2018-10-27
«Il cinema italiano ucciso dalla televisione»
L'attore Fabio Testi critica il sistema: «Solo film stranieri nelle sale, bisogna tassarli come si fa in Francia. Noi professionisti non lavoriamo neppure nelle serie, preferiscono prendere giullari di corte. Coltivo tartufi, fu Jean Gabin a dirmi: “Bisogna avere un'alternativa"».Fabio Testi, una delle poche, autentiche, stelle del cinema italiano, si presenta all'intervista con La Verità in mano: «La leggo tutte le mattine». È informatissimo sulle battaglie portate avanti dal giornale e ci tiene, più che a rivangare il passato, a sottolineare i mali del cinema italiano e le soluzioni per uscire dalla crisi. Per l'autobiografia non ha alcuna fretta: «Ci penserò da vecchio!». Una collega attrice, nel rivederlo con la barba, lo paragona a Sean Connery. «Sean Connery chi?», celia con il suo inconfondibile sorriso e il fascino senza tempo. Hai cominciato facendo la comparsa sui set dei film che si giravano sul lago di Garda. Walter Bertolazzi era riuscito nell'impresa di trasportare da Fiumicino a Desenzano il galeone di Ulisse di Mario Camerini. Voleva farne un ristorante, invece venne utilizzato per una serie di film di pirati e il lago di Garda si trasformò in una seconda Cinecittà.«Sono nato a Peschiera del Garda, a poche centinaia di metri dal punto dove c'era questa nave, insieme ai gusci di battelli austriaci in disuso, con cui hanno ricostruito i galeoni. I francesi giravano serie televisive in bianco e nero e noi studenti ci divertivamo a fare i pirati. Ci pagavano 3.000 lire al giorno, una cifra! Da Roma venivano gli acrobati e io mi sono inserito tra di loro perché ero un atleta, sapevo tuffarmi bene. Poi ho seguito un film che si è girato in parte sul lago di Garda, in parte a Roma, con Chelo Alonso, La scimitarra del saraceno di Piero Pierotti. Sono andato a Roma a fare lo stuntman con i ragazzi che avevo conosciuto sul Garda. Mi ricordo Barbarella con Jane Fonda: facevo l'angelo appeso in aria negli stabilimenti della De Laurentiis, a 40 metri da terra. Continuavo a volare con le corde e a urlare: “Fatemi scendere... devo fare pipì!"».Il tuo primo film da protagonista è stato Ed ora... raccomanda l'anima a Dio! di Demofilo Fidani.«Fidani era l'architetto di uno dei film in cui avevo lavorato come acrobata. “Il prossimo film debutto come regista e tu sarai il protagonista". “Ma io sono un acrobata, non è il caso, lascia stare". E invece mi ha chiamato. Visto che la paga era bassa, perché non potevo chiedere un cachet da attore, essendo praticamente all'esordio, gli proposi un patto: “Tutte le cadute me le paghi a parte". Un giorno mi sono ucciso 12 volte: ero sempre io! Cadevo in una fontana, dal tetto, dalla scala... La mattina dopo non riuscivo neanche ad alzarmi, botte dappertutto! Quando sono andato a vedere la prima del film all'Anicagis, doppiato, con la musica, i colori, mi sono detto: “Allora, posso fare anch'io l'attore!". Mi sono iscritto all'Accademia Salvatore Solinas e Vittorio De Sica è venuto il secondo anno a farci gli esami perché cercava un attore italiano per Il giardino dei Finzi Contini. C'erano Lino Capolicchio, Dominique Sanda, Helmut Berger e per la quota di nazionalità ci voleva un altro interprete italiano. Erano tutti e tre sulla cresta dell'onda, ho sofferto accanto a loro».Com'era De Sica?«Dico sempre che ci sono due generi di registi. C'è il regista che ama gli attori e il regista che li odia perché magari sono più belli di lui e gli fregano le attrici! De Sica, essendo nato come attore, amava gli attori. Mi diceva: “Siediti qua e guarda quello che faccio io". Faceva la donna, il bambino, tutti i ruoli… mi bastava imitarlo». Un film al quale sei particolarmente legato?