2022-05-21
Il luppolo, pianta che spegne i bollenti spiriti
Non serve soltanto ad aromatizzare la birra. È una pianta officinale le cui peculiarità terapeutiche sono note fin dall’antichità Ha proprietà antisettiche, favorisce il sonno ed è anafrodisiaco per l’uomo. Con i germogli si preparano anche piatti pregiati.Furono i monaci che vivevano nei monasteri e nelle abbazie del Basso Reno (Renania-Palatinato in Germania, Alsazia in Francia, Grigioni in Svizzera) che scoprirono intorno all’anno Mille quant’era più piacevole la birra aromatizzata con il luppolo e quanto si conservava più a lungo grazie alle proprietà antiossidanti della piantina. Erano monaci che se ne impippavano della corrente profezia «Mille e non più Mille» e pensavano al futuro: il loro, quello della birra e quello dei bevitori.Ci volle, però, la santa mano di una monaca benedettina tedesca del XII secolo, Ildegarda di Bingen, per incentivare l’uso del luppolo nella produzione della birra. Santa Ildegarda, soprannominata la «Sibilla del Reno», fu una donna eccezionale, una sorta di Leonardo Da Vinci in tonaca e velo. Considerata la prima delle grandi mistiche tedesche, fu profetessa, poetessa, scrittrice, compositrice di musiche sacre e grande studiosa della natura. Papa Benedetto XVI nel 2012 la dichiarò Dottore della Chiesa per le virtù teologiche e dottrinali.Ildegarda fu dottore, nel senso medico del termine, anche del corpo. Studiò per tutta la vita come curare le malattie con i rimedi naturali. Approfondendo la fitoterapia, scoprì, tra l’altro, che l’infiorescenza del luppolo svolge un’azione antisettica (che previene le infezioni) e conservante. Scrisse nel Libro delle creature: «Grazie alla sua amarezza, il luppolo blocca la putrefazione di certe bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possano conservarsi molto più a lungo».Quando alla metà del Settecento Carlo Linneo mise ordine alla nomenclatura botanica, chiamò il luppolo selvatico Humulus lupulus. Humulus da humus, terra fertile, umida; lupulus da lupus perché, essendo un rampicante, s’abbarbica tenacemente ad arbusti e piantine «azzannandoli» come fa il lupo con le sue prede. A Linneo, grande studioso dello scienziato latino, non dev’essere scappato il nome con cui Plinio il Vecchio definì il rampicante: lupo dei salici.I fiori dell’Humulus lupulus sono infiorescenze pendule che somigliano a piccole pigne di color verdolino tendente al giallo. Non hanno l’esplosiva beltà delle rose né il fascino misterioso delle orchidee, ma possiedono una bellezza semplice, umile ed emanano un profumo piacevole. Per questo motivo e per il fatto che s’arrampica dove trova un sostegno per poi diramarsi lungo reti o superfici orizzontali, il luppolo viene utilizzato per abbellire chioschi, pergolati e coperture da giardino. È una specie dioica, il che vuol dire che c’è il luppolo maschio e il luppolo femmina. Due piante distinte. È una pianta officinale le cui peculiarità terapeutiche sono note fin dall’antichità. L’Humulus, oltre alla proprietà antisettica, ne ha altre. È antispasmodico, antibatterico, antinfiammatorio. Agisce positivamente sul sistema digestivo e dà un valido aiuto contro l’insonnia, l’anoressia e i crampi muscolari. Al contrario della maca andina e della salsapariglia, pur’essa rampicante, il luppolo è anafrodisiaco per l’uomo. Gli dà, cioè, una calmata quando i bollori gli offuscono la mente. Avrebbe fatto bene, ad esempio, a Michael Douglas, dipendente dal sesso per sua stessa ammissione. È sempre bene, comunque, prima di esagerare con l’assunzione, consultare il medico.Al pari dei getti dell’asparago selvatico e del pungitopo anche quelli del luppolo selvatico sono molto ricercati in primavera e apprezzati dai gourmet. Con i neonati germogli del luppolo si preparano piatti pregiati: frittate, minestre, zuppe e ghiotti condimenti per risotti, paste e perfino dolci. Ma basterebbe solo lessarli e condirli con olio extravergine d’oliva, aceto e sale quanto basta per mettere in tavola un piacevolissimo contorno primaverile. I germogli del