un posto direttivo o semidirettivo. Per me si tratta di una norma incostituzionale perché gli articoli 24 e 103 della Suprema carta garantiscono a tutti i cittadini la tutela dei propri interessi legittimi e di poter ricorrere per motivi di legittimità sostanziale ai giudici amministrativi». Diritto che ora verrebbe calpestato. Ma che cosa dice esattamente l'articolo incriminato? «Contro i provvedimenti concernenti il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi, il controllo del giudice amministrativo ha per oggetto solo la legittimità formale e procedurale del provvedimento di nomina e la verifica che esso non sia manifestamente volto a perseguire finalità arbitrarie, diverse dal buon funzionamento degli uffici giudiziari». Praticamente i magistrati che riterranno ingiusta una nomina e che penseranno di avere titoli migliori di chi gli ha soffiato il posto in un determinato ufficio non potranno più rivolgersi al Tar. A meno che non riescano a dimostrare le succitate «finalità arbitrarie» da parte del Csm. «Un'impresa impossibile» conclude Reale. In sostanza il decreto introduce un regime di non impugnabilità delle delibere di nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari. Ma è nella coda dell'articolo che c'è il vero veleno e riguarda l'ipotesi in cui un magistrato avrà avuto la possibilità di rivolgersi al Tar e avrà vinto: «Nel caso di azione di ottemperanza il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l'ottemperanza e assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere». La manina dell'estensore del decreto aggiunge che in questi casi viene abolito il commissario ad acta, l'unico organo terzo in grado di far rispettare la sentenza. «Chiedere al Csm di rivedere le proprie decisioni è come chiedere a un inquilino moroso di sfrattarsi da solo» chiosa un giudice romano che preferisce restare anonimo. Anche perché i membri del Csm, per una vecchia legge ordinaria non sono responsabili dal punto di vista penale, civile e amministrativo per gli atti compiuti o non compiuti nell'esercizio delle loro funzioni. Qualunque altra amministrazione se non ottemperasse verrebbe perseguita penalmente, il Csm no. «Hanno blindato il sistema e consegnato la magistratura alle correnti» conclude la toga sconsolata. Sino a ieri il Tar e il Consiglio di Stato potevano intervenire quando il Csm procedeva a lottizzazioni sistematiche o promuoveva candidati che non avevano i titoli migliori, contestando anche al Csm i vizi tipici degli atti amministrativi. Da domani non potranno più farlo, visto che saranno ammesse solo le contestazioni formali e procedurali. La valutazione del Csm e delle sue correnti diventerà insindacabile al pari di un atto parlamentare. Il che si inserisce, come detto, in un sistema in cui i componenti del Csm con una legge ordinaria sono stati dotati dell'immunità penale, civile e amministrativa per i loro atti. Una legge che la Consulta considerò legittima per sottrarre i membri del Palazzo dei Marescialli alle possibili ritorsioni degli altri magistrati. Con Renzi si va oltre e viene creato un mondo a parte, dove le delibere del Csm non possono essere impugnate e le sentenze del Tar non possono essere eseguite coattivamente. Senza considerare che la mancata esecuzione delle decisioni dei giudici amministrativi non potrà avere conseguenze sui consiglieri del Csm. E allora che cosa dovranno fare le toghe senza padrini e riferimenti politici? «Dovremo presentarci pure noi con il cappello in mano in vista delle elezioni del 5 e 6 luglio per il Csm e metterci al servizio di qualche corrente», risponde amareggiato un pm di Proposta B. Che riassume così il piano di Renzi: «Azzerare i ruoli direttivi delle toghe, fare scegliere quelli nuovi da un Csm politicamente orientato e rendere queste nomine non impugnabili. In pratica vuole scegliere i vertici della magistratura italiana». Nei corridoi di Palazzo Chigi non ci stanno e replicano che la nuova norma è stata scritta per evitare che a causa dei continui ricorsi i posti in magistratura restino vacanti anche per anni. Le toghe avverse al decreto replicano snocciolando la sentenza 497 del 2000 della Corte costituzionale sui magistrati: «Nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell'indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all'interno che all'esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura». 