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2021-02-19
Il futuro genero sbugiarda la toga vorace
Per fortuna hanno solo mangiato al ristorante in pieno lockdown. Perché se si fossero dati al traffico di stupefacenti, avrebbero fatto la fine della banda di Smetto quando voglio, il film di Sidney Sibilia che racconta la storia di un gruppo di plurilaureati che si danno al crimine. Giorno dopo giorno, la tragicommedia del giudice Nunzio Sarpietro e del suo pranzo regale con figlia e «genero» assume contorni sempre più fantozziani. Gran parte del merito, va detto, tocca al giudice catanese del caso Gregoretti, che vede l'ex ministro degli Interni Matteo Salvini accusato nientemeno che di sequestro di persona. Martedì, parlando con il Corriere della Sera, si era aggrappato a un presunto «stato di necessità». Ora viene fuori, grazie a una letterina di precisazioni del compagno di sua figlia, che invece il pranzo era stato organizzato dal giovanotto e che il magistrato «era stato invitato a raggiungerci la mattina stessa». Insomma, non è che vagasse per il centro di Roma senza la possibilità di avere del cibo. Da «Chinappi» a Porta Pia, Sarpietro sapeva benissimo che ci sarebbe dovuto andare già prima di interrogare, a Palazzo Chigi, il premier dimissionario Giuseppe Conte.
Davanti alle telecamere delle Iene e alle domande incalzanti di Filippo Roma, entrato nel locale fintamente «chiuso» a pranzo del 28 gennaio, il sessantanovenne magistrato si era difeso con qualche imbarazzo, ammettendo subito che stava facendo una cosa vietata. Aveva tuttavia cercato di rifugiarsi dietro un paio di understatement: «Non ho violato la legge, semmai un regolamento» e «Abbiamo mangiato solo tre piattini freddi e bevuto un goccio di vino». In realtà è stato smentito dal ristoratore stesso, che ha parlato di tre pasti completi: antipasti di polpo; piatti pesce crudo con gamberi, scampi e palamida; spaghetti alle telline e una spigola al sale. Per un conto da 200 euro.
Dopo la messa in onda del servizio, su Italia1, anziché starsene a Catania ad aspettare la sanzione pecuniaria per aver violato un Dpcm, il giudice ha risposto al Corriere e l'ha un po' sparata grossa. In sostanza, si è appellato allo «stato di necessità», perché l'albergo dove aveva dormito non era in grado di fornire il pranzo, a causa di una impellente opera di «sanificazione anti Covid». Lo stesso Sarpietro ammetteva che avrebbe fatto meglio ad accontentarsi di un pezzo di pizza al taglio. Ma dopo la soddisfazione di essere finito su tutti i telegiornali per aver interrogato Conte, poteva limitarsi a uno spuntino così dozzinale?
Vero o falso che sia lo «stato di necessità» ad aver deviato il gup catanese da un trancio di margherita ai gamberi rossi, di sicuro non aveva letto l'email che il compagno di sua figlia, Simone Ancona, aveva scritto a Le Iene nel disperato tentativo di arginare la figuraccia stellare.
«Buonasera. Mi chiamo Simone e mi pregio di essere il felice compagno della sig.na Sarpietro, figlia del dott. Sarpietro, ahimè protagonista del servizio del dott. Filippo Roma che andrà in onda nella serata odierna». Inizia così la missiva del giovane, che racconta di vivere a Roma con la figlia dell'alto magistrato e si assume la responsabilità di aver organizzato la fastosa colazione. «Intendevo regalare ad entrambi un momento di svago insieme dopo una giornata particolarmente impegnativa», scrive. Per questo, saputo dell'arrivo nella Capitale del «suocero», ha chiamato un amico che lavora con Stefano Chinappi, padrone del ristorante, e ha ottenuto di pranzare nel locale aperto solo per l'asporto, violando le regole della zona arancione. «Il pranzo da me offerto era innegabilmente clandestino, ma si è svolto in totale sicurezza», precisa Simone, il quale poi tenta di scagionare il magistrato. «Ritengo dunque inesatto ed estremamente arbitrario, se non addirittura malizioso, supporre che la richiesta di consumare all'interno del locale sia pervenuta dal dott. Sarpietro», scrive nella lettera, aggiungendo di non essere stato «particolarmente limpido nel delineare adeguatamente la situazione». In ogni caso, rivela che il padre della fidanzata era stato invitato «la mattina stessa». Non poteva certo immaginare, pur con tutta la sua buona volontà, che il giudice avrebbe poi tirato fuori la storia dello «stato di necessità», per definizione legato a eventi improvvisi. Storia che proprio non va d'accordo né con un pranzo organizzato almeno dalla vigilia, né con un invito ricevuto alcune ore prima.
