2018-06-02
Il dottor Zivago diventa una serie tv
Il regista Michael Hirst, già autore di Vikings, dirigerà una fiction tratta dal celebre romanzo russo di Boris Pasternak. La sua pubblicazione, nel 1957, fu un caso politico: l'Urss e i comunisti italiani ritenevano il libro «controrivoluzionario».Forse stavolta Lara si volterà, si accorgerà di Jurij e l'amore trionferà. Forse ora che Il dottor Zivago torna sul piccolo schermo (ne trarrà una serie tv il regista Michael Hirst) ci sarà l'happy end, la fine dell'ingiustizia, la redenzione degli oppressi, quell'impossibile stravolgimento della trama che, in Palombella rossa, Nanni Moretti e gli altri telespettatori sembrano attendersi dal film trasmesso alla tv. Il dottore, anziano e rassegnato, crede di vedere la bella amata di un tempo dal finestrino di un tram, la chiama, si sbraccia, la insegue senza che lei accenni a voltarsi, fino al sopraggiungere dell'infarto, che uccide il medico sotto a un monumento di propaganda sovietica. È la fine della doppia illusione, quella comunista di stretta osservanza, a cui fa allusione la pellicola del 1965 diretta da David Lean, e quella del progressismo occidentale, rappresentato da Nanni Moretti, che in mezzo al crollo delle sue, di certezze, urla a Lara di girarsi, davanti alla tv, sapendo che questo è impossibile, che tutto è perduto, che la storia non si cambia (nella scena, davanti al regista romano, compare per ulteriore metafora anche un'Asia Argento bambina). E pare di rivederli, di nuovo lì, sperando che Lara si accorga di Jurij, i liberal di oggi, già frustrati dall'avvento del governo populista e che ora dovranno fare i conti con il ritorno di Zivago. C'è di mezzo Michael Hirst, dicevamo: un nome, una garanzia, per i cultori delle serie tv. Suoi sono prodotti di successo come Vikings, Camelot e I Tudors. Mentre le produzioni cinematografiche e televisive italiane, anche le migliori, non sembrano poter prescindere dalla cronaca (la camorra, la mala romana, «er canaro»), dal solito impegno civile o dalla berlusconeide trita e ritrita, il resto del mondo non ha paura di affrontare la storia con la s maiuscola, anche a costo di inserire il dito nella piaga della cultura progressista. La storia del romanzo di Boris Pasternak (da cui fu tratto il famoso film nel 1965 che ha vinto ben cinque premi Oscar, e un'altra serie tv del 2002 con Keira Knightley) è infatti un romanzo nel romanzo. Prima e unica opera narrativa del poeta Pasternak, Il dottor Zivago, terminato nel 1953, si scontrò ben presto con la censura sovietica: la rivista letteraria Novyi mir sconsigliò di pubblicarlo, ravvisandovi «l'ostilità alla rivoluzione socialista». Le case editrici sovietiche seguirono il consiglio. E pensare che il poeta era stato chiacchierato in passato per uno di quegli atteggiamenti ambigui a cui spesso i regimi come quello sovietico costringono gli uomini liberi. La notte del 23 maggio 1934, infatti, Pasternak aveva ricevuto una telefonata di Stalin. Il dittatore aveva chiesto al poeta un'opinione sul collega Osip Mandelstam, appena arrestato a causa di un epigramma su un certo «montanaro del Cremlino assassino di contadini» dietro al quale non era difficile intravedere il profilo di «Baffone». Cosa Pasternak abbia risposto non si sa, sappiamo però che in pubblico non prese mai le difese dell'amico, morto intorno al 1938 in un gulag siberiano.Sul Dottor Zivago, invece, nacque un vero caso politico, forse a causa di quei protagonisti così «acomunisti», come notò Vladimir Nabokov, che nel bel mezzo della rivoluzione per il trionfo della giustizia si permettevano il lusso di pensare a una borghese storia d'amore, sia pur sempre più intrecciata con gli eventi della macrostoria che avvenivano intorno a loro. Fosse stato per i russi, la cosa si sarebbe risolta in anni di congelamento, metaforico e magari anche letterale, via gulag, aspettando il «momento opportuno» per licenziare il testo, che ovviamente non sarebbe mai arrivato. A dare una smossa alla situazione ci pensò l'Italia. Nel frattempo, infatti, il testo era giunto nel nostro Paese. Lo scrittore russo, per precauzione, aveva affidato Sergio D'Angelo che, in quel momento lavorava come redattore e giornalista di Radio Mosca («Voi siete sin d'ora invitato alla mia fucilazione», avrebbe detto lo scrittore consegnando il manoscritto). Il romanzo, quindi, comparve sugli scaffali delle librerie nel 1957, pubblicato in esclusiva mondiale da Feltrinelli. Fu un successo clamoroso. A cui, come ha rivelato un libro scritto nel 2014 dai giornalisti americani Peter Finn e Petra Couvée, (The Zhivago Affair), non fu estranea la stessa Cia, che lo diffuse clandestinamente in Russia e che fece pressioni sull'accademia di Svezia affinché gli facesse ottenere il Nobel, nonostante fosse uscito solo in traduzione italiana, cosa contraria ai regolamenti del premio. Lo slavista Vittorio Strada, che l'aveva proposta inutilmente a Einaudi, ha comunque ricordato come, anche in Italia, quella pubblicazione non fosse stata indolore: «Ci fu una vera concentrazione di pressioni su Giangiacomo Feltrinelli perché non pubblicasse Il dottor Zivago. Intervennero personalmente Palmiro Togliatti e Rossana Rossanda, si diceva anche Pietro Ingrao». Pressioni inutili, in Italia. In Russia, invece, il libro uscì solo nel 1988. Pasternak fu tenuto sott'occhio dalle autorità sovietiche e morì nel 1960 in povertà e solitudine. In tutto il mondo, nel frattempo, la storia d'amore tormentata tra Lara e Jurij commuoveva le masse. Ma quella storia di addii e solitudine venne presto letta come una metafora della rivoluzione che doveva riconciliare le masse con la libertà e la prosperità, senza far incontrare loro, alla fine, né l'una né l'altra. Un dramma vero, in Russia. Uno psicodramma da operetta, nel comunismo e nel post comunismo nostrano, come rappresentato da Nanni Moretti. Intanto ieri ha giurato il governo gialloverde. A quanto pare, Lara non si volterà mai più.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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