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Stavolta è stato un cortocircuito giudiziario a rimettere in libertà Graziano Mesina, il Grazieneddu del banditismo sardo che imperversava tra gli altopiani di Supramonte. A 77 anni, 44 dei quali passati in galera, era dietro le sbarre a Nuoro per traffico internazionale di droga. È stato scarcerato per decorrenza dei termini e potrà tornare nella sua Orgosolo da uomo libero: le motivazioni della sentenza d'appello con la quale è stato condannato a 30 anni di carcere, infatti, non sono ancora state depositate. E così la misura cautelare è decaduta. A causa di questa condanna, a Mesina era anche stata revocata la grazia concessagli nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. «Sono felicissimo, non me l'aspettavo», ha commentato coi cronisti uscendo dal carcere. D'altra parte non è la prima volta che gli capita di trovare un buco nei meccanismi giudiziari: nel 1995 ottenne un permesso speciale e colse l'occasione per fuggire con la donna di cui era innamorato. Lo riacciuffarono poco dopo. È stata interamente così la vita del bandito che tutti in Sardegna chiamavano «la fera», la fiera. Un po' perché era solitario, un po' perché era riuscito a crearsi un'immagine da cattivo. Con una carriera criminale cominciata giovincello: aveva appena 14 anni, nel 1956, quando lo arrestarono per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Finì di nuovo dentro nel 1960 per aver sparato in luogo pubblico. È con lui che il banditismo sardo diventa un'industria criminale che macina soldi. Non senza qualche intoppo. Il rapimento del ricco possidente Pietrino Crasta, nel 1960, si conclude con la morte dell'ostaggio. Mesina si rifà nel 1977 col rapimento dell'industriale Mario Botticelli. Ma è con il caso del piccolo Farouk Kassam che il brigante diventa un personaggio nazionale. Interviene come mediatore per trattare la liberazione del piccolo sequestrato a Porto Cervo nel gennaio del 1992 e liberato, dopo sei mesi, in circostanze ancora oggi misteriose. Mesina sostiene che la famiglia pagò 1 miliardo di lire, circostanza smentita delle ricostruzioni ufficiali. Nel poco tempo passato da uomo libero, Grazianeddu si è stato spesso protagonista sui rotocalchi, fino a sfiorare l'ingresso all'Isola dei famosi. Un meccanismo che ora, visto che i tempi in cui i baschi blu lo ritenevano imprendibile (dai colli di Supramonte prendeva alle spalle gli uomini che gli davano la caccia e li controllava a distanza con un binocolo) sembrano così lontani, potrebbe innescarsi di nuovo. Probabilmente aspetta già qualche cronista a casa, ma solo tra le 22 e le 6 del mattino: perché l'obbligo di firma giornaliero disposto dalla Procura gli impone di farsi trovare a casa a quell'ora. Sempre che non decida di darsi di nuovo alla macchia, per ricordare i vecchi tempi. In barba ai giudici che hanno mancato il deposito della sentenza d'appello che l'avrebbe tenuto dentro. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-mercato-dei-giudici-e-cominciato-cinque-anni-fa-per-mano-di-renzi-2638734129.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="palamara-non-ho-mai-preso-40-000-euro" data-post-id="2638734129" data-published-at="1766123496" data-use-pagination="False"> Palamara: «Non ho mai preso 40.000 euro» Si difende senza rinunciare ad attaccare, Luca Palamara, pm romano indagato per corruzione a Perugia e detonatore dello scandalo che, nel giro di un paio di settimane, ha fatto registrare nel Csm un consigliere dimissionario (Luigi Spina) e quattro autosospesi. Attacca dalle retrovie, ben consapevole di non poter andare sotto rete, ancora: «Non ho mai piegato la mia funzione a fantomatici interessi del gruppo Amara, della cui attività sono totalmente all'oscuro avendo avuto rapporti di amicizia e frequentazione esclusivamente con Fabrizio Centofanti», ha spiegato il magistrato che ieri ha depositato una corposa memoria