2024-11-12
«Il contratto cancellato da Arcuri ci è costato 500 milioni e la salute»
Il fondatore della Jc electronics Dario Bianchi, che avrebbe dovuto importare mascherine certificate dalla Cina: «Abbiamo subìto ben 28 controlli, tutti superati. Sospetto che fossimo un problema per le forniture mediate da Benotti».«Quante ne abbiamo passate per esserci messi a disposizione dell’esigenza di quel momento e senza pretendere un centesimo dallo Stato», afferma trattenendo il respiro Dario Bianchi, ingegnere, amministratore e fondatore della Jc electronics Italia, la società di Colleferro (con tanto di brand esportato in Olanda) turlupinata dalla struttura commissariale per l’emergenza Covid, con un pastrocchio che ricorda tanto il famoso gioco del «carta vince, carta perde» col quale un tempo si incantavano i turisti sulle vie del centro napoletane. Un giochetto che, come ha stabilito una sentenza del Tribunale civile di Roma, costerà allo Stato 203 milioni di euro per aver stracciato un contratto di fornitura per le mascherine in piena fase emergenziale. Ieri La Verità ha svelato che l’inghippo era nascosto in una «svista», così l’ha definita davanti ai giudici Antonio Fabbrocini, braccio destro di Domenico Arcuri nella struttura commissariale e responsabile del procedimento per l’approvvigionamento dei dispositivi di protezione. Arcuri aveva sciolto il contratto con la Jc Electronics ritenendo assente un test fondamentale per la validazione delle mascherine. Che l’azienda, invece, possedeva e che ha subito inviato. Nessuno aprì la Pec e il contenuto dei test non fu girato al Comitato tecnico scientifico (il Cts) che, così, non approvò i dispositivi di protezione che nel frattempo erano stati importati. Per un danno colossale. «Non solo economico», afferma Bianchi.Che ammonterebbe a quanto?«Stando ai nostri calcoli si avvicinerebbe ai 500 milioni, ma oltre a pagare in termini aziendali per costi di stoccaggio anche doganale, per le cessioni, per i danni all’immagine e per i mancati incassi, per lo stress ci siamo giocati un collega che ci ha rimesso la salute e poi anche il lavoro. Alla fine la giustizia ci ha riconosciuto 200 milioni e ci rimettiamo alla decisione».Perché la struttura commissariale vi aveva individuati come fornitori?«Siamo esperti di situazioni emergenziali. La nostra azienda si occupa di supporto all’elettronica industriale e avevamo una certa dimestichezza a importare dalla Cina. Grazie al network industriale spostiamo da una parte all’altra del mondo il materiale che ci serve. Capimmo che gli scatoloni con le mascherine potevano partire senza aspettare i voli charter. In sostanza ci spedivano la merce con i voli di linea. E pensammo che era meglio importarne un numero minore ma con consegne frequenti rispetto a un’unica grande consegna ma molto tempo dopo».Una trovata che in quella fase vi aveva dato un certo vantaggio rispetto ai vostri competitor.«E infatti il contratto con la struttura commissariale non prevedeva un limite. Avremmo potuto importare tutte le mascherine che trovavamo».Poi sono cominciati i problemi.«Abbiamo subito 28 controlli, dall’Agenzia delle Entrate alle Dogane, dalla Guardia di finanza ai carabinieri. Un’azione impressionante. Fortunatamente, ma ne eravamo certi, si sono tutti chiusi a nostro favore».Ma è tutto cominciato alla Dogana.«La struttura commissariale ha trasferito solo le informazioni che ha inteso trasferire e ci siamo trovati davanti sanzioni, sequestri e un procedimento penale (per il reato di contrabbando, ndr). Risolto anche quello. Avevamo pagato dazi e Iva. Anzi, in realtà, abbiamo dovuto anticipare, sottraendo liquidità all’azienda. Inoltre, abbiamo dovuto rispettare i contratti. E se non si paga entro una certa data il contratto prevede una penale. A oggi noi di tutte le somme che rappresentano sia le forniture che altro abbiamo percepito solo la somma di 778.000 euro, che non ci è stata corrisposta dalla struttura commissariale, ma dalla Protezione civile».Coincidenza, tutto avviene mentre comincia a muoversi anche il maxi importatore Mario Benotti, l’ex giornalista Rai deceduto un anno fa, che, però, qualche problema tecnico per sdoganare le sue mascherine ce l’aveva davvero. «Non voglio esprimere un mio parere, mi limito a evidenziare quello che dicono la Guardia di finanza e la Procura nella conclusione delle indagini su Arcuri».Si parla di «sospetti», non di dolo intenzionale. Anche se il pm nella richiesta di archiviazione per Arcuri, che era l’unico indagato, afferma che il comportamento della struttura commissariale avrebbe potuto «esporre il governo a delle pretese risarcitorie».«Le indagini ci dicono che il dolo intenzionale non è stato possibile dimostrarlo».Gli abbagli però sembrano a senso unico. E nell’informativa della Guardia di finanza si legge che «la scrupolosità seguita dalla struttura commissariale per le mascherine della Jc non sembrerebbe essersi registrata con gli acquisti in Cina delle mascherine fatte dalla stessa struttura con la mediazione del giornalista Rai Mario Benotti. In particolare, le mascherine importate da Benotti presentavano delle criticità sia in fase di sdoganamento che in relazione all’autenticità delle certificazioni».«È una mia personalissima opinione: potevamo rappresentare un problema rispetto alla contrattualizzazione di quegli 800 milioni di mascherine (poi importate da Benotti, ndr), perché sarebbero stati costretti a chiedere anche a noi un’offerta. E invece alla nostra azienda è stato detto che i dispositivi approvati dall’Inail non erano buoni. E a dimostrazione che era tutto regolare è arrivato successivamente il risultato dei test effettuati dalle Dogane, che confermano la conformità delle mascherine che avevamo importato (è in atti l’esame del laboratorio delle Dogane disposto su indicazione del commissario Francesco Figliuolo, subentrato ad Arcuri, che ha incontrovertibilmente accertato la rispondenza delle mascherine consegnate ai requisiti normativi, con tanto di timbro dell’ente certificatore Accredia, ndr). Noi non avremmo mai importato materiale inutilizzabile perché in quel preciso momento quei dispositivi li avremmo usati anche noi e li avremmo messi a disposizione dei nostri figli. E in quel momento davvero non avevamo capito qual era la problematica né perché ci stava arrivando tutto addosso. C’è stato un cortocircuito impressionante. E l’azienda si è salvata per miracolo».
L'Assemblea Nazionale Francese (Ansa)
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