2020-01-27
«Il cuneo fiscale? Poca roba. E resta il macigno dell’Iva...»
La studiosa pentita del liberismo Ilaria Bifarini: «Non ci sarà vera ripresa senza una svolta in Europa. L'ambientalismo può ridurre rigore e austerità. La manovra Conte non porta crescita».Ilaria Bifarini, lei è considerata un'economista eterodossa, nonché bocconiana «pentita». Perché?«Più che pentita, mi definisco redenta. Diciamo che ho portato avanti un percorso di approfondimento sul modello neoliberista, che oggi è la dottrina dominante nelle politiche economiche e nelle aule universitarie. Questo mi ha portato a uno stato di consapevolezza e di libertà di pensiero».Il famigerato neoliberismo, spesso indicato, con qualche esagerazione, come radice di tutti mali. Sulle etichette politico-economiche forse bisogna fare attenzione. Che cosa c'è di liberista nel salvataggio pubblico delle banche tedesche e francesi, spacciato per salvataggio degli Stati?«Come ha scritto il sociologo Luciano Gallino, il neoliberismo è una degenerazione del liberismo. Viviamo in un mondo dove ci viene fatto credere che esista una libera concorrenza che conduce all'optimum del mercato. In realtà conviviamo con formidabili forme di oligopolio che oggi hanno monopolizzato tutti i settori: dalla finanza, alla distribuzione, alle banche too big to fail, al Web. Sono giganti economici che oggi sono più potenti degli Stati». Sta dicendo che il libero mercato deve essere svincolato non solo dallo Stato, ma soprattutto dai potentati economici? «È un luogo comune sostenere che esiste un antagonismo tra Stato e mercato. In realtà gli studi provano il contrario: laddove il mercato è più sviluppato, anche lo Stato ha maggiore raggio d'azione, perché consente di supplire alle mancanze del mercato, offrendo una tutela alle fasce più povere della società». Nel suo libro Inganni economici, falsi miti di una scienza sociale lei parla di un fenomeno preciso, quello della «divinizzazione dell'economia», in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. È quello che stiamo vivendo nell'epoca del «vincolo esterno»?«L'inganno principale è credere che l'economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi un modello economico valido, forse, in alcune circostanze, viene fatto passare per una legge universale. È la logica del there is no alternative, non c'è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l'austerity». Da questo inganno ne derivano altri?«Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita, e che le riforme strutturali siano la panacea, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda interna quale quella che stiamo vivendo oggi».Quindi lei non condivide la mentalità per cui un bilancio pubblico deve assomigliare al bilancio di una famiglia, come viene ripetuto all'Italia?«Tanto guadagni e tanto spendi? Tutte falsità, capisaldi ideologici del pensiero dominante. Invece non c'è un unico modello valido. Le politiche economiche devono tornare a occuparsi della società e del raggiungimento del suo benessere». Lei se la prende con le politiche di austerità. Qualche giorno fa il cancelliere tedesco Angela Merkel, al forum di Davos, ha detto: «Io cattiva? È grazie all'austerity che la Grecia è tornata a crescere». Stupita?«Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco. E non parlo solo di disoccupazione giovanile inaccettabile, del Pil caduto del 25%, del debito pubblico che dopo la cura della Troika era arrivato al 180%. A causa dei tagli nel settore sanitario in Grecia si è assistito addirittura a un aumento di casi di Hiv e al ritorno della malaria». Tuttavia, grazie al turismo e alla ripresa delle esportazioni, Atene sembra rialzare la testa. «L'errore che si fa quando si disumanizza l'economia è non pensare al Paese reale: per valutare lo stato di salute di un Paese occorre guardare all'occupazione, alle sue imprese, agli investimenti interni, al livello di equità. E sotto questi punti di vista la situazione non è ancora così rosea come si vuole far credere».Forse le politiche di rigore dell'eurozona verranno riconsiderate, adesso che la locomotiva tedesca mostra segni vistosi di rallentamento. Dobbiamo sperare che la Germania si possa pentire della sua stessa ricetta economica?