2021-01-08
I social censurano il presidente ribelle. Da oggi sono loro a decidere chi parla
(Pavlo Gonchar/SOPA /LightRocket / Getty Images)
Donald Trump sospeso a tempo indefinito da Facebook e Instagram. Di questo passo, potranno oscurare ogni posizione sgradita. Mercoledì sera poco prima delle 23 (ora italiana) sotto il videomessaggio pubblicato sul suo profilo Twitter dal presidente Donald Trump per invitare i suoi sostenitori - definiti «patrioti» - ad andare a casa è comparso un avviso del social network: «L'affermazione che le elezioni sono state truccate viene contestata e pertanto questo tweet non può ricevere commenti o like e non può essere ritwittato a causa di un rischio di violenze». Poco prima Twitter ne aveva segnalato un altro in cui Trump ripeteva che il voto per la Casa Bianca era stato un furto di democrazia. Troppo poco per i bideniani che sul social network incalzavano il colosso dell'uccellino a fare di più, cioè a chiudere definitivamente il profilo del presidente uscente. Chiedendone l'espulsione anche da Facebook (che nel frattempo aveva già cancellato i post di Donald) e Youtube. Ovviamente per il bene della democrazia. Alla fine Twitter ha sospeso il profilo di Trump per 12 ore «per ripetute e gravi violazioni della nostra politica di integrità civica» dichiarandosi pronto a bloccare in modo permanente se le violazioni continueranno, Facebook ieri ha esteso le restrizioni bloccando gli account del presidente «indefinitamente e per almeno due settimane fino a quando una pacifica transizione di potere non sarà completata», ha detto Mark Zuckerberg. Lo stesso ha fatto Instagram.Del resto, la guerra social va avanti da mesi. Il 2 ottobre del 2019 l'attuale vicepresidente eletta Kamala Harris aveva «cinguettato» e poi scritto una lettera aperta all'amministratore delegato di Twitter, Jack Dorsey, chiedendo se non fosse il caso di «fare qualcosa», cioè di sospendere l'account di Trump. Alla Harris era stato intanto risposto che Trump era il presidente in carica degli Stati Uniti, cosa che comportava privilegi dal punto di vista della libertà di espressione: non si poteva censurare la Casa Bianca. Ma ora «Potus» sta per cambiare nome e l'assalto al Campidoglio impone soluzioni drastiche.Per i sedicenti «buoni» lo stop di Twitter a Trump è una grande vittoria: i social network non potranno più essere usati per attentare alla democrazia. Ma al netto di come la si pensi sull'assalto al Campidoglio, e nonostante l'oscuramento social non abbia impedito la circolazione del pensiero trumpiano, la questione social diventa politica e andrà risolta una volta per tutte. Anche perché se oggi tocca al «cattivissimo» Trump, domani potrebbe riguardare qualcun altro. È giusto che un'azienda privata decida cosa può o non può dire un funzionario pubblico? E a discrezione di quale «giuria»? E perché silenziare i cinguettii di Trump mentre nello stesso momento qualsiasi utente poteva vedere le terribili immagini dello sparo a Ashil Babbitt, poi deceduta, postate sui social? Ieri sera a «bannare» sono stati anche i media tradizionali. Mentre Trump parlava in diretta chiedendo ai suoi di «tornare a casa», la Cnn continuava a mandare in onda le immagini dell'assalto. Perché c'è un aspetto che unisce i vecchi e i nuovi media: la tentazione di indossare la maglia della giustizia, verità e democrazia per giocare sul campo della politica, dalle elezioni presidenziali alla gestione della pandemia. L'estate scorsa Twitter aveva bloccato temporaneamente l'account di Trump per «disinformazione» sul Covid quando il presidente aveva anche annunciato il vaccino prima di fine 2020 (come poi è successo), mentre Facebook aveva rimosso dalla pagina del tycoon un post che parlava di «quasi immunità dei bimbi». C'è infine un altro tema da considerare. Perché i colossi social come Twitter impongono giustamente il rispetto di precise norme di condotta e comportamento ma lasciano il fianco scoperto quando sostengono di non voler essere considerati al pari dei «normali» editori (che pagano in caso di condanna di contenuti pubblicati), ma solo come dei megafoni utili alla connessione e alla condivisione. All'inizio di dicembre Trump ha minacciato su Twitter di porre il veto alla legge annuale sulla difesa se il Congresso non metterà fine alla cosiddetta sezione 230, ossia la normativa che garantisce ai giganti del Web l'immunità per i contenuti di terzi. Uno scudo di sole 26 parole: «Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi». La 230 di fatto sancisce che le piattaforme non sono responsabili di ciò che viene pubblicato da altri su di loro e dà anche alle società che le gestiscono ampia discrezione nel moderare i post e gli altri contenuti. L'8 dicembre la Camera ha poi sfidato il veto approvando la legge con una maggioranza di 335 voti favorevoli (78 i contrari). Il provvedimento non solo non include la sezione 230 ma prevede un'altra misura osteggiata dal presidente, la rimozione dalle basi Usa dei nomi di eroi confederati. Non è un caso se durante uno dei suoi ultimi interventi pubblici, Zuckerberg ha ricordato che i social si trovano in un terreno ancora da regolamentare, da esplorare, a metà tra una società editrice e una di telecomunicazioni. Una terra di mezzo in cui finora hanno democraticamente prosperato.
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