
Stefano Patuanelli vorrebbe ripristinare lo scudo attraverso una norma generale, ma i talebani grillini si rifiutano di fare compromessi.Quando si dice: i conti senza l'oste. Mega riunione sull'Ilva, gran tavolo tecnico politico sindacale, presso il ministero dello Sviluppo, sul destino dello stabilimento di Taranto, ma senza l'attore decisivo: e cioè proprio l'Ilva. È questo l'evento piuttosto surreale della giornata di ieri. Tutto nasce, come si sa, dallo sciagurato emendamento (voluto dai grillini, e subìto senza resistenze da Pd e Italia viva) che, nell'ambito del decreto sulle crisi aziendali, ha privato il nuovo management della tutela legale per le decisioni ereditate dalla gestione precedente. Dopo il danno, la maggioranza ha messo in campo nei giorni scorsi anche la proverbiale beffa, nella forma di un ordine del giorno (in termini parlamentari, acqua fresca: nulla di vincolante) che impegna il governo «a garantire, in tempi rapidi e mediante ogni azione opportuna, la permanenza dell'attività produttiva del complesso siderurgico dell'ex Ilva di Taranto, garantendo altresì la salvaguardia dei livelli occupazionali diretti e di quelli legati all'indotto». Come dire: prima hanno posto le basi per un disimpegno, e poi hanno chiesto al governo di fare il possibile affinché il disimpegno non ci sia. Su queste basi, il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli ha cercato di fare training autogeno: «Non esiste un'idea di piano industriale del Paese senza la siderurgia. Noi siamo intenzionati a garantire la continuità produttiva, chiederemo all'azienda di rispettare il piano industriale e ambientale». E ancora: «Assieme a me c'era il ministro Giuseppe Provenzano, che ringrazio: abbiamo dato un segnale di compattezza del governo su questo fronte. La siderurgia è fondamentale per Taranto e per tutto il Paese, non possiamo abbandonare la produzione». Fino al wishful thinking finale del ministro: «Da nessuna parte è previsto un disimpegno sul settore». In conclusione, l'unica battuta di Patuanelli che può essere interpretata come una piccola apertura, come uno spiraglio per correggere lo svarione appena commesso: e cioè una disponibilità (tutta da verificare sul terreno parlamentare, però) a scrivere una nuova norma che non riguardi solo l'ex Ilva, ma che abbia una portata interpretativa più generale: «Nel caso vi fossero dubbi interpretativi, si possono fare ragionamenti complessivi, che non riguardano per forza solo Taranto. Una norma ad hoc non la reputo praticabile: mi sembra evidente che non abbia una tenuta parlamentare. Una norma di ampio respiro potrà essere presa in considerazione, se necessario. Se ci fossero dei dubbi sul fatto che l'applicazione di una norma, come un piano ambientale, possa portare ad azioni giudiziarie, si potrà chiarire l'applicazione di questo dispositivo che vale in molti esempi».Ma il ministro è il primo a sapere, essendo stato fino a poche settimane fa capogruppo grillino al Senato, che proprio i suoi colleghi senatori pentastellati hanno agito da piromani, minacciando fuoco e fiamme (incluso votare contro il decreto sulle crisi aziendali, con conseguenze facilmente immaginabili sulla tenuta del governo) se lo scudo legale non fosse stato cancellato. Pensare che quello stesso gruppo parlamentare si accontenti di un'operazione di maquillage normativo, dando alla medesima norma un aspetto più generale e astratto, sembra una pia illusione. Per altro, curiosamente, Patuanelli ha anche aggiunto: «L'azienda non ha posto questo problema», interpretando le intenzioni della parte colpita dal voto parlamentare (e, giova ancora ribadirlo, assente dall'incontro di ieri). Molto tese, ma piuttosto divise sulle soluzioni da adottare, le rappresentanze sindacali: dopo il colpo di testa parlamentare della maggioranza, è in gioco la sorte di oltre 10.000 lavoratori. «La preoccupazione è altissima», sono state le parole di Marco Bentivogli (Fim Cisl). Bentivogli ha rappresentato la situazione con crudo realismo: «L'amministratore delegato Lucia Morselli ha davanti due strade: consolidare la produzione di acciaio a quattro milioni di tonnellate l'anno, il che significa ridurre l'organico di 5.000 unità, oppure, dopo il pasticcio del Senato, fare letteralmente le valigie. Non esistono altri scenari. Il pasticcio fatto al Senato rischia di dare un alibi all'azienda per andarsene». Assai più aggressivo contro Arcelormittal l'atteggiamento di Francesca Re David (Fiom): «Deve garantire quello che ha firmato. Altrimenti il governo dovrà trovare il modo di garantire quello che abbiamo firmato nell'accordo, cioè la sicurezza occupazionale, il piano ambientale e il piano industriale. Senza esuberi». Non si capisce però come la Fiom intenda imporre a un operatore privato di rimanere vincolato, anche al mutare di una circostanza decisiva come il venir meno dello scudo legale. Morale, l'incertezza si aggrava. Un sindacato più comprensivo e dialogante verso l'azienda, e che in fondo chiede al governo di correggere l'errore commesso, e un altro all'assalto contro Arcelormittal. Nel mezzo, un governo e una maggioranza che si sono fatti guidare dalla loro ala parlamentare più talebana, e ora non sanno come uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati.
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