Varie testate, poi, hanno scritto che il lieto pranzetto sarebbe stato organizzato per scambiarsi una promessa di matrimonio. È lo stesso Simone a smentirlo, raccontando che, preoccupato per la vista del cameramen di Italia1, «ho consigliato di dire che si trattasse di una prova piatti per un pranzo di matrimonio, nell'ingenuo tentativo di limitare i danni e ridurre il suo imbarazzo». Inteso come imbarazzo di Sarpietro padre. Non sapeva ancora che il probabile suocero si mette in imbarazzo già da solo.
Oggi al processo per la Gregoretti Di Maio ritrova Salvini. Da alleato
Strani scherzi fa il destino. S'erano salutati in cagnesco nell'agosto 2019, alla fine traumatica del governo gialloblù, promettendosi che insieme non avrebbero mai più preso nemmeno un caffè. Oggi il leader leghista Matteo Salvini e il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio non soltanto si trovano di nuovo riuniti nella grande maggioranza che sorregge Mario Draghi, ma stamattina s'incontreranno anche di persona nell'aula bunker del Tribunale di Catania.
In quella cupa aula blindata, da ottobre, si svolge l'udienza preliminare che deve decidere se rinviare a giudizio Salvini per il presunto sequestro dei 131 migranti che nel luglio 2019, quando era ministro degli Interni, furono trattenuti per quattro giorni a bordo della nave militare Gregoretti. E oggi Di Maio è uno dei testimoni di giornata, in quanto ex ministro dello Svipuppo economico del lavoro e delle politiche sociali nel governo che affrontava gli sbarchi nell'estate 2019, assieme al successore di Salvini al Viminale, Luciana Lamorgese.
In quella stessa aula, lo scorso dicembre, il giudice Nunzio Sarpietro aveva già ascoltato come testi gli ex ministri grillini della Difesa, Elisabetta Trenta, e dei Trasporti, Danilo Toninelli, da cui aveva ottenuto un'imbarazzante sequela di 42 «non ricordo» o «fatico a ricordare», o «è passato troppo tempo». A fine gennaio, il magistrato aveva tenuto un'udienza in trasferta a Palazzo Chigi, dove aveva interrogato l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. All'uscita, irritualmente, Sarpietro aveva trasmesso alcuni significativi giudizi ai cronisti che l'accerchiavano. «Nella politica generale del governo», aveva spiegato il giudice, «quella della ricollocazione era una costante, un leitmotiv generale». Poi Sarpietro aveva voluto aggiungere una frase che era parsa particolarmente importante: «Le responsabilità politiche e penali vanno distinte». Giulia Bongiorno, avvocato di Salvini e valente penalista, ne aveva tratto l'impressione che il magistrato fosse incline a ritenere «insindacabile» la linea adottata nel 2019 sugli immigrati dal ministro leghista, proprio perché «politica», tanto più che quella stessa linea era pienamente condivisa dal resto del governo.
La difesa di Salvini ha sempre sottolineato che i migranti erano rimasti a bordo pochi giorni, dal 27 al 31 luglio 2019, perché quello era stato «il tempo necessario per concordare con altri Paesi europei il loro trasferimento». Questo emerge con chiarezza dalle cronache di quei giorni. Il 30 luglio l'allora ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, aveva proclamato che «l'Europa deve farsi carico del problema Gregoretti». Il 31 luglio, giorno dell'autorizzazione allo sbarco perché il governo italiano aveva finalmente ricevuto dall'Europa l'assicurazione che i 131 immigrati sarebbero stati distribuiti tra Germania, Francia, Portogallo, Irlanda e Lussemburgo, Di Maio aveva dichiarato: «Per me l'Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti; quei migranti devono andare in Europa». E in più aveva anche aggiunto alcune parole a difesa dell'equipaggio della nave Gregoretti, chiedendo di non trattare «i nostri militari su quella nave come fossero pirati».
Si vedrà quali saranno, oggi a Catania, le parole di Di Maio. Ieri Salvini, ironizzando sulle amnesie in aula di Toninelli, s'è augurato che il ministro degli Esteri «ricordi quel che successo, a differenza di qualcun altro».
Il leader leghista ieri ha confermato comunque che oggi si presenterà in tribunale «con il sorriso e a testa alta, come sempre, per rispondere di un'accusa di sequestro di persona, fino a 15 anni di carcere la pena prevista, soltanto per aver difeso i confini, la sicurezza e la dignità dell'Italia».
