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2020-01-17
Il massacro degli armeni nascosto dall'Azerbaijan
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Sono passati ormai trent'anni, ma l'Azerbaijan continua a nascondere la verità. Trenta anni fa, infatti, tra il 13 e il 19 gennaio 1990, a Baku, furono realizzati i massacri e le deportazioni degli armeni residenti nella capitale dell' Azerbaijan per un unico motivo: la loro appartenenza etnica. I massacri erano organizzati dal Fronte Popolare azerbaijano ed erano sponsorizzati dalle autorità azere. Sebbene gli armeni di Baku fossero stati costretti a abbandonare le loro case a causa delle persecuzioni e delle repressioni nei confronti degli armeni in tutto il territorio dell'Azerbaijan dopo i massacri degli armeni a Sumgait del 1988, all'inizio del 1990 circa 40.000 armeni ancora vivevano a nella capitale. Tra gli armeni rimasti c'erano non solo molti anziani, malati e disabili che non potevano fuggire, ma anche semplici persone che non volevano lasciare la città.
Non è stato possibile stabilire il numero esatto degli armeni uccisi e delle persone morte giorni dopo i massacri di Baku per via dell'occultamento dei fatti da parte delle autorità azere. Secondo le stime fatte anche da alcune organizzazioni internazionali per i diritti umani, ci sono state più di 450 vittime. Migliaia di armeni hanno perso tutti i loro beni mobili e immobili che sono stati saccheggiati dalla folla. Alcuni testimoni oculari hanno affermato che anche molti ebrei, russi e persone di altre etnie, sono state vittime di questi atti di violenza solo perché avevano una certa somiglianza con gli armeni. Tutti gli armeni sopravvissuti alle barbarie hanno lasciato Baku per via dell'imminente minaccia dello sterminio fisico e si sono rifugiati nei vari paesi del mondo.
Nel corso della storia sempre nella capitale azera hanno avuto luogo almeno tre massacri ai danni degli armeni, negli anni 1905, 1918 e 1990. In questa città dove da sempre c'è stata una presenza armena, alla fine degli anni '80 vivevano circa 300.000 armeni. Nonostante gli armeni non abbiano mai costituito la maggioranza della popolazione, a Baku gli armeni hanno da sempre avuto un importante status sociale, hanno ricoperto posizioni di rilievo, hanno svolto notevole attività nel campo dell'architettura, della costruzione, nonché economico-commerciale e, in particolare, nel settore petrolifero. Il primo pozzo petrolifero, nel 1869, apparteneva a Ibrahim Mirzoyev, un armeno. A Baku c'erano molte istituzioni e centri culturali armeni che sono stati chiusi all'inizio degli anni '80.
Il Parlamento europeo ha condannato i massacri degli armeni con le Risoluzioni approvate nel 1988, 1990 e 1991. Le stragi di civili sono state confermate nel 2002 dal presidente della Commissione per i rifugiati degli Stati Uniti, Bill Frelick. Il 27 luglio 1990 il New York Times ha pubblicato una lettera aperta indirizzata alla comunità internazionale, firmata da 133 eminenti studiosi e attivisti per i diritti umani provenienti dall'Europa, dal Canada e dagli Stati Uniti che denunciavano le uccisioni e i massacri degli armeni a Baku.
L'Azerbaijan celebra il 20 gennaio ("il gennaio nero") come giorno della memoria degli azeri morti durante gli scontri con le truppe sovietiche nei giorni successivi al massacro degli armeni. Le autorità di Baku presentano gli eventi del 20 gennaio 1990 come risultato di provocazioni da parte degli armeni facendo così un tentativo di nascondere i crimini e le atrocità di massa, che continuano a vivere non solo nella memoria dei sopravvissuti e di quanti li hanno accolto fuori dal territorio della Repubblica Socialista di Azerbaijan, ma anche nei materiali documentari e nelle cronache della stampa internazionale.
Contrariamente ai fatti registrati dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, le autorità azere continuano a insabbiare le loro azioni di genocidio e a distorcere i fatti per evitarne la responsabilità. Le autorità azere distorcono non solo l'essenza del "gennaio nero", ma, attraverso il silenzio e l'oblio, anche la storia della "capitale dei tre massacri" tentando, così, di cancellare dalla memoria le conseguenze della politica di pulizia etnica, delle deportazioni e dei massacri degli armeni avvenuti a Baku nel 1905, nel 1918 e 1990.
I pogrom di Baku del 1990 sono una continuazione dei massacri precedenti perpetrati nel 1905 e nel 1918 e della politica di pulizia etnica effettuata nell'era sovietica nella regione di Nakhijevan, nella Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) e in altre aree. La propaganda anti-armena nella società azera si è manifestata fortemente durante l'aggressione dell'Azerbaijan contro Artsakh dell'aprile 2016: in quei giorni gli azeri hanno commesso gravi violazioni del diritto umanitario internazionale con brutali uccisioni di civili e di militari, con decapitazioni, torture, mutilazioni e con altri crimini di guerra.
