2024-03-25
Ignazio La Russa: «Gli anni di piombo cominciarono così»
Ignazio La Russa (Imagoeconomica)
Il presidente del Senato: «Qualcuno vuole scimmiottare quel periodo, all’università serve tolleranza zero per chi chiude la bocca agli altri. Dei boicottaggi contro esponenti di destra si parla di meno: questa è ipocrisia».«Un’altra cattiva notizia, un’altra tragedia. Il terrorismo islamico rialza la testa». Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, commenta le immagini inquietanti che arrivano da Mosca. L’attacco al teatro Crocus City Hall, con il bilancio delle vittime che sale di ora in ora. «Ci vogliono nervi saldi. Occorre procedere più spediti di prima verso un esercito europeo, che garantisca un futuro ordinato, per ripristinare e mantenere la pace». Ma La Russa si sofferma anche sulla polveriera italiana, le università attraversate dal nuovo fervore ideologico pro Palestina: «Tolleranza zero per chi chiude la bocca agli altri. Non siamo certo agli anni di piombo, ma per certi versi all’epoca si cominciò così: giustificando la prevaricazione. Colpa non solo dei cattivi studenti, ma soprattutto dei cattivi maestri».Putin promette vendetta contro i responsabili dell’attentato. Teme una ricaduta sulla guerra in Ucraina? «Il fatto che la Russia in questo momento sia un Paese invasore non mi impedisce di esprimere al popolo russo la mia solidarietà. Dietro l’attacco ci sarebbe l’Isis, e d’altronde le modalità sembrano simili a quanto accaduto tempo fa in Francia. Il terrorismo islamico che rialza la testa rappresenta un altro segnale drammatico in un periodo in cui i drammi non mancano, dall’Ucraina al Medio Oriente. La speranza è che questa violenza non divampi, ci vogliono nervi saldi da parte degli Stati, e interventi intelligenti per creare condizioni migliori».All’ultimo vertice Ue si è parlato di un debito comune per la difesa, ma i Paesi sono divisi e la partita è aperta. Vede controindicazioni? «Si vis pacem para bellum, dicevano i romani. È più facile conquistare e mantenere la pace quando si è preparati anche alla guerra. Lo dimostra da molto tempo la più pacifica delle nazioni europee, la Svizzera. Credo sia il Paese tra i più armati d’Europa, eppure è sempre rimasto neutrale. È il momento di creare finalmente un esercito europeo, unito all’alleanza con la Nato: sarebbe certamente uno strumento deterrente, nell’obiettivo primario di conservare e accrescere la pace in Europa e nel mondo».Non pensa sia un errore arrivare alla difesa comune europea partendo, ancora una volta, dall’economia anziché dalla politica? Non serve forse uno spirito condiviso prima di condividere l’industria bellica? «A furia di aspettare le coscienze e le politiche comuni, passano i decenni. Non mi interessa da dove si parte e quale traiettoria si segue. Tutti gli aspetti sono importanti, ma non bisogna perdere un momento per avviare un vero processo che porti alla creazione di un esercito comune. Su altri fronti abbiamo fatto tanti passi avanti, ma sul terreno della difesa europea siamo rimasti indietro».Le fughe in avanti di certi Paesi, in primis la Francia, non lasciano ben sperare, lungo il cammino di una Europa militarmente unita. «L’unico modo per evitare le fughe in avanti è proprio questo: tenere tutti insieme il passo spedito verso l’obiettivo».In Italia le università ribollono. I pro Palestina interrompono convegni, inscenano contestazioni durante le inaugurazioni degli anni accademici, si scontrano pesantemente con le forze dell’ordine. Si inizia a respirare un’ aria anni Settanta, o trova delle differenze? «La prima differenza è socio-culturale. In quegli anni la politica dominava i pensieri, le azioni e i comportamenti giovanili. A destra e a sinistra. Oggi non è più così, purtroppo o per fortuna. Le componenti politicizzate protagoniste degli atti di questi giorni rappresentano alcune minoranze rumorose, e qualche volta violente. Una violenza per il momento molto lontana da quella degli anni Settanta».Soltanto questo? «L’altra differenza sostanziale è che oggi contiamo sull’esperienza degli anni di piombo, ne conosciamo gli eccessi e siamo pronti ad evitare certi errori. Il presidente della Repubblica ha pronunciato parole di grande rilievo, quando ha chiesto di “bandire l’intolleranza” dagli