difensiva nell'ufficio inquirente umbro. «Amicizia che per altro ha anche con importanti figure di vertice della magistratura ordinaria e amministrativa». A chi si riferisce, l'ex presidente dell'Anm? Palamara batte in particolare su due punti emersi nelle indagini, tuttora segretate, condotte anche con l'ausilio di un virus spia nello smartphone: i rapporti con il Pd e l'accusa di aver cercato di pilotare, in cambio di una forte somma di denaro, la nomina del procuratore di Gela a favore di Giancarlo Longo. «Non ho mai ricevuto favori e non ho mai preso la somma di 40.000 euro», ha spiegato Palamara, assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti e Michele Di Lembo. Tant'è che «tra i vari documenti da me presentati» ha incluso anche «il verbale del plenum del Csm (…) dal quale risulta che Longo non ha ricevuto nemmeno un voto». Sugli incontri con Luca Lotti e Cosimo Ferri, entrambi deputati del Pd, la difesa del leader Unicost è più sfumata perché rimandata a «una seconda fase». «Non sono mai stato collaterale a nessun partito politico e mai ho svolto incarichi fuori ruolo di diretta dipendenza dalla politica», ha continuato Palamara. «Non ho mai messo in discussione il mio rispetto per la carica istituzionale del vicepresidente del Csm e più in generale delle prerogative dei singoli consiglieri». Il pm è già stato interrogato nei giorni scorsi a Perugia, sui viaggi e i regali che - secondo l'accusa - gli sarebbero stati fatti dall'imprenditore Centofanti, e che Palamara ha sostenuto di aver sempre rimborsato. Peraltro, come ricorderanno i lettori della Verità, le stesse contestazioni dei pm perugini, nel decreto di perquisizione, a tal riguardo sono tutt'altro che granitiche spesso riferendosi solo a dubbi circa le date delle fatture dei soggiorni e non all'effettiva liquidazione dei conti. «Intendo prima dimostrare che non sono un corrotto. Per questo ho allegato alla memoria tutti i dettagli sulle spese da me sostenute dal 2011 a oggi: estratti conto, prelevamenti e ogni movimento bancario». Palamara si dice «certo di chiarire in qualunque sede mi verrà richiesto» i fatti «oggetto delle provvisorie contestazioni» per chiarire «ogni singolo passaggio» comprese le «cene e tutte le condotte da me poste in essere durante l'attività consiliare 2014-2018». Bisognerà ora attendere il prossimo atto istruttorio per capire la direzione dell'inchiesta, ben più complicata è invece l'impresa di intuire la curva della polemica politica e associativa che ne deriva. Ieri, in un comunicato dal titolo che pare occhieggiare a un western di Sergio Leone - «Giù le mani» - la sezione di Roma dell'Anm ha rivendicato «con orgoglio» i «risultati raggiunti negli ultimi anni dagli uffici giudiziari del distretto» grazie al «quotidiano impegno, alla dedizione, alla professionalità e alla schiena dritta dei magistrati». Impegno che, assicurano, «proseguirà immutato e rinnovato per il futuro».
Giorgia Meloni (Ansa)
La commissione per le libertà civili dell’Eurocamera e i negoziatori del Consiglio hanno concordato informalmente le nuove norme in base alle quali gli Stati membri possono decidere che un Paese extra Ue sia da considerarsi Paese terzo sicuro (Stc) nei confronti di un richiedente asilo che non ne è cittadino. Alla base di tutto c’è stata un’iniziativa del governo di Giorgio Meloni e l’appoggio di Ursula von der Leyen, che aveva capito che bisognava intervenire contro le interpretazioni creative.
La Commissione ha subito emesso una nota di soddisfazione: «Queste nuove norme aiuteranno gli Stati membri ad accelerare il trattamento delle domande di asilo, a ridurre la pressione sui sistemi di asilo e a ridurre gli incentivi alla migrazione illegale verso l’Ue, preservando nel contempo le garanzie giuridiche per i richiedenti e garantendo il rispetto dei diritti fondamentali».
Il fronte contrario a una miglior specificazione del concetto di Paese sicuro teme che le nuove regole possano tradursi in una minor tutela dei richiedenti asilo. Ma dall’altro, i contrari non sembrano propensi ad ammettere che i Paesi veramente democratici, almeno secondo i canoni occidentali, sono sempre meno.
