2020-11-07
Il governo usa i dati per nascondere il caos
L'esecutivo continua ad appellarsi ai famosi «21 parametri» da cui dipenderebbero le chiusure e l'indice di gravità delle Regioni. Ma le scelte restano incomprensibili ed è forte il sospetto che siano state dettate da motivi politici e dalle pressioni della piazza.Ma come si poteva pensare di nascondere una scelta ad altissima intensità politica dietro il fragile paravento tecnico-burocratico dei 21 indicatori ossessivamente evocati dal governo per giustificare le chiusure e la tripartizione «semaforica» dell'Italia? Sta qui l'anello che non tiene, il punto che più degli altri non convince della strategia di Palazzo Chigi. Per giorni, il governo ha deliberatamente lasciato la scena mediatica a personalità come il commissario Domenico Arcuri o il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro (o alla consueta schiera di virologi-star) proprio per preparare il terreno, e per accreditare la tesi di una pressoché indiscutibile «automaticità» delle decisioni che sarebbero state assunte via Dpcm. Quegli indicatori - avrebbe poi detto testualmente lo stesso Giuseppe Conte - «non ci lasciano liberi»: come se si potessero camuffare dietro una pura e semplice presa d'atto di alcuni dati numerici decisioni ad altissimo impatto politico ed economico sulla vita degli italiani. E infatti l'escamotage non ha funzionato. Da giorni, ogni volta che quei tecnici, o anche i parlamentari della maggioranza, vengono interpellati in tv e sui giornali sul merito politico delle scelte, una risposta convincente non arriva. Né arriva quando viene posto il problema - sollevato da numerosi governatori regionali - della disparità di trattamento tra regione e regione, a fronte di quegli stessi 21 parametri: situazioni di gravità simile trattate in modo diverso, o addirittura situazioni meno preoccupanti numeri alla mano (Sicilia) trattate più pesantemente di quelle che, fino a qualche giorno prima, erano unanimemente descritte come al collasso (Campania). Di più. All'obiezione (avanzata da Matteo Salvini e da numerosi presidenti di regione) secondo cui era per lo meno rischioso assumere scelte tanto gravi sulla base di dati vecchi, risalenti al 24 ottobre, senza nemmeno verificare se i provvedimenti assunti nel frattempo a livello regionale e locale avessero dispiegato effetti positivi, il governo rispondeva invariabilmente annunciando che nuovi dati sarebbero arrivati in queste ore per confortare le decisioni prese. E invece i nuovi dati non sono arrivati, dando il senso di una forte opacità del processo decisionale. Inutile girarci intorno. È forte la sensazione che abbiano pesato diversi altri fattori. Per un verso, un fattore tutto politico, con un metro di giudizio più benevolo applicato ad alcune Regioni; e per altro verso, e forse si tratta di un'eventualità perfino più grave della prima, che abbiano avuto un ruolo (si pensi alla Campania) anche valutazioni di ordine pubblico, e il timore che alcune situazioni potessero finire letteralmente fuori controllo. Rimettiamo in fila alcuni eventi: già molte settimane fa, apparentemente anche senza agganci di stretta attualità, il ministro degli Interni Luciana Lamorgese faceva pubblicamente cenno a possibili tensioni sociali d'autunno. E tutti conoscono l'attenzione dell'attuale titolare del Viminale verso il Quirinale. Lo stesso reiterato e pubblico intervento di Sergio Mattarella nella dialettica tra governo centrale e Regioni può essere interpretato come la spia di preoccupazioni più generali, di tenuta complessiva, ben al di là di un dissenso specifico tra Roma e una o più regioni. C'è, in ultima analisi, una forte sensazione che pesi un «non detto», e che nell'opaca stagione in cui la linearità del confronto in Aula tra governo e Parlamento è stata sostituita dall'ambiguo metodo dei Dpcm, diversi attori istituzionali non esplicitino tutti i loro timori, e li sottraggano a una trasparente discussione pubblica. A dare in modo ancora più stridente il senso del cortocircuito, hanno contribuito due altri fattori. Da un lato, l'incredibile esiguità degli indennizzi previsti dal governo, oltre alla farraginosità del percorso verso quello che Conte ha definito il decreto ristori bis: solo un ceto politico scollegato dalla realtà può sottovalutare la rabbia che una situazione del genere rischia di innescare. Dall'altro, l'incredibile episodio di ieri: più o meno mentre Roberto Speranza era in Parlamento a recitare il mantra dei 21 indicatori e a difendere quell'impianto, il suo consulente al ministero, Walter Ricciardi, tornava a definire fuori controllo la situazione del capoluogo campano: «Napoli è in zona gialla, ma andava chiusa totalmente».Si badi. Non si tratta di una voce dal sen fuggita, ma di un convincimento che Ricciardi aveva già espresso la settimana scorsa, abbinando Napoli e Milano: «A Milano e Napoli», aveva detto, «uno può prendere il Covid entrando al bar, al ristorante, prendendo l'autobus. Stare a contatto stretto con un positivo è facilissimo perché il virus circola tantissimo. In queste aree il lockdown è necessario, in altre aree del Paese no».Ora, si può essere d'accordo o meno su questa tesi, in particolare sull'accostamento con Milano, ma si tratta di un'analisi opposta a quella che ha portato a escludere Napoli. E lo stesso sindaco Luigi De Magistris, intervenendo a Mattino Cinque, ha sottolineato la contraddizione: «Quindici giorni fa il presidente della regione annunciava un imminente lockdown perché la situazione negli ospedali era al collasso, e confermo che la situazione negli ospedali e non solo negli ospedali è al collasso, e Ricciardi diceva che Napoli e Milano dovevano andare immediatamente in zona rossa». Decisamente, più di qualcosa non torna.
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