2020-11-10
Il «Corriere» inneggia alla censura «impeccabile e perfetta» su Trump
Paolo Mieli (Getty Images)
Paolo Mieli difende in un editoriale i giornalisti Usa che oscurano le accuse di brogli del presidente. Quando la «libera stampa» invoca il bavaglio per le voci scomode, bisogna preoccuparsi: ci stiamo cinesizzando.Serve un cartello di pericolo: «Attenzione, caduta statue». Perché se un monumento al giornalismo come Paolo Mieli sostiene che la censura preventiva adottata dagli anchormen americani nei confronti di Donald Trump è giusta, beh, allora siamo arrivati a qualcosa di molto più grave dell'assurdo abbattimento delle statue dei generali sudisti o dell'incolpevole Cristoforo Colombo. Perché assieme alla statua di Mieli cadono alcune certezze, e davvero siamo tutti in pericolo. Nel suo editoriale di ieri sul Corriere della Sera, l'ex direttore del primo giornale d'Italia ha scritto che togliere la parola al presidente degli Stati Uniti, decisione adottata da alcuni conduttori televisivi, è stata più che giusta: è stata «impeccabile perfetta inappuntabile». A legittimarla è il fatto che il presidente stesse per denunciare «non provati brogli elettorali». Mieli ha aggiunto che la censura è stata «corretta sotto il profilo deontologico» e addirittura «determinante per il disinnesco di un congegno che avrebbe potuto precipitare gli Stati Uniti nel baratro di una guerra civile».Sono parole che, per l'autorevolezza della fonte, lasciano la spiacevole sensazione sia iniziato uno smottamento verso lidi inesplorati. Lidi pericolosi, illiberali, «cinesizzati». Perché ogni censura, ma tanto più quella preventiva che silenzia chi sta parlando, è inaccettabile, sbagliata, intollerabile. Lo è sempre, e nei confronti di chiunque. Quando negli anni scorsi Osama Bin Laden farneticava sul massacro dell'Occidente, lo si lasciava parlare, per quanto alto fosse il rischio di un contagio tra i fanatici fondamentalisti (più probabile di una nuova «guerra civile» americana), perché era comunque importante che il pubblico sapesse che cosa agitava la mente del fondatore di Al Qaida e del terrorismo islamico. Sui giornali o in tv, come per la strada, era poi lecito criticarlo, deriderlo, o eventualmente giustificarlo. Questo è l'Occidente liberale, questa è la democrazia, questo è il giornalismo libero per come li conosciamo. Nessuno si sognava di togliere l'audio a un terrorista. Oggi, ed è sconvolgente, lo si fa invece nei confronti di un capo di Stato democraticamente eletto, che pure denuncia un fatto di qualche importanza, e cioè brogli elettorali sui quali peraltro ora dovrà pronunciarsi la Corte suprema, la massima autorità giudiziaria statunitense. L'impressione è che questo oggi possa accadere nella maggiore democrazia occidentale, e che possa essere benignamente tollerato, soltanto perché si tratta di un presidente odiato dalla sinistra mainstream e dai media, e caduto nella polvere. Lo stesso Mieli lo lascia intendere nel suo editoriale, quando ammette che «poi forse verrà il tempo in cui verranno riconsiderati» altri «piccoli e grandi misfatti»: si tratterà allora di riconoscere anche i falsi utilizzati nella violenta battaglia ingaggiata per quattro anni contro il presidente repubblicano, o nella frenetica campagna del Me too, o contro lo Stato di Israele. Ma tutto questo accadrà solo «forse» e soprattutto «poi», quindi a babbo morto. E a presidente Trump archiviato.Viene da chiedersi, a questo punto, se il controllo del falso in pagina, con conseguente censura preventiva di quanto non debitamente «provato», sia stata una pratica impeccabilmente, perfettamente e inappuntabilmente utilizzata negli ultimi 144 anni del Corriere, o almeno nei 59 anni della sua vita repubblicana, o almeno in quelli della direzione Mieli. Umanamente, viene da dubitarne. E per annusare qualche contraddizione basta pensare alle recenti polemiche sulla veridicità delle corrispondenze da Bruxelles. La censura imposta a Trump riporta poi alla mente l'equivoca diatriba che a partire dal 1978, con il rapimento di Aldo Moro, accolse i comunicati delle Brigate rosse, allora ipocritamente definite «sedicenti», perché la grande stampa (compreso il Corriere) insinuava fossero terroristi neri dipinti di rosso. Eugenio Montale, proprio sul Corriere, invitò a non pubblicarli per «senso di responsabilità», perché così si faceva il gioco dei brigatisti. Alcuni giornali, e soprattutto l'Unità, allora potente organo del potentissimo Partito comunista italiano, decisero di non mettere in pagina una parola di quei comunicati. I radicali, che nei tempi peggiori sono quasi sempre un faro di correttezza democratica, furono tra i pochi a battersi perché questo non avvenisse. Insieme a socialisti e liberali, quelli veri. L'oscurantista «obbligo morale» di un black-out sui comunicati dei terroristi tornò nel 1981, con il rapimento del magistrato Giovanni D'Urso. Il 4 gennaio i brigatisti annunciarono che l'ostaggio era stato condannato a morte, e velenosamente aggiunsero che la sentenza era «sospesa»: D'Urso si sarebbe salvato se i giornali avessero pubblicato un loro proclama. A partire dal Corriere, si schierarono tutti sulla linea del No. A pubblicare furono solo Il Lavoro di Genova, l'Avanti del Partito socialista, Il Manifesto. All'alba del 15 gennaio il magistrato fu ritrovato in un'auto davanti al ministero della Giustizia: era in catene, ma vivo. Fu una scelta giusta non soltanto per quel risultato, ma perché era del tutto scorretta la decisione di privare il lettore del diritto di leggere una notizia, per quanto sgradevole ne fosse la fonte. Per tornare all'odioso silenziatore imposto a Trump (ma se a parti inverse si fosse trattato di Joe Biden sarebbe stato lo stesso) il lettore non va trattato da minorenne o da minorato: non deve essere protetto da un «girello» intellettuale, costruito in redazione. Gli va raccontato tutto quello che vale la pena di essere raccontato, senza censure. Questo è, in definitiva, il giornalismo. Che non sarà mai del tutto impeccabile, inappuntabile, perfetto. Ma in quel caso, almeno, resterà libero.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)