A margine del Consiglio europeo, Giorgia Meloni, insieme ai colleghi danese, Mette Frederiksen, e olandese, Dick Schoof, ha ospitato una nuova riunione informale dei 15 Stati membri più interessati al tema delle soluzioni in ambito migratorio.
Insieme a Italia, Danimarca, Paesi Bassi e Commissione europea, hanno preso parte all’incontro i leader di Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Germania, Grecia, Polonia, Repubblica ceca, Lettonia, Malta, Ungheria e Svezia.
In questa sede, come spiega una nota di Palazzo Chigi, il premier italiano ha aggiornato i colleghi sul lavoro in corso «sul tema della capacità delle Convenzioni internazionali di rispondere alle sfide della migrazione irregolare e sulle prossime iniziative previste».
Dopo il risultato dello scorso 10 dicembre, quando 27 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno sottoscritto la dichiarazione politica italo-danese, ora il lavoro continua in vista della Ministeriale del Consiglio d’Europa, sotto la presidenza moldava, del prossimo 15 maggio.
I leader hanno anche concordato di lanciare iniziative congiunte anche nei diversi contesti internazionali, a partire dall’Onu, per «promuovere più efficacemente l’approccio europeo ad una gestione ordinata dei flussi migratori».
Per Alessandro Ciriani, eurodeputato di Fdi-Ecr e relatore per il Parlamento europeo del dossier sui Paesi terzi sicuri, «la lista concordata - che comprende, oltre ai Paesi candidati, Egitto, Bangladesh, Tunisia, India, Colombia, Marocco e Kosovo - produrrà effetti immediati sulle pratiche di esame delle domande di protezione internazionale, accelerando le procedure e rafforzando la certezza applicativa». In generale, per Ciriani «è un momento storico: grazie al lavoro del governo italiano, anche in Europa si supera la polarizzazione politica in tema di immigrazione e si sceglie la via del buonsenso».
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Carola Rackete (Getty Images)
Era marzo 2021 e così prometteva di sfidare la magistratura Luca Casarini, fondatore e capomissione di Mediterranea Saving Humans. L’ex disobbediente del Nord-Est dichiarava di voler continuare a non rispettare le regole, l’ha ribadito anche lo scorso ottobre in apertura del processo a Ragusa dove è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante di averne tratto profitto. «¡Aquí no se rinde nadie! qui non si arrende nessuno», terminò il suo post su Facebook poco prima dell’udienza, citando la frase pronunciata dal comandante rivoluzionario Juan Almeida Bosque durante lo sbarco dei guerriglieri a Cuba. Casarini non riconosce la legge e poco importa se traveste l’inosservanza con scuse umanitarie: la lista dei disobbedienti per torti e offese subìte sarebbe interminabile, mentre in uno Stato di diritto non si fa giustizia a propria misura calpestando l’ordinamento.
Il capomissione della Ong si vanta di essere un trasgressore, solca i mari con «la nave dei centri sociali» agendo senza regole se non le condivide. «Io ho fatto del ragionamento sulla disobbedienza una caratteristica della mia vita [...] Sono i governi che violano continuamente la legge», è una sua precedente affermazione datata marzo 2019 in piena vicenda Mare Jonio, la barca entrata nel porto di Lampedusa malgrado il no del Viminale allora retto da Matteo Salvini.
Non è da meno il capo missione di Mediterranea, Beppe Caccia, che lo scorso agosto ammetteva con orgoglio di avere infranto la legge: «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno. Ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità». No, la Costituzione afferma che la legge è uguale per tutti, senza distinzioni di sorta e che tutti sono tenuti a rispettarla.
Eppure Carola Rackete si è vantata più volte di averla calpestata nel nostro Paese. La comandante tedesca della nave Sea Watch 3, che con le sue 650 tonnellate di stazza aveva investito la motovedetta della Guardia di finanza colpevole solo di avere intimato l’alt, nel giugno del 2019 giustificava l’azione. «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra. Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là», era la sua strabiliante versione accolta anche dal gip del tribunale di Agrigento che archiviò le accuse di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra. Salvini protestò: «Quindi, se capisco bene la sentenza, speronare una motovedetta militare italiana con uomini a bordo non è reato. Torniamo ai tempi dei pirati… No comment». Rackete un mese dopo tornava a vantarsi: «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal Decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo. Talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate di fronte a un giudice».