«La Germania è uno dei Paesi più in crisi in questo periodo, la crescita è timidissima, ha sfiorato la recessione tecnica. È l'emblema di un modello fallimentare, quello neomercantilista, tutto basato sull'export. Non è solo una crisi industriale, ma anche sociale: è vero che hanno un basso tasso di disoccupazione, ma scontano un alto livello di working poors, lavoratori precari e con salari molto bassi. Troppo rigore e pochi investimenti. Per questo la Germania potrebbe implodere su sé stessa. Una fragilità tanto più marcata, nel momento in cui Donald Trump, siglato l'accordo con la Cina, adopera lo strumento dei dazi come arma di ricatto in chiave antieuropea». Insomma, quale futuro prevede per l'eurozona? «Sui tempi non sono ottimista, ma per forza di cose dovrà esserci un cambiamento radicale. Ci sono dei segnali di apertura, anche se restano fazioni di resistenza interne, dovuti agli adoratori dell'austerity, che come cultori di una religione continuano a spingere per un modello economico sbagliato». L'Italia, con l'ultima manovra economica, sta facendo passi nella direzione giusta? «L'Italia lavora nei limiti del consentito, un margine davvero molto ristretto. Sono stati spesi 23 miliardi per disattivare gli aumenti dell'Iva: il resto, poca cosa, per il cuneo fiscale e iniziative minori. Il macigno dell'Iva resterà per sempre sulla nostra testa». Adesso si tratta di trovare 50 miliardi in due anni. «Temo che alla fine si deciderà di aumentare l'Iva, magari in modo differenziato. È difficile ritornare a una vera ripresa senza un cambio di rotta guidato dall'Europa. Nel frattempo, continuiamo a procedere con il pilota automatico: tutte le misure prese da questo governo non hanno la forza di imprimere un reale impulso alla crescita». Possiamo dire che il rigore economico ha svuotato di significato anche i parlamenti nazionali. Con la sovranità, abbiamo ceduto democrazia?«La politica economica del pilota automatico e i margini di manovra ristrettissimi, pressoché nulli, comportano di fatto uno svuotamento della politica degli Stati. Con l'Unione Europea ci troviamo di fronte al cosiddetto “trilemma di Rodrik", famoso in economia, per cui non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l'autodeterminazione nazionale e la globalizzazione. Se vogliamo spingere avanti uno di questi elementi dobbiamo per forza rinunciare a uno degli altri tre. Purtroppo, si naviga a vista e da qui derivano tutti i problemi attuali».Qual è il peccato originale dell'Unione europea?«Il problema fondamentale è che la moneta unica è stata anteposta al percorso di integrazione politica e fiscale, che di fatto non c'è ancora. È come costruire un palazzo senza partire dalle fondamenta. Questo rappresenta un handicap di partenza pesantissimo. La crisi del 2008 è nata negli Usa, ma dagli Usa è stata superata, a differenza dell'Europa, che è rimasta ingabbiata nelle sue regole». Ultimamente c'è chi pensa che la via ambientale possa essere una valida via d'uscita. Larry Fink, il capo del più grande fondo d'investimento mondiale, Blackrock, sostiene che il climate change cambierà per sempre il volto della finanza. «L'ambientalismo potrebbe essere la leva del cambiamento, l'innesco che ci costringerà a rivedere l'attuale modello economico. Inoltre può essere un incentivo a rivedere tante assurdità di questo sistema, come le delocalizzazioni alimentari per esempio, per cui importiamo prodotti che potremmo produrre». Anche il premio Nobel Joseph Stiglitz, uno dei più accesi critici dell'euro, sostiene che il cosiddetto «green new deal» salverà la moneta unica, perché gli investimenti verdi porranno fine all'austerity. È uno scenario credibile? «Sicuramente è una visione molto ottimistica. Bisogna vedere se riuscirà a passare la proposta che consente di scorporare dal conteggio del deficit gli investimenti sostenibili, superando il Patto di stabilità. Ma a oggi c'è stato un rifiuto soprattutto dai Paesi del Nord Europa».Insomma, da dove può ripartire il cambiamento? «Dobbiamo sperare che qualcuno si svegli: per ritornare a crescere occorre un New deal di stampo rooseveltiano. Che poi sia verde o di qualsiasi altro colore, poco importa».