Alberto Stasi (Ansa)
Ieri l’udienza dell’incidente probatorio: al centro, il materiale ritenuto compatibile con quello di Sempio o dei suoi familiari in linea paterna, ma non con il fidanzato della vittima. Il quale, a sorpresa, si è presentato in aula, scatenando l’ira dei Poggi e di Venditti.
La presenza del Dna di Alberto Stasi sulle unghie di Chiara Poggi era rimasta sospesa come una minaccia perenne. Non era una certezza, ma un’ombra. Un residuo tecnico buono per tenere aperta ogni porta o per alimentare il dubbio.
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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Sanzionata una copertina di «Panorama» che criticava gli operatori delle Ong. L’obiettivo della querela era impedirci di raccontare come agiscono. Nessuno s’indigna per la libertà di informazione a rischio?
In Italia non si può dire che chi non rispetta la legge è un pirata. Un giudice del tribunale di Milano ha infatti deciso che definirlo tale, anche se il mancato rispetto di un divieto non è frutto di un errore ma di una deliberata e consapevole scelta, è diffamazione. Così ha condannato me e Panorama a risarcire con 80.000 euro sette Ong. Tutto nasce da una copertina del settimanale di cui sono direttore. Fausto Biloslavo un anno fa ha scritto una brillante inchiesta per raccontare come agiscono le navi delle organizzazioni non governative che presidiano il Mediterraneo in cerca di migranti. La loro, raccontava, è un’azione coordinata per far pressione sugli Stati e consentire lo sbarco di decine di migliaia di persone. «Con documenti riservati», recitava il sommario, «Panorama ricostruisce la strategia degli arrivi via mare al di fuori delle leggi e nel silenzio disinteressato delle autorità europee». Titolo: «I nuovi pirati». Alcune Ong, tra le quali Emergency, Open Arms, Sea Wach e Sos Mediterranée (nomi che abbiamo imparato a conoscere perché da tempo fanno la spola dalle sponde africane a quelle italiane), si sono sentite diffamate. Pirati a chi? Non hanno contestato una sola riga dell’articolo pubblicato, né hanno sostenuto che le rivelazioni di Biloslavo fossero false: hanno querelato il titolo di copertina, dove per altro nessuna delle Ong che si sono rivolte al giudice era citata. Nonostante nel corso degli anni alcuni dei loro rappresentanti abbiano rilasciato una serie di dichiarazioni in cui manifestavano l’intenzione di non rispettare la legge italiana in forza di un superiore interesse da loro stessi stabilito, le Ong rifiutano di essere definite pirati, ritenendo il sostantivo una lesione della loro reputazione.
E come si può chiamare un tizio che promette «appena posso (violare la legge, ndr) lo rifaccio»?. «Costi quel che costi», disse Luca Casarini, «al vostro ordine continuerò a disobbedire, perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili non possono niente». Quelle contestate sono le leggi dello Stato italiano, approvate dal Parlamento italiano, vigilate dalla Corte costituzionale italiana, rispettate dalla maggioranza degli italiani. Ma per Casarini e compagni si possono ignorare. Anzi, si devono violare. E nessuno può permettersi il diritto di critica e di chiamarli pirati. «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno», disse Beppe Caccia, capo missione di Mediterranea, «ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana, alle leggi dell’umanità». Chi si può arrogare il diritto di stabilire che ci si può infischiare di una legge? Ve la immaginate quale sarebbe la reazione di fronte a un tizio che ignora il codice della strada o la normativa fiscale e dice che lui risponde a una legge superiore? E vi ricorda qualche cosa la definizione di «legge criminale»? Negli anni della contestazione lo Stato era criminale, le misure repressive, i divieti autoritari. Come sia finita si sa.
Il soccorso in mare ha un obiettivo politico: è un’azione che mira a «contrastare e a sovvertire il sistema capitalista e patriarcale» come ha spiegato don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea. «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo», ha aggiunto Carola Rackete, la capitana che nella foga di attraccare nonostante le fosse stato negato il diritto allo sbarco andò a sbattere con la sua nave contro una motovedetta della Guardia di finanza. E costoro non si possono definire pirati? Chiamarli tali, perché come diceva il filosofo Giulio Giorello a proposito dei bucanieri, ritengono la loro coscienza «superiore a ogni legge», sarebbe diffamatorio? E quale offesa alla propria reputazione, quale danno, avrebbero patito, di grazia? È evidente che le querele hanno un obiettivo: tappare la bocca a chi esprime un giudizio critico, impedire alla libera stampa di dire quel che pensa e di chiamare le cose con il loro nome.