«Addio fratello crudele di Giuseppe Patroni Griffi. Era una tragedia shakespeariana molto dura e mi sono portato appresso per molto tempo questo film. Peppino era un uomo di grande cultura. Veniva dal successo incredibile di Metti, una sera a cena. Abbiamo anche litigato, aveva un caratteraccio, però, da uomo intelligente, chiarite le cose, siamo diventati molto amici, al punto che quando sentivo di poter fare meglio una scena, diceva: “Fermi tutti! Fabio ha chiesto di farne un'altra". Anche Enzo Castellari, con il quale ho fatto Il grande racket e La via della droga, aveva questa sensibilità. Altri film importanti sono stati L'eredità Ferramonti di Bolognini e Sterminate «Gruppo Zero» di Chabrol».Hai vissuto la rivalità con Franco Nero e Giuliano Gemma?«Forse solo a livello inconscio perché eravamo sempre noi tre in lizza per certi ruoli. Però non ho mai sofferto di invidia, anche perché sia Giuliano che Franco venivano da una serie di western che li avevano stereotipato come personaggi del Far West, io fortunatamente ne avevo fatto pochi perché ero arrivato dopo di loro».Infatti hai fatto Amore piombo e furore di Monte Hellman proprio alla fine del genere. C'era anche Sam Peckinpah, il regista de Il mucchio selvaggio, che faceva un cameo.«Interpretava la parte di uno scrittore. Quel giorno sul set c'era anche Sergio Leone, che ci era venuto a trovare e voleva fare anche lui una comparsata. Poi non l'ha fatta. Lui, Peckinpah e Monte Hellman erano molto amici».Con Leone dovevi fare C'era una volta il West...«Oltre alle bande di Henry Fonda e di Charles Bronson, era prevista una terza banda, guidata da me. Feci i provini a Cinecittà, andarono in proiezione e dissero: “Questo non c'entra nulla". Sembravo il protagonista di un altro film e allora hanno abolito il ruolo. Io però avevo già firmato il contratto, allora sono rimasto in Spagna a fare l'acrobata per giustificare i soldi che mi davano. Ero molto amico con Sergio Leone, andavo sempre a casa sua e speravo sempre di lavorare un giorno con lui».La carriera americana l'hai provata?«Sono stato a Los Angeles sei mesi a scrivere una sceneggiatura con Monte Hellman sull'uccisione di Kennedy e una commedia divertente ambientata a Venezia. Un giorno ho incontrato un agente, Ben Benjamin, il quale mi ha detto una grande frase: “Ricordati, Fabio, la cosa più brutta per un attore è vivere a Hollywood ed essere disoccupato". Avevo delle offerte a Roma e allora sono ritornato in Italia. Avevo pensato agli attori europei che avevano sfondato in America... ce n'era solo uno: Rodolfo Valentino. Ci hanno provato in tanti, da Delon a Mastroianni, ma se non nasci americano, non hai possibilità, a meno di non fare sempre l'italo-americano».Hai lavorato però in Francia e hai avuto l'onore di dividere la scena con Jean Gabin in Il commissario Le Guen e il caso Gassot di Denys de La Patellière.«Ero uno dei pochi attori italiani a lavorare in Francia. Sono stato benissimo, mi trattavano come un principe. In quel film recitavo in francese con l'accento italiano, doveva essere un argot di Marsiglia e Jean Gabin mi insegnava gli accenti. Il grande attore si mette a disposizione dei giovani colleghi. Se ti senti forti, non hai antagonisti».Jean Gabin ti ha dato anche consigli utili...«Mi ha trasmesso la passione per la campagna. Jean aveva una fattoria in Bretagna. Era molto legato alla sua terra: diceva di essere bretone, non era francese! Qualche volta andavamo nella sua bellissima tenuta, dove aveva una stalla all'avanguardia con un macchinario che analizzava il latte e in base alle analisi veniva dato più o meno mangime alle mucche. Mi ha detto: “Solo con il cinema, se ti manca quello, sei perso. Devi avere un'alternativa". In effetti se punti solamente al cinema, che è una delle cose più belle al mondo, quando la carriera finisce, che cosa fai? Purtroppo tanti colleghi sono andati a finire male. Sei talmente preso e dedicato a questo lavoro che non hai più riserve per te stesso. Invece devi sempre tenere il 51% per te e il 49% per il cinema. Se ci riesci bene, altrimenti cambia mestiere».Hai portato i kiwi in Italia. Come ti è venuta l'idea di coltivarli?