luppolo sono conosciuti in tutt’Italia con nomi dialettali: luvertin in Piemonte, luertisi in Lombardia, bruscànsoli o bruscàndoli in Veneto, luperi in Umbria, uppoli in Molise, viticedda nel Cilento. I fiori si recidono da agosto a settembre per utilizzarne le essenze curative.Giacomo Castelvetro, scrittore e umanista, nel Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano (1613) parla a lungo degli erbaggi primaverili. A proposito «de’ lupoli» scrive: «La prima erba che in così fatta stagione si vegga, il lupolo è, che non mangiam noi cruda, ma a cuocere in acqua con poco di sale mettiamo; e, cotta, di là la traiamo e ben bene sgocciocciolata in un piatto netto posta, con sale, con assai olio, con poco aceto o, in suo luogo, succo di limone e un poco di pepe franto e non polverizzato, l’acconciamo e inanzi pasto per insalata l’usiamo».L’origine del luppolo è incerta. Si ipotizza che le prime specie siano apparse in Asia e che da lì si siano diffuse verso l’Europa. Polline di luppolo è stato scoperto in alcuni siti archeologici in Inghilterra risalenti al 3000 a.C. Furono i Greci a introdurre la birra, molti secoli prima che fosse aromatizzata col luppolo, in Europa. Ma non l’amavano molto. La chiamavano «vino d’orzo». Eschilo nel V secolo avanti Cristo, ne Le Supplici, prende pesantemente in giro gli egiziani che ne facevano grande uso e pensavano che fosse stata creata da Osiride mescolando l’acqua del Nilo all’orzo fermentato: «Non sono uomini veri, ma uomini che bevono vino d’orzo». Greci e latini preferivano decisamente il frutto della vite. La birra si vendicò voltando le spalle alle civiltà mediterranee per trovare grande accoglienza (e grandi bevitori) al di là delle Alpi, presso Galli, Celti e tutte le altre popolazioni del nord. C’è da sottolineare che i climi continentali, meno adatti alla coltura della vite, favorirono la sua diffusione. Frutto dell’ingegno gallo-celtico e della necessità di trovare un recipiente più facile da trasportare, è la botte in legno che favoriva il processo di trasformazione del grano in malto. Da allora, scrive Renzo Pellati ne La storia di ciò che mangiamo, «L’Europa risulta per secoli divisa da un confine ideale al di sopra del quale si beveva birra e al di sotto vino».Nel Cinquecento il luppolo è molto commercializzato nell’Italia centrale, dove viene copiosamente usato per la preparazione degli amari e come pianta da tintura che dà ai tessuti il colore dell’oro vecchio. Esportato in tutta Europa per aromatizzare la birra, supera per un certo periodo in importanza economica perfino l’olivo e il vino.Nonostante il gusto migliorato dal luppolo, la birra continuò a dividere a lungo i gusti dei bevitori. Tra i detrattori c’è un papa, Alessandro VII, il senese Fabio Chigi, che la prese in antipatia quando, cardinale legato in Westfalia nella prima metà del secolo XVII, gli fu offerto un boccale di birra al posto del vino. Sua eminenza reverendissima l’assaggiò e, abituato alla vernaccia di San Gimignano e al rosso del Chianti, dimenticando la diplomazia e la buona educazione, lanciò il prezioso steinkrug, il boccale in porcellana, fuori dalla finestra aggiungendo con sempre minore tatto politico: «Se ci mettete un po’ di zolfo è una bevanda degna del diavolo». Probabilmente non sapeva che anche la birra, grazie al luppolo che la beatificava aromatizzandola, aveva la sua santa protettrice: Sant’Ildegarda.Francesco Redi, toscano come il Chigi (era d’Arezzo), medico e poeta, calunniò la birra accusandola di accorciare la vita: «Chi la squallida cervogia/ alle labbra sue congiugne,/ presto muore, o rado giugne/ all’età vecchia e barbogia». La birra rispose dopo tre secoli a questi versi con l’indovinatissimo slogan pubblicitario: «Chi beve birra campa cent’anni».Pro birra fu William Shakespeare a cui la bionda (bevanda) piaceva assai. Ne Il racconto d’inverno fa dire a un personaggio: «Un boccale di birra è un pasto da re!». Lo confermò il kaiser Guglielmo II accostando sesso e politica: «Datemi una donna che ama la birra e conquisterò il mondo».