2019-05-12
Il chimico «Doge» con il garofano che predisse la fine del comunismo
Si è spento a 78 anni Gianni De Michelis. Icona della Prima repubblica e ministro socialista degli Esteri mentre crollava il Muro, profetizzò: «La tecnologia spazzerà via la falce e il martello». Sfidava ballando pm e moralisti.«Se lui era Garibaldi, io ero il suo Cavour». Gianni De Michelis spiegava così, con una metafora risorgimentale, il suo rapporto con Bettino Craxi e la sintonia fine e profonda fra due personaggi chiave dell'Italia degli anni Ottanta. Erano quelli del secondo boom economico, della crescita da 5% (numeri marziani visti con gli occhiali di oggi), del ruggente made in Italy, della stagione del riformismo socialista. Soprattutto del crollo del Muro di Berlino e della fine del comunismo sovietico. Dettaglio non secondario per comprendere il profilo e la statura di un politico sepolto due volte: la prima dalle inchieste di Tangentopoli nel 1992 e la seconda adesso. Ieri con lui, spentosi a 78 anni nella sua Venezia dopo una lunga battaglia contro una forma progressiva di Parkinson, ci ha lasciato l'ultimo protagonista di quell'Italia sfrontata e ruggente alla quale nessuno - tranne Henry Kissinger - osava sussurrare cosa fare.«Gianni è un veggente, ha visto i comunisti ammainare le bandiere e andarsene sotto la pioggia con la coda fra le gambe anni prima che questo accadesse», ripeteva Craxi ricordando il passato con una metafora dal giardino dell'esilio ad Hammamet. Per capire il significato di queste parole basta sfogliare un libro, Mai dopo le ventitrè, la biografia di Franco Carraro scritta da Emanuela Audisio. «Ripenso a quello che mi ha detto De Michelis a una cena nel 1981: comunism is dead», rivelò il politico e dirigente sportivo. «Gianni è presbite, vede molto bene da lontano ma ha difficoltà a mettere a fuoco da vicino. Ronald Reagan era stato appena eletto, c'era la crisi petrolifera, così gli ho chiesto perché sosteneva che il comunismo fosse morto. Lui mi ha risposto che la rivoluzione informatica avrebbe spazzato via le ideologie. Certo, non ha citato il Web e i social. Ma mi ha detto che con lo svilupparsi dell'informazione sarebbe stato difficile fermare la libertà». sinistri presagi Le parole di quel vulcanico veggente eternamente sovrappeso e con i boccoli sul collo furono esattamente queste: «La gente comunicherà, condividerà, starà in contatto. Allora tutti i limiti del sistema comunista emergeranno e quell'ideale sarà travolto». Aveva ragione con otto anni di anticipo sulla Storia. Ebbe la fortuna di essere ministro degli Esteri quando Berlino diventò una città libera e quando l'impero sovietico si dissolse. Avrebbe pagato quel vaticinio e quell'essere protagonista nel contribuire a realizzarlo, con lo tsunami giudiziario di Mani Pulite. Perché De Michelis era un bersaglio grosso: ministro delle Partecipazioni statali e del Lavoro nei due governi Craxi, vicepremier con Ciriaco De Mita a Palazzo Chigi, ministro degli Esteri negli ultimi due governi di Giulio Andreotti e firmatario del Trattato di Maastricht, sarebbe crollato con l'intera Prima repubblica sotto i colpi di piccone dei pm di Milano. Dopo aver ricevuto 35 avvisi di garanzia, fu archiviato 33 volte, patteggiò un anno e sei mesi per corruzione nel ramo veneto dell'inchiesta sulle tangenti autostradali e sei mesi per la maxitangente Enimont, che evidentemente non era «una maxi balla», come aveva tuonato imprudentemente Craxi. Erano gli anni del finanziamento pubblico spregiudicato, una rincorsa sistemica a colpi di mazzette per far pari con il Pci, foraggiato non solo dai grandi gruppi secondo percentuale, ma anche da Mosca a suon di rubli. De Michelis avrebbe rivelato: «Se Craxi mi avesse mandato a Palazzo Chigi avrei chiuso Tangentopoli con un decreto». Si riferiva agli eccessi e alle ambiguità. A Venezia lo chiamavano l'ultimo «Doge». Era nato in una famiglia metodista e sin da giovane aveva contratto la malattia della politica. È stato monarchico, missino, radicale in cerca di un approdo, di