In quest’ottica, l’assurdità dei decreti legge emanati durante l’emergenza Covid dovrebbero giustificare gli atti di disobbedienza compiuti, anche con il rifiuto di vaccinarsi che invece è stato perseguito e punito. Spesso il principio di legalità non ha affatto rappresentato la massima garanzia di libertà, anzi ha modificato diritti fondamentali dei cittadini e chi si è ribellato ne ha pagato le conseguenze. Solo le Ong sarebbero libere di infrangere le leggi?
Nel maggio del 2024 associazioni come Baobab experience, Collettivo rotte balcaniche, Linea d’ombra, Kitchen on borders difendevano un network nato «nell’autodenuncia della propria pratica quotidiana di disobbedienza civile, contro le politiche migratorie italiana ed europea, contro i confini interni ed esterni».
E se ci si mette anche la Chiesa, la disobbedienza può appare il nuovo credo a cui dare ascolto. In spregio alle leggi e ai tribunali, stando alle parole di don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea Saving Humans. «La morale per noi invece è che tu devi lottare accanto a chi è oppresso. Tu devi contrastare questo sistema. Tu devi sovvertire questo sistema capitalista e patriarcale. E allora abbiamo introdotto l’espressione disobbedienza morale», spiegava nel luglio del 2023.
Anche Alessandra Sciurba, già presidente di Mediterranea Saving Humans, nel 2020 parlava di «disobbedienza morale e obbedienza civile» che l’aveva animata a soccorrere migranti sulla barca a vela Alex sfidando decreti-legge e imposizioni governative illegittimi. È la stessa Associazione di promozione sociale (Aps) in cui si è trasformata Mediterranea a lamentarsi perché «le Ong sono costrette a spendere una gran quantità di tempo e risorse per contestare la restrittiva legislazione italiana e i fermi amministrativi arbitrariamente imposti». Navigano contro legge.
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David Neres festeggia con Rasmus Hojlund dopo aver segnato il gol dell'1-0 durante la semifinale di Supercoppa italiana tra Napoli e Milan a Riyadh (Ansa)
Nella prima semifinale in Arabia Saudita i campioni d’Italia superano 2-0 i rossoneri con un gol per tempo di Neres e Hojlund. Conte: «Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza». Allegri: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà».
È il Napoli la prima finalista della Supercoppa italiana. All’Alawwal Park di Riyadh, davanti a 24.941 spettatori, i campioni d’Italia superano 2-0 il Milan al termine di una semifinale mai realmente in discussione e torneranno lunedì nello stadio dell’Al Nassr per giocarsi il primo trofeo stagionale contro la vincente di Bologna-Inter, in programma domani sera.
Decidono un gol per tempo di Neres e Hojlund, protagonisti assoluti di una gara che la squadra di Antonio Conte ha interpretato con maggiore lucidità, intensità e qualità rispetto ai rossoneri. Il pubblico saudita, arrivato a scaglioni sugli spalti come da consuetudine locale, si è acceso soprattutto per Luka Modric durante il riscaldamento, più inquadrato sugli smartphone che realmente seguito sul campo, ma alla lunga è stato il Napoli a prendersi scena e risultato. Un successo meritato per i partenopei che rispetto al Milan hanno dimostrato di avere più idee e mezzi per colpire.