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Trenta anni fa, tra il 13 e il 19 gennaio 1990, a Baku, furono realizzati omicidi e deportazioni della popolazione armena residente nella capitale solo per un unico motivo: la loro appartenenza etnica.Sono passati ormai trent'anni, ma l'Azerbaijan continua a nascondere la verità. Trenta anni fa, infatti, tra il 13 e il 19 gennaio 1990, a Baku, furono realizzati i massacri e le deportazioni degli armeni residenti nella capitale dell' Azerbaijan per un unico motivo: la loro appartenenza etnica. I massacri erano organizzati dal Fronte Popolare azerbaijano ed erano sponsorizzati dalle autorità azere. Sebbene gli armeni di Baku fossero stati costretti a abbandonare le loro case a causa delle persecuzioni e delle repressioni nei confronti degli armeni in tutto il territorio dell'Azerbaijan dopo i massacri degli armeni a Sumgait del 1988, all'inizio del 1990 circa 40.000 armeni ancora vivevano a nella capitale. Tra gli armeni rimasti c'erano non solo molti anziani, malati e disabili che non potevano fuggire, ma anche semplici persone che non volevano lasciare la città.Non è stato possibile stabilire il numero esatto degli armeni uccisi e delle persone morte giorni dopo i massacri di Baku per via dell'occultamento dei fatti da parte delle autorità azere. Secondo le stime fatte anche da alcune organizzazioni internazionali per i diritti umani, ci sono state più di 450 vittime. Migliaia di armeni hanno perso tutti i loro beni mobili e immobili che sono stati saccheggiati dalla folla. Alcuni testimoni oculari hanno affermato che anche molti ebrei, russi e persone di altre etnie, sono state vittime di questi atti di violenza solo perché avevano una certa somiglianza con gli armeni. Tutti gli armeni sopravvissuti alle barbarie hanno lasciato Baku per via dell'imminente minaccia dello sterminio fisico e si sono rifugiati nei vari paesi del mondo.Nel corso della storia sempre nella capitale azera hanno avuto luogo almeno tre massacri ai danni degli armeni, negli anni 1905, 1918 e 1990. In questa città dove da sempre c'è stata una presenza armena, alla fine degli anni '80 vivevano circa 300.000 armeni. Nonostante gli armeni non abbiano mai costituito la maggioranza della popolazione, a Baku gli armeni hanno da sempre avuto un importante status sociale, hanno ricoperto posizioni di rilievo, hanno svolto notevole attività nel campo dell'architettura, della costruzione, nonché economico-commerciale e, in particolare, nel settore petrolifero. Il primo pozzo petrolifero, nel 1869, apparteneva a Ibrahim Mirzoyev, un armeno. A Baku c'erano molte istituzioni e centri culturali armeni che sono stati chiusi all'inizio degli anni '80. Il Parlamento europeo ha condannato i massacri degli armeni con le Risoluzioni approvate nel 1988, 1990 e 1991. Le stragi di civili sono state confermate nel 2002 dal presidente della Commissione per i rifugiati degli Stati Uniti, Bill Frelick. Il 27 luglio 1990 il New York Times ha pubblicato una lettera aperta indirizzata alla comunità internazionale, firmata da 133 eminenti studiosi e attivisti per i diritti umani provenienti dall'Europa, dal Canada e dagli Stati Uniti che denunciavano le uccisioni e i massacri degli armeni a Baku.L'Azerbaijan celebra il 20 gennaio ("il gennaio nero") come giorno della memoria degli azeri morti durante gli scontri con le truppe sovietiche nei giorni successivi al massacro degli armeni. Le autorità di Baku presentano gli eventi del 20 gennaio 1990 come risultato di provocazioni da parte degli armeni facendo così un tentativo di nascondere i crimini e le atrocità di massa, che continuano a vivere non solo nella memoria dei sopravvissuti e di quanti li hanno accolto fuori dal territorio della Repubblica Socialista di Azerbaijan, ma anche nei materiali documentari e nelle cronache della stampa internazionale. Contrariamente ai fatti registrati dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, le autorità azere continuano a insabbiare le loro azioni di genocidio e a distorcere i fatti per evitarne la responsabilità. Le autorità azere distorcono non solo l'essenza del "gennaio nero", ma, attraverso il silenzio e l'oblio, anche la storia della "capitale dei tre massacri" tentando, così, di cancellare dalla memoria le conseguenze della politica di pulizia etnica, delle deportazioni e dei massacri degli armeni avvenuti a Baku nel 1905, nel 1918 e 1990. I pogrom di Baku del 1990 sono una continuazione dei massacri precedenti perpetrati nel 1905 e nel 1918 e della politica di pulizia etnica effettuata nell'era sovietica nella regione di Nakhijevan, nella Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) e in altre aree. La propaganda anti-armena nella società azera si è manifestata fortemente durante l'aggressione dell'Azerbaijan contro Artsakh dell'aprile 2016: in quei giorni gli azeri hanno commesso gravi violazioni del diritto umanitario internazionale con brutali uccisioni di civili e di militari, con decapitazioni, torture, mutilazioni e con altri crimini di guerra.
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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