2022-07-31
I veri «arruolati» da Xi e Putin sono a sinistra
Da sinistra, Paavo Lipponen, Štefan Füle e Esko Aho (Ansa)
In una risoluzione dell’Europarlamento i nomi di ex capi di governo e ministri che intrattengono relazioni quantomeno controverse con aziende russe e cinesi come Gazprom, Cefc China Energy, Huawei. E la maggior parte appartiene alla galassia progressista.Nel mezzo delle accuse alla Lega di infiltrazioni russe, la vicepresidente del Pd, Debora Serracchiani, ha recentemente rispolverato la risoluzione, approvata dal Parlamento europeo lo scorso marzo, dedicata alle interferenze straniere nei processi democratici occidentali. Quel documento metteva nel mirino il Carroccio per «accordi di cooperazione con il partito di Vladimir Putin Russia Unita». Adesso il Pd ha riesumato la questione per avvalorare la sua linea d’attacco contro Matteo Salvini. E più in generale contro il centrodestra. Tuttavia, come sovente accade, i dem nostrani riportano soltanto un lato della faccenda: quello che fa più comodo a loro. Eh sì, perché, se si legge per intero quella risoluzione, emerge un quadro un tantino più complesso del manicheismo propagandato dalle alte sfere del Nazareno. Entrando nel dettaglio, quel documento cita esplicitamente alcuni individui (tendenzialmente ex capi di governo ed ex ministri europei) che intrattengono controverse relazioni con aziende russe e cinesi. Ebbene, buona parte di queste persone non è ascrivibile al fronte sovranista e nulla di vicino al mondo di Fdi o conservatore, ma si tratta di esponenti della sinistra, più o meno vicini al Pd e agli altri partiti socialdemocratici.Si comincia con l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder e con l’ex primo ministro finlandese Paavo Lipponen: entrambi socialdemocratici ed entrambi legati a Gazprom con l’obiettivo di accelerare il via alla realizzazione del controverso gasdotto Nord Stream 2. Si prosegue con l’ex Commissario europeo per l'allargamento Štefan Füle, esponente del Partito socialdemocratico ceco che, secondo la risoluzione, ha lavorato per il colosso cinese Cefc China Energy. È poi la volta del socialista Jean-Marie Le Guen: ex segretario di stato francese per i rapporti con il Parlamento ed ex deputato, costui è entrato nel board di Huawei France. Da notare che Schröder, Lipponen, Füle e Le Guen sono riconducibili al gruppo europeo Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici: compagine di cui fa parte il Pd. C’è poi il caso dell’ex primo ministro finlandese, Esko Aho, che – secondo la risoluzione – è entrato nel board di Sberbank: Aho è un esponente del Partito di Centro finlandese, attualmente collocato nel gruppo europeo Renew Europe, in cui è presente uno stretto alleato di Enrico Letta, come il presidente francese Emmanuel Macron. Certo: il documento cita anche casi che coinvolgono figure riconducibili al Ppe (come Francois Fillon nel board di Zaroubejneft, Yves Leterme nel gruppo cinese Tojoy o il neomacroniano Jean-Pierre Raffarin, tacciato di promuovere gli interessi di Pechino in Francia). Viene tra l’altro menzionato il caso dell’ex ministro degli Esteri austriaco, Karin Kneissl: una indipendente collegata al Partito della libertà austriaco (attualmente collocato nel gruppo europeo Identità e democrazia), che è stata nel board di Rosneft fino allo scorso maggio. Resta tuttavia il fatto che, in quanto a controversi legami con Cina e Russia, la galassia dei socialisti e dei liberali europei appare a maggior rischio d’infiltrazione. A dirlo, in fondo, è l’intero Parlamento Ue che ha votato il report a maggioranza. L’obiettivo dei Paesi (a cui si aggiungono anche, sebbene più sporadiche, attività turche e iraniane) è quello di utilizzare i meccanismi europei e le leggi dei singoli Paesi per sostenere la propria primazia nei campi energetici e in quelli tecnologici. Non è un caso se di ciò se ne parla troppo poco. Servirebbe non a caso presso ciascun Parlamento Ue un registro delle donazioni da parte di entità estere e ciascun partito e anche un omologo registro che tracci la pubblicità pagata da colossi o Stati esteri ai media nazionali. Sarebbe interessante sapere quanto spende Huawei per i giornali italiani o quanto è stato investito dal governo di Mosca per progetti editoriali congiunti come Russia Oggi ospitato da Repubblica tra il 2010 e il 2015. Un ulteriore fattore, questo, a cui forse il Pd – così solerte nel dare patenti di atlantismo a chicchessia – dovrebbe forse fare un poco più attenzione. D’altronde, la filiera sino-russa rischia di essere un problema anche guardando oltreatlantico. I legami del Nazareno con l’establishment del Partito democratico americano sono noti. Nel suo viaggio oltreatlantico nel novembre del 2019, l’allora segretario dem, Nicola Zingaretti, incontrò tra gli altri Nancy Pelosi e Bill Clinton. Eppure, anche lì, si scorge qualche movimento strano. Lo scorso ottobre, è emerso che Huawei avrebbe pagato 500.000 dollari a Tony Podesta per condurre attività di lobbying sull’amministrazione Biden. Ricordiamo che Tony Podesta è il fratello di John Podesta: capo dello staff della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton tra il 1998 al 2001, consigliere di Barack Obama dal 2014 al 2015 e capo del comitato elettorale di Hillary Clinton nel 2016. Ma non è tutto. Abbiamo citato prima i rapporti del socialdemocratico ceco Stefan Fule con il colosso cinese Cfec China Energy: si tratta della stessa realtà con cui ha in passato intrattenuto stretti e controversi legami il figlio di Joe Biden, Hunter. In particolare, lo scorso marzo il Washington Post riportò che quell’azienda aveva versato a quest’ultimo un totale di 4,8 milioni di dollari. Ricordiamo che il presidente di Cfec era il businessman cinese Ye Jianming: personaggio collegato all’esercito popolare di liberazione e, secondo un rapporto ufficiale dei senatori repubblicani, con agganci anche al Cremlino. Non solo: nel 2014, Hunter avrebbe anche ricevuto un bonifico di 142.000 dollari da parte di Kenes Rakishev (oligarca kazako che, secondo la testata francese Le Media, risulterebbe intimo amico del leader ceceno, Ramzan Kadyrov). Il Pd dovrebbe infine rammentare che fu Donald Trump a mettere le sanzioni al gasdotto Nord Stream 2 e che fu invece Biden a revocarle a maggio dell’anno scorso senza adeguate contropartite dalla Russia. Evidentemente l’«atlantista» Serracchiani ha la memoria un po’ corta.
Jose Mourinho (Getty Images)