2018-04-28
I palestinesi sbagliano tutto ma sto con loro
Nonostante gli errori politici e le continue illusioni, non si può chiedere a un popolo di rassegnarsi alla morte. Vederli affrontare i carri armati con le fionde e gli aquiloni mette in discussione qualunque certezza. Non è sempre il più forte quello che ha ragione.Raymond Aron diceva: «Se a 20 anni non sei socialista sei senza cuore; ma se a 40 anni sei ancora socialista sei senza cervello». È un percorso che io ho regolarmene compiuto; ma sospetto di non aver acquisito del tutto un cervello rispettabile. Mi scopro ancora vulnerabile al socialismo, se per questo si intenda solidarietà, empatia e una certa dose di autocritica; che poi - talvolta - evolve in leggera schizofrenia. Adesso devo fare i conti con la «marcia del ritorno». Migliaia di palestinesi che si ammassano davanti al confine israeliano protestando per l'occupazione del loro territorio, iniziata il fatidico giorno della Nakba (la Catastrofe) - il 15 maggio del 1948, il giorno della nascita di Israele - e proseguita fino ad oggi, attraverso quattro guerre, dal 1948 al 1973. E poi consolidata attraverso la costruzione di insediamenti israeliani su terre che i palestinesi rivendicano di loro proprietà.Il fatto è che la storia non è giusta; ma è storia e poco vale lamentarsi della sua crudeltà. Gli Stati Uniti sono il frutto di un genocidio efferato; per non parlare della distruzione di culture ben più evolute di quella dei nativi americani, l'Azteca e l'Inca. E il mondo che conosciamo è il frutto di queste crudeltà. Sarebbe interessante sapere come sarebbe stato se queste non fossero avvenute (Philip Kindred Dick ha scritto un bellissimo libro, The man on the high castle, in italiano La svastica sul sole, in cui immagina che i nazisti abbiano vinto la guerra e che Germania e Giappone si siano divisi gli Usa, la Germania abbia occupato l'Est e il Giappone l'Ovest); ma è un esercizio sterile, la storia non si combatte, si accetta. Il che è quello che dico e mi dico quando alcune persone che amo mi rimproverano la mia mancanza di partecipazione, se non ostilità, al dramma palestinese. Poi succede che un video e una fotografia penetrino questo schermo di realismo (cinismo?) e insinuino nel mio animo punte di angoscia e pietà.Girano sul Web. Il video mostra alcuni ragazzi che corrono su una pietraia brulla e arsa (litigano da settant'anni per questi pezzetti di terra) trascinando un grande aquilone al quale è appesa una bottiglia molotov; cercano di dirigerla al di là del confine, sopra i soldati israeliani. Che - naturalmente - lo usano come bersaglio e lo tirano giù in men che non si dica. E loro, i ragazzi palestinesi, ne fabbricano un altro e ci attaccano un'altra bottiglia…Una fotografia mostra un altro gruppo di ragazzi. Hanno fabbricato una fionda; grandissima, alta tre metri (a occhio e croce), fatta con tubi di ferro. L'hanno piantata in terra e tre di loro sono avvinghiati al manico (quello che sarebbe il manico in una fionda normale) e la tengono ferma; altri due tirano un enorme elastico fatto con camere d'aria annodate al cui centro c'è un grosso sasso. Lo tireranno sui blindati israeliani.I blindati… Aquiloni e fionde contro carri armati, Tar (il fucile d'assalto israeliano, tanto per cambiare l'arma di questo tipo più evoluta al mondo), giubbotti corazzati. C'è di che creare un mito. E anche di stimolare una riflessione.I palestinesi sono corresponsabili del loro destino. Se la guerra del 1948 aveva un senso (in sostanza l'Onu dispose del territorio palestinese in aperta violazione della sovranità nazionale), quelle successive furono un grave errore politico: la superiorità militare di Israele era evidente e pensare di vincerle era assurdo. La spartizione del 1947 aveva assegnato ai palestinesi circa il 50 % della Palestina; dopo quattro guerre e innumerevoli guerriglie, il territorio controllato (si fa per dire) dai Palestinesi non raggiunge il 10%. Questo restringersi dei loro campi e delle loro case li esacerba, li rende aggressivi. Hanno anche ragione, ma è certo che questo atteggiamento è un'ottima giustificazione per le soperchierie cui vengono sottoposti ai valichi di confine e nel territorio israeliano dove vivono molti di loro: tasse, acqua deviata verso gli insediamenti israeliani, controlli provocatori, continui incidenti (non sempre provocati dagli israeliani, questo è vero), arresti, processi; e qualche morto ogni tanto. Ma soprattutto, il rifiuto di accettare quello che è evidentemente immodificabile, la spartizione, si è risolta in un conflitto che i palestinesi non potranno mai vincere. Basta guardare le mappe che mostrano la progressiva diminuzione dei territori palestinesi, fino alla loro quasi inesistenza attuale, per rendersi conto che la strategia adottata in tutti questi anni è stata disastrosa. Il saltuario ricorso ad attentati dimostrativi, privi di ogni efficacia concreta, aventi l'unico scopo di ricordare al mondo «noi ci siamo», ha ancora peggiorato la loro causa; e comunque ha fornito a Israele l'alibi che cercava per incrementare la repressione. Ce n'è quanto basta per voltargli le spalle.Eppure… Ricordo un commento a De rerum natura di Tito Lucrezio Caro: «È l'illusione che escogita infiniti argomenti per sopravvivere; e tutto è davvero perduto quando anche l'illusione ci ha abbandonato». Gli aquiloni e le fionde sono il prodotto di una tragica illusione. Ma, finché combattono, come possono, i palestinesi sono vivi. Accettare di morire come popolo è peggio che accettare la morte come persona. Succederà, tra 10, 20, 50 anni. Ma non ora. È per questo che non riesco a non stare dalla loro parte.
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