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La tragicommedia del giudice Nunzio Sarpietro e del suo pranzo a pesce e Champagne nel ristorante romano in zona arancione. Il compagno della figlia scrive che l'incontro a tavola era stato organizzato fin dal mattino. Altro che «ero in stato di necessità».Luigi Di Maio testimonierà sul «sequestro di migranti» per cui l'ex ministro è imputato a causa sua.Lo speciale contiene due articoli.Per fortuna hanno solo mangiato al ristorante in pieno lockdown. Perché se si fossero dati al traffico di stupefacenti, avrebbero fatto la fine della banda di Smetto quando voglio, il film di Sidney Sibilia che racconta la storia di un gruppo di plurilaureati che si danno al crimine. Giorno dopo giorno, la tragicommedia del giudice Nunzio Sarpietro e del suo pranzo regale con figlia e «genero» assume contorni sempre più fantozziani. Gran parte del merito, va detto, tocca al giudice catanese del caso Gregoretti, che vede l'ex ministro degli Interni Matteo Salvini accusato nientemeno che di sequestro di persona. Martedì, parlando con il Corriere della Sera, si era aggrappato a un presunto «stato di necessità». Ora viene fuori, grazie a una letterina di precisazioni del compagno di sua figlia, che invece il pranzo era stato organizzato dal giovanotto e che il magistrato «era stato invitato a raggiungerci la mattina stessa». Insomma, non è che vagasse per il centro di Roma senza la possibilità di avere del cibo. Da «Chinappi» a Porta Pia, Sarpietro sapeva benissimo che ci sarebbe dovuto andare già prima di interrogare, a Palazzo Chigi, il premier dimissionario Giuseppe Conte. Davanti alle telecamere delle Iene e alle domande incalzanti di Filippo Roma, entrato nel locale fintamente «chiuso» a pranzo del 28 gennaio, il sessantanovenne magistrato si era difeso con qualche imbarazzo, ammettendo subito che stava facendo una cosa vietata. Aveva tuttavia cercato di rifugiarsi dietro un paio di understatement: «Non ho violato la legge, semmai un regolamento» e «Abbiamo mangiato solo tre piattini freddi e bevuto un goccio di vino». In realtà è stato smentito dal ristoratore stesso, che ha parlato di tre pasti completi: antipasti di polpo; piatti pesce crudo con gamberi, scampi e palamida; spaghetti alle telline e una spigola al sale. Per un conto da 200 euro.Dopo la messa in onda del servizio, su Italia1, anziché starsene a Catania ad aspettare la sanzione pecuniaria per aver violato un Dpcm, il giudice ha risposto al Corriere e l'ha un po' sparata grossa. In sostanza, si è appellato allo «stato di necessità», perché l'albergo dove aveva dormito non era in grado di fornire il pranzo, a causa di una impellente opera di «sanificazione anti Covid». Lo stesso Sarpietro ammetteva che avrebbe fatto meglio ad accontentarsi di un pezzo di pizza al taglio. Ma dopo la soddisfazione di essere finito su tutti i telegiornali per aver interrogato Conte, poteva limitarsi a uno spuntino così dozzinale? Vero o falso che sia lo «stato di necessità» ad aver deviato il gup catanese da un trancio di margherita ai gamberi rossi, di sicuro non aveva letto l'email che il compagno di sua figlia, Simone Ancona, aveva scritto a Le Iene nel disperato tentativo di arginare la figuraccia stellare.«Buonasera. Mi chiamo Simone e mi pregio di essere il felice compagno della sig.na Sarpietro, figlia del dott. Sarpietro, ahimè protagonista del servizio del dott. Filippo Roma che andrà in onda nella serata odierna». Inizia così la missiva del giovane, che racconta di vivere a Roma con la figlia dell'alto magistrato e si assume la responsabilità di aver organizzato la fastosa colazione. «Intendevo regalare ad entrambi un momento di svago insieme dopo una giornata particolarmente impegnativa», scrive. Per questo, saputo dell'arrivo nella Capitale del «suocero», ha chiamato un amico che lavora con Stefano Chinappi, padrone del ristorante, e ha ottenuto di pranzare nel locale aperto solo per l'asporto, violando le regole della zona arancione. «Il pranzo da me offerto era innegabilmente clandestino, ma si è svolto in totale sicurezza», precisa Simone, il quale poi tenta di scagionare il magistrato. «Ritengo dunque inesatto ed estremamente arbitrario, se non addirittura malizioso, supporre che la richiesta di consumare all'interno del locale sia pervenuta dal dott. Sarpietro», scrive nella lettera, aggiungendo di non essere stato «particolarmente limpido nel delineare adeguatamente la situazione». In ogni caso, rivela che il padre della fidanzata era stato invitato «la mattina stessa». Non poteva certo immaginare, pur con tutta la sua buona volontà, che il giudice avrebbe poi tirato fuori la storia dello «stato di necessità», per definizione legato a eventi improvvisi. Storia che proprio non va d'accordo né con un pranzo organizzato almeno dalla vigilia, né con un invito ricevuto alcune ore prima. Varie testate, poi, hanno scritto che il lieto pranzetto sarebbe stato organizzato per scambiarsi una promessa di matrimonio. È lo stesso Simone a smentirlo, raccontando che, preoccupato per la vista del cameramen di Italia1, «ho consigliato di dire che si trattasse di una prova piatti per un pranzo di matrimonio, nell'ingenuo tentativo di limitare i danni e ridurre il suo imbarazzo». Inteso come imbarazzo di Sarpietro padre. Non sapeva ancora che il probabile suocero si mette in imbarazzo già da solo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-futuro-genero-sbugiarda-la-toga-vorace-2650613780.