Da una settimana si discute di giornali comprati e venduti, perché John Elkann ha messo in vendita Repubblica e La Stampa. Ma la minaccia all’articolo 21 della Costituzione non viene da un imprenditore greco o italiano che compra una testata, bensì dal tentativo di imbavagliare chi si oppone, con le inchieste e le notizie, alla strategia dell’immigrazione, arma - come predica don Ferrari - usata per abbattere il sistema capitalistico e patriarcale. Sono certo che di fronte alla sentenza contro Panorama non si leveranno le voci degli indignati speciali. Quelle si alzano solo quando condannano Roberto Saviano a pagare mille euro per aver chiamato bastardi Meloni e Salvini. Visti i risultati, mi conveniva titolare «I nuovi bastardi».
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Giorgia Meloni (Ansa)
Accordo tra Parlamento europeo e Consiglio d’Europa per limitare le impugnazioni da parte dei giudici. Il premier riunisce altri 15 leader e i vertici della Commissione.
L’Unione europea inizia a fare sul serio nella lotta all’immigrazione clandestina con motivazione economica, puntualmente travestita da motivi politici. Su spinta dell’Italia, ieri il Parlamento e il Consiglio d’Europa hanno trovato l’accordo politico preliminare sugli aggiornamenti della legge sull’asilo del 2024, in modo da limitare le impugnazioni dei decreti di espulsione da parte dei giudici, sulla base di valutazioni variabili della democraticità di questo o quel Paese terzo.
La commissione per le libertà civili dell’Eurocamera e i negoziatori del Consiglio hanno concordato informalmente le nuove norme in base alle quali gli Stati membri possono decidere che un Paese extra Ue sia da considerarsi Paese terzo sicuro (Stc) nei confronti di un richiedente asilo che non ne è cittadino. Alla base di tutto c’è stata un’iniziativa del governo di Giorgio Meloni e l’appoggio di Ursula von der Leyen, che aveva capito che bisognava intervenire contro le interpretazioni creative.
La Commissione ha subito emesso una nota di soddisfazione: «Queste nuove norme aiuteranno gli Stati membri ad accelerare il trattamento delle domande di asilo, a ridurre la pressione sui sistemi di asilo e a ridurre gli incentivi alla migrazione illegale verso l’Ue, preservando nel contempo le garanzie giuridiche per i richiedenti e garantendo il rispetto dei diritti fondamentali».
Il fronte contrario a una miglior specificazione del concetto di Paese sicuro teme che le nuove regole possano tradursi in una minor tutela dei richiedenti asilo. Ma dall’altro, i contrari non sembrano propensi ad ammettere che i Paesi veramente democratici, almeno secondo i canoni occidentali, sono sempre meno.
A margine del Consiglio europeo, Giorgia Meloni, insieme ai colleghi danese, Mette Frederiksen, e olandese, Dick Schoof, ha ospitato una nuova riunione informale dei 15 Stati membri più interessati al tema delle soluzioni in ambito migratorio.
Insieme a Italia, Danimarca, Paesi Bassi e Commissione europea, hanno preso parte all’incontro i leader di Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Germania, Grecia, Polonia, Repubblica ceca, Lettonia, Malta, Ungheria e Svezia.
In questa sede, come spiega una nota di Palazzo Chigi, il premier italiano ha aggiornato i colleghi sul lavoro in corso «sul tema della capacità delle Convenzioni internazionali di rispondere alle sfide della migrazione irregolare e sulle prossime iniziative previste».
Dopo il risultato dello scorso 10 dicembre, quando 27 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno sottoscritto la dichiarazione politica italo-danese, ora il lavoro continua in vista della Ministeriale del Consiglio d’Europa, sotto la presidenza moldava, del prossimo 15 maggio.
I leader hanno anche concordato di lanciare iniziative congiunte anche nei diversi contesti internazionali, a partire dall’Onu, per «promuovere più efficacemente l’approccio europeo ad una gestione ordinata dei flussi migratori».
Per Alessandro Ciriani, eurodeputato di Fdi-Ecr e relatore per il Parlamento europeo del dossier sui Paesi terzi sicuri, «la lista concordata - che comprende, oltre ai Paesi candidati, Egitto, Bangladesh, Tunisia, India, Colombia, Marocco e Kosovo - produrrà effetti immediati sulle pratiche di esame delle domande di protezione internazionale, accelerando le procedure e rafforzando la certezza applicativa». In generale, per Ciriani «è un momento storico: grazie al lavoro del governo italiano, anche in Europa si supera la polarizzazione politica in tema di immigrazione e si sceglie la via del buonsenso».