Conte ha scelto la miglior formazione possibile, confermando il 3-4-2-1 con l’unica eccezione rispetto alle ultime gare di campionato che riguarda il ritorno tra i titolari di Politano al posto di Lang. Davanti la coppia McTominay-Neres ad agire alle spalle di Hojlund. Ed è stato proprio il centravanti danese uno dei protagonisti del match e della vittoria del Napoli, mettendo lo zampino in entrambi i gol e facendo impazzire in marcatura De Winter. L’ex difensore del Genoa è stato scelto da Allegri come perno della difesa a tre per sostituire l'infortunato Gabbia, un’assenza che alla fine dei conti si è rivelata più pesante del previsto. Ma se quella del difensore centrale era praticamente una scelta obbligata, il turnover applicato in mezzo al campo e sulla corsia di destra non ha restituito gli effetti desiderati. Nel solito 3-5-2 hanno trovato spazio dal primo minuto anche Jashari e Loftus-Cheek, titolari al posto di Modric e Fofana, ed Estupinan per far rifiatare Bartesaghi, uno degli uomini più in forma tra i rossoneri.
Il Napoli ha preso infatti fin da subito l’iniziativa, con Elmas al tiro già al 2’ e con Maignan attento a bloccare senza problemi. Il Milan ha poi avuto due ghiotte occasioni: al 5’ sugli sviluppi di una rimessa laterale Pavlovic ha tentato una rovesciata, il pallone è arrivato a Loftus-Cheek che, solo davanti a Milinkovic-Savic, ha mancato incredibilmente l’impatto; al 16' Saelemaekers ha sprecato calciando alto da buona posizione. È l’illusione rossonera, perché da quel momento sono i partenopei a comandare il gioco. Al 32' McTominay ha sfiorato il vantaggio con un destro di prima poco fuori, mentre Nkunku al 37’ ha confermato il suo momento negativo non inquadrando nemmeno la porta a conclusione di un contropiede che poteva cambiare la partita. Partita che è cambiata in maniera decisiva due minuti dopo, al 39’, quando è arrivato il gol che ha sbloccato la semifinale: da un'azione insistita di Elmas sulla sinistra, il pallone è arrivato a Hojlund il cui tiro in diagonale ha messo in difficoltà Maignan. La respinta troppo corta del portiere francese è finita sui piedi di Neres, il più rapido ad avventarsi sul pallone e a depositarlo in rete. Il Napoli è andato vicino al raddoppio già prima dell’intervallo con un altro contropiede orchestrato da Elmas e concluso da Hojlund, su cui Maignan ha dovuto compiere un mezzo miracolo.
Nella ripresa il copione non è cambiato. Rrahmani ha impegnato ancora Maignan da fuori area, poi al 64’ è arrivato il 2-0 che ha chiuso la partita: Spinazzola ha affondato a sinistra e servito Hojlund, veloce e preciso a finalizzare con freddezza, firmando così una prestazione dominante contro un De Winter in grande difficoltà. Allegri ha provato a cambiare volto alla gara passando al 4-1-4-1 con l’ingresso di Fofana e Athekame, ma il Milan non è riuscito di fatto mai a rientrare davvero in partita. Anzi. Al 73' uno scatenato Hojlund ha sfiorato la doppietta personale. Poi, al 75', il Milan ha regalato alla parte di stadio rossonera la gioia più grande di tuta la serata, ovvero l'ingresso in campo di Modric. Il croato è entrato tra gli applausi del pubblico, ma è solo una nota di colore in una serata che resta saldamente nelle mani del Napoli. Nel finale spazio anche a qualche tensione, sia in campo che in panchina. Prima le scintille tra Tomori e McTominay, ammoniti entrambi da Zufferli. Poi, in pieno recupero, un battibecco verbale tra Oriali e Allegri. E mentre scorrevano i sette minuti di recupero concessi dal direttore di gara, accompagnato dal coro dei tifosi sauditi di fede azzurra «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi», è arrivato il verdetto definitivo.
Nel post partita Massimiliano Allegri ha riconosciuto i meriti degli avversari: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà». Sull’eliminazione da Coppa Italia e Supercoppa è stato netto: «Siamo dispiaciuti, ma il nostro obiettivo resta la qualificazione in Champions, che è un salvavita per la società». Di tutt’altro tono Antonio Conte, soddisfatto della risposta della sua squadra: «Battere il Milan fa morale. Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza. Con energia, anche in emergenza, siamo difficili da affrontare». Parole di elogio per Hojlund: «Ha 22 anni, grandi margini di crescita e oggi è stato determinante. Sta capendo sempre di più quello che gli chiedo».
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