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="oggi-al-processo-per-la-gregoretti-di-maio-ritrova-salvini-da-alleato" data-post-id="2650613780" data-published-at="1613677859" data-use-pagination="False"> Oggi al processo per la Gregoretti Di Maio ritrova Salvini. Da alleato Strani scherzi fa il destino. S'erano salutati in cagnesco nell'agosto 2019, alla fine traumatica del governo gialloblù, promettendosi che insieme non avrebbero mai più preso nemmeno un caffè. Oggi il leader leghista Matteo Salvini e il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio non soltanto si trovano di nuovo riuniti nella grande maggioranza che sorregge Mario Draghi, ma stamattina s'incontreranno anche di persona nell'aula bunker del Tribunale di Catania. In quella cupa aula blindata, da ottobre, si svolge l'udienza preliminare che deve decidere se rinviare a giudizio Salvini per il presunto sequestro dei 131 migranti che nel luglio 2019, quando era ministro degli Interni, furono trattenuti per quattro giorni a bordo della nave militare Gregoretti. E oggi Di Maio è uno dei testimoni di giornata, in quanto ex ministro dello Svipuppo economico del lavoro e delle politiche sociali nel governo che affrontava gli sbarchi nell'estate 2019, assieme al successore di Salvini al Viminale, Luciana Lamorgese. In quella stessa aula, lo scorso dicembre, il giudice Nunzio Sarpietro aveva già ascoltato come testi gli ex ministri grillini della Difesa, Elisabetta Trenta, e dei Trasporti, Danilo Toninelli, da cui aveva ottenuto un'imbarazzante sequela di 42 «non ricordo» o «fatico a ricordare», o «è passato troppo tempo». A fine gennaio, il magistrato aveva tenuto un'udienza in trasferta a Palazzo Chigi, dove aveva interrogato l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. All'uscita, irritualmente, Sarpietro aveva trasmesso alcuni significativi giudizi ai cronisti che l'accerchiavano. «Nella politica generale del governo», aveva spiegato il giudice, «quella della ricollocazione era una costante, un leitmotiv generale». Poi Sarpietro aveva voluto aggiungere una frase che era parsa particolarmente importante: «Le responsabilità politiche e penali vanno distinte». Giulia Bongiorno, avvocato di Salvini e valente penalista, ne aveva tratto l'impressione che il magistrato fosse incline a ritenere «insindacabile» la linea adottata nel 2019 sugli immigrati dal ministro leghista, proprio perché «politica», tanto più che quella stessa linea era pienamente condivisa dal resto del governo. La difesa di Salvini ha sempre sottolineato che i migranti erano rimasti a bordo pochi giorni, dal 27 al 31 luglio 2019, perché quello era stato «il tempo necessario per concordare con altri Paesi europei il loro trasferimento». Questo emerge con chiarezza dalle cronache di quei giorni. Il 30 luglio l'allora ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, aveva proclamato che «l'Europa deve farsi carico del problema Gregoretti». Il 31 luglio, giorno dell'autorizzazione allo sbarco perché il governo italiano aveva finalmente ricevuto dall'Europa l'assicurazione che i 131 immigrati sarebbero stati distribuiti tra Germania, Francia, Portogallo, Irlanda e Lussemburgo, Di Maio aveva dichiarato: «Per me l'Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti; quei migranti devono andare in Europa». E in più aveva anche aggiunto alcune parole a difesa dell'equipaggio della nave Gregoretti, chiedendo di non trattare «i nostri militari su quella nave come fossero pirati». Si vedrà quali saranno, oggi a Catania, le parole di Di Maio. Ieri Salvini, ironizzando sulle amnesie in aula di Toninelli, s'è augurato che il ministro degli Esteri «ricordi quel che successo, a differenza di qualcun altro». Il leader leghista ieri ha confermato comunque che oggi si presenterà in tribunale «con il sorriso e a testa alta, come sempre, per rispondere di un'accusa di sequestro di persona, fino a 15 anni di carcere la pena prevista, soltanto per aver difeso i confini, la sicurezza e la dignità dell'Italia».
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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