un ideale con il quale identificarsi, trovando il suo porto sicuro nel Psi durante gli anni universitari a Padova. Nel 1963 si è laureato in Chimica e ha percorso la strada accademica arrivando a insegnare all'università Ca' Foscari di Venezia. Poi l'incontro con Bettino Craxi, l'ascesa fino ai vertici del partito, l'imporsi di quel ticket vincente che aveva intuito tre necessità: il Paese voleva lasciare alle spalle le grisaglie democristiane, voleva pensare e agire in sintonia con la modernità, voleva meno briglie per correre sui mercati e per provare a essere felice. Allora, in fondo agli anni di piombo che avevano reso cupi e invivibili gli anni Settanta, per chi aveva 30 anni non c'era niente di più triste di un comizio di Enrico Berlinguer e non c'era niente di più elettrizzante di questo nuovo vento liberista. De Michelis lo colse, aprì le vele e navigò con intelligenza e astuzia in Parlamento. Nella stagione del decisionismo lui ascoltava gli interlocutori; nell'era dell'arroganza lui era gentile. Un tessitore nato. Gianfranco Rotondi, che lo ha conosciuto sui banchi del Parlamento, lo ricorda così su Twitter: «Mi fu maestro di pensiero, garbo, onestà. Sissignori, onestà: penso sia morto in condizioni economiche di grande difficoltà, ma nessuno ne scriverà». La sera, mentre Eugenio Scalfari andava in via Veneto, De Michelis andava a ballare. Era la sua passione estetica, il suo modo per scaricare lo stress. Gli piaceva circondarsi di gioventù e di belle signore; erano gli anni dell'edonismo reaganiano di Roberto D'Agostino. Le foto sui puff delle discoteche alla moda sparate in prima pagina furono la più facile miccia dell'indignazione popolare e il prologo all'innalzamento delle forche negli anni della resa dei conti. Lui non si risparmiava, era un habitué della movida in riviera romagnola; quando si pensa al Bandiera Gialla, alle ragazze del Drive In, alla Milano da bere si pensa anche a lui, sulla pedana da ballo di un'Italia rock. re della discoEnzo Biagi non gli risparmiò il suo sarcasmo chiamandolo «un avanzo di balera». Ma De Michelis, fedele al suo personaggio, non si offese. Anzi decise di pubblicare un libro dal titolo: Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane. Con le stellette per definire la qualità. Oggi si chiamerebbe sintonia con le nuove generazioni. Anni dopo un altro politico cercò tristemente di imitarlo per disperazione a Gallipoli, alla ricerca di un pugno di voti baby per evitare di essere spazzato via dall'onda berlusconiana: era Massimo D'Alema. Pagati i conti con la giustizia, la strada della risalita fu impervia, fra ricostituzioni del Partito socialista, scissioni, litigi e riappacificazioni a cavallo fra il centrodestra di Silvio Berlusconi (l'approdo naturale) e le tentazioni di fiancheggiare il Pd. L'ultima esperienza politica è stata con i Riformisti italiani di Stefania Craxi. Sembrava già stanco, sembrava già oltre. Casta o non casta, De Michelis valeva il triplo rispetto a certi politici della Seconda repubblica. Ma nessuno osava avvicinarlo, era un socialista con la fatwa e non doveva permettersi di uscire dal suo inner circle. Eppure aveva capito in anticipo non solo gli scricchiolii dell'impero sovietico, ma la questione settentrionale (con il libro Dialogo a Nordest) e poi le problematiche islamiche (Conversazioni sul Califfo virtuale) e ancora i pericoli delle primavere arabe che hanno scatenato le migrazioni (Mediterraneo in ebollizione). I suoi occhiali da presbite mettevano a fuoco orizzonti lontani, ma nessuno era interessato a inforcarli. Dopo l'11 settembre tornò in tv e con leggiadria provocatoria disse: «Onestamente devo ringraziare Bin Laden. Senza di lui sarei rimasto una non persona, quella costruita da Mani Pulite e scomparsa da ogni radar. Avverto che c'è bisogno di un po' di competenza». Anche questa sembra una profezia azzeccata. Quanto all'epitaffio, per lui più che per ogni altro, vale la battuta di Paolo Cirino Pomicino: «Nella Seconda repubblica le sciabole stanno appese. Combattono i foderi».