2019-11-24
I pescetti in piazza puzzano già di vecchio
I progressisti fanno a gara nell'incensare i ragazzotti «anti populisti». Un ministro li difende, gli euroburocrati li omaggiano. Succede perché, dietro le facce pulite degli attivisti, c'è il volto del sistema costituito che vorrebbe oscurare chi dissente.Concita De Gregorio ha ragione quando scrive che «i trentenni non esistono». Verissimo: i giovani non esistono, così come non esistono i «valori dei giovani» o le «esigenze dei giovani». I giovani, fra di loro, non hanno nulla in comune se non il fatto di essere - appunto - giovani. Tanto per chiarirsi. Un trentenne con un contratto a termine da 1200 euro che paga 550 euro al mese per l'affitto di una stanza non ha le stesse esigenze di un suo coetaneo che abita nell'appartamento comprato dai genitori e già lavora nello studio dell'avvocato amico di papà. La categoria dei giovani è, a tutti gli effetti, una invenzione commerciale. Il giornalista britannico Jon Savage ne ha ricostruito l'origine in un bel libro (L'invenzione dei giovani, Feltrinelli), in cui spiega che il termine «teenager» cominciò a diffondersi negli Usa nel 1944: «Fin da subito si trattò di un termine specifico del marketing, usato da pubblicitari e produttori, che rispecchiava la nuova tangibile capacità di spesa degli adolescenti. Il fatto che per la prima volta i giovani fossero diventati un target significava anche che erano diventati un gruppo anagrafico distinto, con rituali, diritti ed esigenze propri». L'interesse per le «istanze giovanili» risponde dunque a una precisa esigenza commerciale. Come noto, da qualche tempo la politica ha preso a utilizzare le categorie del marketing: alla lotta di classe ha sostituito la lotta fra minoranze, cioè fra segmenti diversi del mercato. I giovani sono uno dei settori più interessanti, poiché rappresentano un investimento a lungo termine. Nell'ultimo anno si è discusso di concedere il voto ai sedicenni, si sono celebrati in lungo e in largo i discepoli di Greta più o meno grandicelli, adesso tocca alle sardine, appena più attempate. Che cos'hanno in comune queste (apparentemente) diverse manifestazioni della gioventù? Sono tutte organiche al sistema dominante. Giuliano Ferrara, con entusiasmo, ha definito le sardine «un movimento spontaneo di fiancheggiamento dell'establishment». È vero anche questo. Leggete il loro manifesto, come invita a fare il Foglio. Che cosa trovate? Il nulla. Cianciano di «politici con la P maiuscola», ma di politica nel loro proclamino non v'è traccia. Non chiedono salari più alti, non pretendono una casa, un lavoro decente, niente. Le sardine e i piccoli ecologisti, dice Concita De Gregorio, «rimettono al centro quello di cui la politica dei proclami, delle parole, delle convenienze elettorali delle promesse e delle rendite di posizione non si occupa più». Ma «quello» cosa, esattamente? Che cosa vogliono questi «giovani»? Non sono antipolitici, sono postpolitici, nel senso che hanno superato totalmente la politica. Agli esponenti dei partiti chiedono soltanto: «Liberarteci dalla vostra presenza opprimente». Si levi di mezzo lo scontro - anche feroce - fra schieramenti: partiti, sgombrate il campo. È la richiesta che, da tempo immemore, il mercato rivolge alla politica: vuoi levarti dai piedi oppure no? Non fanno chiasso, le sardine, si compiace qualcuno. Certo: non turbano la quiete, preferiscono mantenere l'ordine costituito. Non hanno abolito la lotta di classe, hanno abolito la lotta punto. Fanno esibizione di pacatezza, non amano la rabbia dei sovranisti. Forse perché questi pesciolini - o almeno alcuni dei loro più visibili capetti - non hanno nulla per cui arrabbiarsi. Così giovani e già così di apparato, frequentano i circolini bolognesi dei politici di antichissimo corso, se ne escono in cerca di visibilità dai ranghi del Pd, qualcuno ha già un posticino caldo nelle stanze istituzionali. Sono cresciuti nell'establishment e lo amano. Si infuriano solo - come fa Greta - quando «la catastrofe climatica» minaccia di eliminare la fetta di torta promessa. E allora sì che «i giovani» gridano: «Vogliamo un futuro!». Ovvero: «Vogliamo godere di tutto ciò che ci avete promesso». Hanno tutti i vizi dell'élite, questi pesci pagliaccio. Celebrano la non violenza, ma nascono allo scopo di «oscurare» la campagna elettorale dell'opposizione. Ribadiscono che i populisti non hanno il diritto di essere ascoltati, vorrebbero cancellarli come Facebook toglie i post sgraditi. E, in fondo, non c'è molta differenza fra la sardina che vuole le destre mute come pesci e il presunto artista di Napoli che realizza sculture anti Salvini . L'odio, nel caso sardinesco, c'è ma se ne sta ben nascosto. Non amano i toni aspri, i sirenetti. A meno che, ovviamente, non siano loro ad usarli per fare i capricci. Sono «contro l'odio» (poi lo esercitano nei confronti dei sovranisti di cui sopra, ma passi), perché questa è la parola d'ordine. E infatti il potere li coccola come mai prima. Il ministro Lorenzo Fioramonti se li prende sotto la gonna se un professore su di giri si scalda troppo, proprio come fece con i piccoli manifestanti del clima. I progressisti se li contendono, persino il turboeuropeista Guy Verhofstadt va in brodo di giuggiole: ecco il regime che sceglie chi può occupare le piazze e chi no. Ecco il target commerciale (i «giovani») che si fa movimento e pretende ascolto senza aver niente da dire. Non grida bens sussurra l'«immensa lamentazione» che, diceva Céline, «intenerisce tutti i buoni cuori». Parlano da pesci, le sardine: muovono la bocca e non escono suoni. Vanno persino in piazza già inscatolate, perché della gioventù hanno solo l'ombra sui documenti d'identità, non la forza vitale. Ha ragione Concita: i giovani non esistono. Esistono le sardine, e puzzano già di vecchio.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?