«Ero in America. Gli americani li mangiavano tutte le mattine perché sono ricchi di vitamina C. Mi hanno detto che c'erano coltivazioni anche in Francia. Casualità, avevo un film al festival di Cannes ed ero ospite di un'amica che aveva la villa confinante con il Centro agronomico di ricerche. Ho conosciuto il titolare del centro e attraverso di lui sono arrivato ad avere le piantine, le ho impiantate in Italia, alla fine ne ho fatto venti ettari. Sono stato il primo a sviluppare una piantagione a livello industriale in Italia».Adesso l'hai convertita in qualcosa di più prezioso...«Produco tartufi, un nero scorzone presente sul lago di Garda. Il tartufo è un tubero che cresce sulle radici di una pianta, nel caso mio noccioli o le ghiande delle querce. Le spore del tartufo aggrediscono la radice e man mano che crescono le radici aumentano le spore. Dopo un anno o due, si mettono le piantine in un terreno adatto e, quando la pianta è adulta, i tuberi si sviluppano». Come vedi la situazione del cinema italiano? «Terribile. Con l'avvento delle televisioni commerciali chiamavano noi del cinema per dare credibilità alle serie televisive e renderle più interessanti. È stata un'arma a doppio taglio perché ci pagavano bene, ma i tecnici si sono riversati tutti nel settore televisivo. La televisione ha cominciato a comprare le sale cinematografiche, ha preso il monopolio della distribuzione, il mercato si è chiuso, i distributori si sono buttati sui film stranieri e la produzione italiana si è ridotta drasticamente. Non capisco il sistema. Se sei un imprenditore privato e investi i tuoi soldi, va bene, ma se sei un produttore che lavori per lo Rai e produci i film con i soldi pubblici, allora qualcosa non funziona. Sono sempre le stesse quattro-cinque società di produzione che lavorano, dunque il mercato non è più libero. Quando lo Stato si impossessa così apertamente della cultura - perché il cinema è cultura e produzione nazionale - non sei più libero e non puoi più competere». Perché non vi chiamano più, voi che avete fatto il cinema a grandissimi livelli? «Quando la televisione si è affermata, ha lasciato a casa i professionisti e ha preso i giullari di corte. Non ci chiamano perché noi siamo in grado di constatare l'incapacità totale di lavorare, la non professionalità, l'amico dell'amico, il raccomandato di turno. Ti lasciano a casa perché non devi vedere quello che fanno. Non girando più in chimica, ma in elettronica, possono girare venti ore e montare dieci minuti perché non costa più come prima girare. Girano contemporaneamente con cinque-sei macchine, non sai nemmeno di essere inquadrato, montano e se ci sono problemi, correggono al computer. Non c'è più la ricetta della qualità. Un tempo avevi 10.000 metri di pellicola e ti doveva bastare. La tecnica ha aiutato gli incapaci a fare prodotti tra virgolette accettabili. Siccome in televisione non paghi il biglietto, va bene tutto, collochi un prodotto alle otto e mezzo di sera e stai certo che il pubblico lo seguirà». La ricetta per uscire da questa crisi?«Bisogna fare come in Francia. Per ogni film straniero che viene proiettato, si deve pagare una tassa. Tante ore di spettacolo? Metà di produzione italiana, metà di produzione straniera. Noi ora facciamo un cinema regionale, mentre prima i nostri film andavano nel mondo e avevamo i migliori tecnici in assoluto».