2021-03-21
Il guastatore del governo si chiama Letta
Il neosegretario dem sta sfogando il rancore accumulato negli anni di esilio. Viaggia in direzione contraria rispetto alle promesse fatte a Sergio Mattarella. Cerca di rinsaldare l'identità dei dem assaltando il nemico, cioè il leader del Carroccio suo alleato nell'esecutivo.Bisogna dargliene atto: lo aveva detto sin dall'inizio. Parlando all'assemblea nazionale del Partito democratico, poco prima di essere incoronato segretario, Enrico Letta ha pronunciato due frasi estremamente chiare: «Il governo di Mario Draghi è il nostro governo. È la Lega che deve spiegare perché lo appoggia, non noi». Da quel momento il «dolce Enrico» (così lo blandisce Francesco Merlo) si è comportando come se l'attuale esecutivo fosse un feudo in cui spadroneggiare. Tratta quelli che - almeno in teoria - dovrebbero essere i suoi alleati alla stregua di sudditi, impone la linea del Pd e, quando non ci riesce, sfoga il rancore accumulato negli anni di esilio. Subito dopo l'approvazione del decreto Sostegni, ad esempio, non si è dato il tempo di prendere un respiro e subito si è messo ad attaccare Matteo Salvini. «Il decreto Sostegni interviene su salute, scuola, turismo, cultura e aiuta lavoratori e imprese», ha detto. «Bene Draghi. Bene i ministri. Male, molto male che un segretario di partito tenga in ostaggio per un pomeriggio il Cdm (senza peraltro risultati). Pessimo inizio Salvini». Il capo leghista ha risposto con un tweet beffardo, senza insistere troppo con i bisticci. «C'è chi pensa allo ius soli», ha scritto Salvini, «e c'è chi pensa ad aiutare gli italiani in difficoltà con un decreto da 32 miliardi. Basta con le polemiche, Enrico stai sereno».Anche se i toni della replica non sono stati poi così truci, il problema si pone eccome. Il governo Draghi è stato presentato come l'unione virtuosa delle varie anime della nazione, pronte a mettere da parte gli egoismi di partito per dedicarsi al migliore interesse dell'Italia. All'inizio di febbraio, Sergio Mattarella, appena prima di convocare Mario Draghi al Colle, usò toni gravi: «Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica», disse. E, nei giorni successivi, si mosse per far nascere «un governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili».Tra i partiti c'è stato chi ha scelto di stare all'opposizione (Fratelli d'Italia, sostanzialmente) e chi ha invece scelto di entrare a far parte dell'esecutivo disegnato dal presidente della Repubblica. Matteo Salvini ha seguito la seconda strada, e finora non gli si può imputare di aver provveduto ad alzare i toni. Ha avanzato le sue richieste ai tavoli di governo, e su alcune questioni ha tenuto il punto, come del resto fanno tutti i leader di partito in una democrazia sana. Su alcuni temi caldi, la Lega ha persino mostrato un approccio più morbido che in passato. Pensiamo all'immigrazione: di certo Salvini non si è presentato in pubblico chiedendo la chiusura dei porti (cosa che, per altro, non sarebbe stato poi così assurdo auspicare). Eppure, guardate come si è comportato Letta: alla prima uscita ha chiesto il voto ai sedicenni e l'approvazione dello ius soli. In pratica, si è seduto dopo aver appoggiato la pistola sul tavolo. Pochi giorni dopo, un altro attacco, stavolta frontale (cioè ad personam, non sui temi): «Pessimo inizio Salvini». Dunque diteci: chi sta viaggiando in direzione contraria rispetto alle promesse fatte a Mattarella? Se c'è qualcuno, nella maggioranza di governo, che si comporta da guastatore, è proprio Enrico Letta. Non appena ha ripreso la guida del Pd è stato incensato come il leader che avrebbe riportato la sinistra ai fasti di un tempo. Ma, a ben vedere, il suo atteggiamento tradisce la pochezza dell'area politica progressista. L'unico modo che il nuovo capetto ha trovato per rinsaldare l'identità dei democratici è l'assalto al nemico. Non, badate bene, l'attacco all'avversario che sta all'opposizione: no, l'aggressione a uno che sta al governo con lui. Il Pd, in fondo, è rimasto il partito che, con le torce in pugno, ha voluto mandare Salvini a processo per sequestro di persona anche se - come orma è chiaro anche ai ciechi - le accuse non stanno in piedi e il rinvio a giudizio chiesto ieri dal procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, odora di forzatura lontano un miglio. Vero: non c'è da stupirsi troppo. Sarebbe stato ingenuo pensare che i dem, a cui dell'unità nazionale non è mai fregato nulla, trovassero vie differenti per sostenere le proprie posizioni. Ora, però, non possono più esserci dubbi su quale sia la concezione piddina della democrazia. Prima i simpatici progressisti hanno attaccato Giorgia Meloni per non aver acconsentito a sostenere Draghi: sembrava quasi che collocarsi all'opposizione fosse un crimine contro l'umanità. Poi hanno cercato in ogni modo di evitare l'ingresso di Salvini nella maggioranza. Pur avendo fallito su tutti i fronti, non si sono acquietati. Da quando c'è Letta, il fastidio iniziale sembra essersi tradotto in crescente ostilità. In sostanza funziona così: chi non appoggia l'esecutivo è un impresentabile; chi lo appoggia deve subire in silenzio (come fanno gli evaporati 5 stelle). Se a Salvini il giochino - giustamente - non piace, ecco che si susseguono i tentativi di spingerlo fuori dal circolo dei virtuosi. E l'aspetto peggiore della faccenda è che tutto ciò non avviene all'interno di un comprensibile agonismo delle idee. No, qui c'è un deliberato tentativo di sabotaggio, utile a Letta e soci per spianarsi la strada verso il Quirinale. Un obiettivo che prevede, oltre l'eliminazione dei sovranisti, anche il fallimento di Draghi. Questo è il Pd: pur di mantenere il potere, è pronto ad affossare tutto e tutti. Anche l'Italia.
Jose Mourinho (Getty Images)