2023-01-24
Il fondo sovrano europeo finirà stritolato da tarantelle e patti privilegiati fra Stati
Come risposta alla crisi, Charles Michel spinge un progetto sulla falsariga del price cap: sarà azzoppato da accordi bilaterali come il Trattato di Aquisgrana fra Parigi e Berlino.È oggettivamente di notevole interesse la lunga intervista pubblicata ieri su Repubblica al presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel. Il cuore della conversazione sta nella spinta retorica molto forte verso nuovi fondi comuni per l’economia Ue. A onor del vero, Michel si tiene vago sulla possibilità di un altro Recovery fund: «La mia osservazione è innanzitutto che dobbiamo fornire maggiore flessibilità ai fondi esistenti perché non tutti sono stati utilizzati al meglio». Michel, invece, privilegia apertamente altre due strade: in primo luogo, l’estensione del già esistente fondo Sure; in secondo luogo, l’introduzione «di un fondo sovrano europeo che faccia perno sulla Banca europea per gli investimenti». Su questo secondo strumento, Michel prende tempo ma afferma una volontà politica che pare netta: «Ci vorrà più tempo, non è una risposta a breve termine ma bisogna prendere una decisione il prima possibile almeno sui principi di base». Dinanzi a questo impianto, sorgono però tre differenti obiezioni. La prima. Per quanto - curiosamente - Michel tenga a definirsi liberale, l’armamentario economico che evoca è di chiarissima impronta dirigista, per non dire esplicitamente socialista. Una risposta del belga è perfino imbarazzante per la contraddizione che reca in sé: «Lo dico da liberale: si possono socializzare i mezzi per trasformare l’economia». La realtà è che già con il Recovery fund si è manifestata una propensione di moltissimi politici verso quella che Friedrich von Hayek avrebbe definito la «presunzione fatale»: la pretesa dirigista di orientare le cose, di programmare tutto, di far prevalere una pianificazione centralizzata. Il vizio socialista è sempre quello. E il paradosso è che, in un mondo in continua, rapidissima, imprevedibile trasformazione, ci sia ancora chi pensi che un ministro o un commissario Ue possano prevedere (da qui a sette-dieci anni!) quali settori cresceranno e quali no, dove investire e dove no, quali «vincitori» e quali «sconfitti» debbano essere «predeterminati» - a questo punto - per volontà politica. Su queste colonne, abbiamo più volte sollecitato un approccio totalmente diverso: per lo meno, a essere benevoli, più equilibrato, che non dimentichi l’altra gamba rispetto agli investimenti pubblici, e cioè misure economiche (tagli di tasse e riduzione del peso regolatorio) che consentano al settore privato di correre, investire, rischiare, cercare profitto e creare crescita. Ma tutto ciò pare sparito nelle discussioni teoriche dei nuovi pianificatori. Attenzione, perché per l’Italia la cosa è particolarmente rischiosa: davvero pensiamo che il nostro tessuto di imprese sia tutto «riorientabile» per volontà politica in senso green e digitale? Una follia. Se questa prima obiezione è di impronta liberale, la seconda è - per così dire - di impronta democratica. Ammesso che il piano Michel faccia passi avanti, se l’Ue fosse in grado di determinare spese e investimenti pubblici, fatalmente - come contropartita - Bruxelles vorrà avere un crescente dominio anche delle entrate, assumendo simmetricamente su di sé sia il controllo della politica economica e industriale sia il governo della politica fiscale. E a quel punto - di grazia - a cosa servirebbe il voto per i Parlamenti e i governi nazionali? Altro che pilota automatico: tutte le decisioni fondamentali sarebbero centralizzate a Bruxelles. E non occorre un indovino per immaginare che la parte del leone, nella definizione degli obiettivi «comuni», la farebbero Berlino e Parigi. Siamo sicuri che questo corrisponda al miglior interesse nazionale italiano? Diremmo proprio di no. La terza obiezione è di impronta completamente diversa dalle prima due (che scaturiscono da un approccio scettico rispetto alla mega pianificazione Ue). Diciamo che questa terza critica nasce invece da un’eventuale adesione allo schema di Michel. Ecco, se qualcuno - in astratto - decidesse di dare ragione a Michel sulla desiderabilità dei suoi piani comuni, resterebbe il problema enorme di capire come quei progetti europei potrebbero conciliarsi con i rilevantissimi accordi bilaterali esistenti tra Paese e Paese. Per un verso, ci riferiamo all’accordo Italia-Francia (che vide La Verità critica sin dal primo momento): sotto il titolo neutro «Trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata con la Francia» si nasconde infatti un’intesa cornice che coinvolge un numero notevole di settori ultrasensibili, dalla Difesa all’industria, dagli esteri all’energia, passando per l’immigrazione, la giustizia, l’istruzione, la formazione. Ma ancora più rilevante è l’accordo Germania-Francia rilanciato pochi anni fa da Angela Merkel ed Emmanuel Macron sotto l’altamente evocativo nome di Trattato di Aquisgrana. Ora, se quell’accordo vive (e come vive: lo abbiamo visto in ambito energetico), come si concilia con un’ipotetica azione comune dei 27? Inutile far finta che la contraddizione non ci sia: il rischio è quello di rivedere lo spettacolo per cui da un lato Parigi e Berlino si intendono fra loro e agiscono rapidamente nel reciproco interesse, e dall’altro i 27 si perdono in un lungo vaniloquio come quello durato mesi e mesi sul price cap. Restano quindi inevase domande cruciali: come si conciliano gli accordi bilaterali con l’ipotetico fondo comune? Chi metterebbe i soldi in questo secondo caso? Le scelte di investimento al servizio di quali interessi sarebbero compiute? Chi avrebbe l’ultima parola? Si tratta di questioni enormi, totalmente prive di risposta.