2022-05-20
«Fiducia sulle spiagge». Draghi prepara la via di fuga dal governo
Poche settimane fa, commentando l’intervista di Mario Draghi al Corriere della Sera, mi permettevo di osservare che, quando il presidente del Consiglio negava di essere stanco delle liti nella maggioranza, era difficile se non impossibile credergli. Infatti, chi lo conosce sa che l’ex governatore della Bce non è abituato al tira e molla dei partiti. È vero che ha trascorso parte della sua carriera al ministero del Tesoro e dunque a contatto con la politica, ma un conto è fare il funzionario che risponde a un ministro, un altro è essere premier di un governo in balìa dei ministri. Anzi, dei gruppi parlamentari a cui i ministri devono rispondere se vogliono conservare la poltrona o essere ricandidati. Così, mentre Draghi confidava a Luciano Fontana di non essere stanco e di non avere alcuna intenzione di dimettersi, raccontai che cosa davvero si diceva dietro le quinte. Ovvero che il presidente del Consiglio non ne poteva più delle tensioni e delle indecisioni della sua maggioranza e si preparava a mollare in autunno. Per questo l’ex governatore aveva voluto anticipare la legge finanziaria, perché il solo ostacolo che avrebbe potuto intralciare la sua fuga era la situazione di provvisorietà in materia economica che si sarebbe venuta a creare se fosse salito al Quirinale gettando la spugna prima della discussione del Def. Sergio Mattarella, che nello scorso febbraio lo incastrò chiedendogli un sacrificio e sfruttando la sua ambizione di passare dalla Banca centrale europea alla presidenza della Repubblica, senza il Documento di economia e finanza avrebbe avuto gioco facile a respingere le dimissioni, chiedendo a Draghi un supplemento di sofferenza. Ma così, con il piano bell’e pronto, il premier non ha ragioni che lo possano trattenere a Palazzo Chigi più del dovuto, anzi ne ha molte per farsi da parte in anticipo sulla conclusione della legislatura. E infatti ieri, con lo stile e il decisionismo che lo contraddistinguono, ha convocato i ministri per comunicazioni urgenti che si sono tradotto in un diktat: o si fa come dico o faccio le valigie. Argomento del contendere il decreto sulla concorrenza, che da giorni vede l’opposizione di una parte della maggioranza, in particolare della Lega, che fa muro sulle concessioni balneari ritenendo che si aprano le porte alla speculazione di altri Paesi in un momento in cui invece ci sarebbe bisogno di sostenere la nostra economia e non di svenderla. Opinioni contrapposte a quelle dei 5 stelle, che avrebbero fatto rinviare di giorno in giorno l’approvazione delle misure fino a far sbottare il premier: avanti di questo passo e perdiamo in finanziamenti dell’Europa. Che Bruxelles possa bloccare i prestiti è possibile, ma che questa sia la sola vera ragione dell’irritazione di Draghi è meno credibile. Non c’è solo questo a spingere il presidente del Consiglio verso l’addio, ci sono anche i contrasti sul sostegno all’Ucraina, che giorno dopo giorno si stanno rivelando sempre più duri. Salvini, ma anche Conte e di recente pure Berlusconi sono perplessi sull’invio di armi pesanti a Kiev, perché questo significa un coinvolgimento in una guerra dagli esiti sempre più difficili da immaginare. L’ex governatore è stanco di mediare, ma forse si sente anche un po’ con le spalle al muro, perché trovare una via d’uscita fra due schieramenti che hanno visione totalmente opposte (il Pd è per le armi senza se e senza ma, mentre il resto della maggioranza no) è difficile anche per un tipo pronto a fare tutto quello che è necessario fare. Di più: Draghi sa bene che se la guerra continuerà, ed è probabile che sia così, per l’economia italiana sarà sempre peggio. Con il gas alle stelle, l’inflazione che galoppa e il Pil che scende, far quadrare i conti sarà un’impresa. Soprattutto sarà impossibile fronteggiare le richieste di chi resta senza lavoro e delle famiglie rimaste senza soldi. Dunque, meglio darci un taglio, anche perché nei prossimi mesi, con l’inizio della campagna elettorale in vista del voto nella primavera del prossimo anno, i partiti saranno ancora più irrequieti o per lo meno lo saranno i parlamentari che visti i sondaggi e il taglio del numero di onorevoli da eleggere dovranno presto cercarsi un posto per sbarcare il lunario. So che appare fuori luogo, ma da settembre in poi i conflitti in Parlamento saranno all’ordine del giorno e le imboscate pure. Dunque, il governo rischia di ballare e Draghi di fare il ballerino non ha alcuna voglia. Nella prima Repubblica avremmo parlato di esecutivo a tempo o, dato l’arrivo dell’estate, di esecutivo balneare. Ora non si usa più ricorrere a certe espressioni ma che la maggioranza rischi di affondare è certo. Nel qual caso a Mattarella toccherà nominare l’ex ragioniere dello Stato, ossia il ministro dell’Economia: di fatto, il commissario liquidatore della legislatura.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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