atenei. Esponenti di tante aree politiche - soprattutto a destra, a sinistra meno - hanno condannato in maniera chiara e decisa ogni tentativo di sopraffare la libertà degli altri. Perché di questo dobbiamo parlare: sopraffazione».Dunque riconosce lo stile degli anni Settanta in certi atteggiamenti prevaricatori? «C’è un tentativo di scimmiottamento degli anni Settanta: qualcuno vuole arrogarsi il diritto di scegliere chi può parlare e chi no, chi può entrare in università e chi no. E questo è un pericolo grave, perché è da lì che nacquero le frange estremiste, e quella fase rappresentò una concausa del terrorismo che prese piede in quell’epoca».Però? «Però siamo ancora in tempo. Per fermare questa china pericolosa gli antidoti ci sono, purché i mestatori - anche involontari – del clima d’odio, prendano coscienza che occorre fermarsi. Il rischio che si scivoli verso un antisemitismo selvaggio è dietro l’angolo. Serve tolleranza zero verso chiunque voglia eliminare il diritto alle libere espressioni del pensiero, della circolazione delle idee nelle università e in qualunque altro posto. Zero sconti».Coglie uno strabismo nella condanna delle contestazioni, a seconda del colore politico del bersaglio? «Si è parlato molto, e giustamente, del boicottaggio a Torino contro il direttore di Repubblica: un po’ meno di quelli contro il giornalista Daniele Capezzone e contro il ministro Roccella. Il ragazzo che in Senato ha fatto il segno della pistola contro il presidente del Consiglio scriverà una lettera di scuse, “ma con saluti antifascisti”. Come se l’antifascismo giustificasse certi comportamenti».Già, come interpreta quell’episodio in Senato? Lei ha parlato di «gesto per niente elegante, ma la punizione non sia eccessiva». «Si è comportato in quel modo come pensando di stare allo stadio, convinto che magari, per usare uno slang giovanile, quello fosse un gesto “fico”, non gravido di conseguenze, e forse applaudito dalle platee più ideologizzate. Magari pensava di diventare un eroe, come il signore che gridò “Viva l’antifascismo” alla Scala di Milano».Cattivi ragazzi, o cattivi maestri? «La colpa principale ce l’hanno proprio i cattivi maestri, che non sono soltanto certi docenti. Tutti dobbiamo stare attenti a non seminare odio. Qualcuno lo fa anche per convenienza, coscientemente: con queste persone occorre essere molto severi, molto più che con gli studenti».Perché gli estremisti di destra scatenano l’allarme fascismo, e gli estremisti pro Palestina, comunisti o anarchici, invece no? «Ho una certa esperienza, e anche questa ipocrisia non mi stupisce affatto. A chi pratica un’antifascismo “di maniera”, a chi interpreta in maniera sbagliata questo sentimento fondante della Repubblica, dico: attenti, arriverà sempre qualcuno “più antifascista” di voi. La stessa formula che ripetevo con simpatia all’Umberto Bossi delle origini: “C’è sempre qualcuno più settentrionale di te”».Tre studenti della Bocconi sono stati sospesi dopo i commenti offensivi sui bagni «gender neutral». L’università dev’essere libera per tutti. Libera anche dal politicamente corretto, dalla cancel culture, dall’imposizione della filosofia woke? «Se i commenti dei tre ragazzi erano veramente offensivi, posso capire la necessità di un intervento disciplinare. Ma non conosco i dettagli. Se, invece, avessero commentato solo ironicamente, o manifestando correttamente la loro contrarietà, la punizione sarebbe ingiusta. Credo che nessuno possa impedire di propagandare il pensiero woke o la cancel culture, che pure non apprezzo per nulla. Per converso, guai a limitare la libertà di dissentire, anche profondamente, da questa visione. In sostanza, libertà di pensarla come si vuole, a patto di accettare il civile confronto con tutti e su tutto. Nel rispetto delle regole». A Pioltello una scuola chiude per il fine Ramadan, tra mille polemiche. Libertà religiosa, o come dice la Lega «sottomissione all’islam»? «Ho parlato con il ministro Valditara , il quale mi ha confermato che quella scelta dell’istituto è contro le regole. Non ne faccio una questione di principio: molto semplicemente, non spetta alle singole scuole fissare i giorni di vacanza degli studenti».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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