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Carola Rackete (Getty Images)
Gli stessi attivisti rivendicano di non seguire norme che giudicano sbagliate, appellandosi al «diritto marittimo» e all’«umanità».
La legge non è uguale per tutti, stando alle dichiarazioni delle stesse Ong. «Appena posso lo rifaccio. Costi quel che costi [...] Al vostro ordine continuerò a disobbedire perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili, non possono niente».
Era marzo 2021 e così prometteva di sfidare la magistratura Luca Casarini, fondatore e capomissione di Mediterranea Saving Humans. L’ex disobbediente del Nord-Est dichiarava di voler continuare a non rispettare le regole, l’ha ribadito anche lo scorso ottobre in apertura del processo a Ragusa dove è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante di averne tratto profitto. «¡Aquí no se rinde nadie! qui non si arrende nessuno», terminò il suo post su Facebook poco prima dell’udienza, citando la frase pronunciata dal comandante rivoluzionario Juan Almeida Bosque durante lo sbarco dei guerriglieri a Cuba. Casarini non riconosce la legge e poco importa se traveste l’inosservanza con scuse umanitarie: la lista dei disobbedienti per torti e offese subìte sarebbe interminabile, mentre in uno Stato di diritto non si fa giustizia a propria misura calpestando l’ordinamento.
Il capomissione della Ong si vanta di essere un trasgressore, solca i mari con «la nave dei centri sociali» agendo senza regole se non le condivide. «Io ho fatto del ragionamento sulla disobbedienza una caratteristica della mia vita [...] Sono i governi che violano continuamente la legge», è una sua precedente affermazione datata marzo 2019 in piena vicenda Mare Jonio, la barca entrata nel porto di Lampedusa malgrado il no del Viminale allora retto da Matteo Salvini.
Non è da meno il capo missione di Mediterranea, Beppe Caccia, che lo scorso agosto ammetteva con orgoglio di avere infranto la legge: «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno. Ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità». No, la Costituzione afferma che la legge è uguale per tutti, senza distinzioni di sorta e che tutti sono tenuti a rispettarla.
Eppure Carola Rackete si è vantata più volte di averla calpestata nel nostro Paese. La comandante tedesca della nave Sea Watch 3, che con le sue 650 tonnellate di stazza aveva investito la motovedetta della Guardia di finanza colpevole solo di avere intimato l’alt, nel giugno del 2019 giustificava l’azione. «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra. Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là», era la sua strabiliante versione accolta anche dal gip del tribunale di Agrigento che archiviò le accuse di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra. Salvini protestò: «Quindi, se capisco bene la sentenza, speronare una motovedetta militare italiana con uomini a bordo non è reato. Torniamo ai tempi dei pirati… No comment». Rackete un mese dopo tornava a vantarsi: «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal Decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo. Talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate di fronte a un giudice».
In quest’ottica, l’assurdità dei decreti legge emanati durante l’emergenza Covid dovrebbero giustificare gli atti di disobbedienza compiuti, anche con il rifiuto di vaccinarsi che invece è stato perseguito e punito. Spesso il principio di legalità non ha affatto rappresentato la massima garanzia di libertà, anzi ha modificato diritti fondamentali dei cittadini e chi si è ribellato ne ha pagato le conseguenze. Solo le Ong sarebbero libere di infrangere le leggi?
Nel maggio del 2024 associazioni come Baobab experience, Collettivo rotte balcaniche, Linea d’ombra, Kitchen on borders difendevano un network nato «nell’autodenuncia della propria pratica quotidiana di disobbedienza civile, contro le politiche migratorie italiana ed europea, contro i confini interni ed esterni».
E se ci si mette anche la Chiesa, la disobbedienza può appare il nuovo credo a cui dare ascolto. In spregio alle leggi e ai tribunali, stando alle parole di don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea Saving Humans. «La morale per noi invece è che tu devi lottare accanto a chi è oppresso. Tu devi contrastare questo sistema. Tu devi sovvertire questo sistema capitalista e patriarcale. E allora abbiamo introdotto l’espressione disobbedienza morale», spiegava nel luglio del 2023.
Anche Alessandra Sciurba, già presidente di Mediterranea Saving Humans, nel 2020 parlava di «disobbedienza morale e obbedienza civile» che l’aveva animata a soccorrere migranti sulla barca a vela Alex sfidando decreti-legge e imposizioni governative illegittimi. È la stessa Associazione di promozione sociale (Aps) in cui si è trasformata Mediterranea a lamentarsi perché «le Ong sono costrette a spendere una gran quantità di tempo e risorse per contestare la restrittiva legislazione italiana e i fermi amministrativi arbitrariamente imposti». Navigano contro legge.
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