Sia come sia, Riccardo Ruggeri non ha valutato favorevolmente il libro di Nichols; ma le sue critiche mi hanno invogliato a leggerlo. L'ho fatto due volte e ne sono uscito annichilito. La situazione non è solo uguale a quella che io sostengo da tempo e che mi contrappone all'amico Riccardo; è molto peggiore. Tanto peggiore da farmi davvero disperare in una soluzione, quale che sia. E comunque, dopo aver letto e riflettuto, ho trovato davvero difficile aderire al suo ottimismo.
Il libro è scritto in uno stile semplice e scorrevole, mi ricorda il testo di diritto penale su cui ho studiato, del professore Francesco Antolisei. Tanto semplice che ti sembra di aver capito tutto subito; poi, alla fine, non ti ricordi nulla e devi rileggere con attenzione; che è quello che ho fatto. Riassumo qui una sintesi del pensiero di Nichols, tralasciando l'analisi di come l'arroganza dell'ignoranza ha potuto prodursi: basterà dire che - come già spiegato da Umberto Eco - la colpa è di Internet («I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel»).
Nichols comincia con il constatare l'esistenza diffusa di un equivoco. L'uguaglianza tra i cittadini propria di un sistema democratico significa che tutti hanno uguali diritti politici; «uno vale uno», per dirla con gli inventori di questo slogan di successo. Che vuol dire - naturalmente - che ogni voto conta come qualsiasi altro. Ma - spiega Nichols - ciò si è rapidamente trasformato nella convinzione che «avere diritti uguali significhi anche che l'opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro»; il che comporta la «convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro».
Il fenomeno non è strano, a pensarci bene. Secondo Nichols le persone sono «orgogliose di non sapere le cose. Arrivano a considerare l'ignoranza una vera e propria virtù. Rifiutare l'opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che si sta sbagliando qualcosa». E ciò che lo preoccupa «non è tanto il fatto che la gente rifiuti la competenza, ma che lo faccia con una tale rabbia». Difficile arrestare questa involuzione, impossibile curarla. Il professore spiega perché: «Tutti siamo affetti dal bias di conferma, la tendenza naturale ad accettare soltanto prove che confermano ciò che già crediamo. La più grande fonte di conoscenza umana (Internet) dai tempi di Gutenberg (l'inventore della stampa) è diventata tanto una piattaforma per attacchi al sapere consolidato quanto uno strumento per difendersene».
Confortato da un «esperto» di tale calibro, ho riproposto a una piccola cerchia di amici (che ho cercato di coinvolgere in questa analisi che mi spaventa, letteralmente) la querelle sulla necessità di somministrare vaccini ai bambini, intervenuta tra il professore Roberto Burioni e la Iena Dino Giarrusso. Avrei dovuto desistere subito, quando è apparso evidente che tutti sapevano chi era Giarrusso ma solo uno conosceva l'impressionante curriculum scientifico del microbiologo, virologo, infettivologo Burioni. Ma non l'ho fatto e ho raccontato la risposta dello scienziato al duello televisivo sui vaccini proposto dalla Iena: «Gentile Giarrusso, se parliamo di vaccini ci sono due possibilità: lei si prende laurea specializzazione e dottorato e ci confrontiamo. Oppure io spiego, lei ascolta e alla fine mi ringrazia perché le ho insegnato qualcosa»: mi hanno (tutti meno quell'uno) caricato di miserie: arrogante, presuntuoso, fastidioso; tutte aggettivazioni puntualmente riscontrate sul web e molti giornali cartacei. Solo quell'uno ha provato a dire che arrogante etc era stato chi nulla sapeva (a dispetto di ciò che credeva di sapere) e che tuttavia pretendeva un confronto con uno scienziato.
Dal che emerge ancora una volta quanto il professor Nichols sia stato acuto e preveggente: «Se i cittadini non si preoccupano di acquisire un'alfabetizzazione di base sulle tematiche che influiscono sulla loro vita, rinunciano a esercitare il loro controllo su di esse. E quando gli elettori perdono il controllo di queste importanti decisioni, rischiano il dirottamento della loro democrazia da parte di ignoranti demagoghi o una più lenta e graduale decadenza delle istituzioni democratiche, fino a scivolare in una tecnocrazia autoritaria».
Ora, che i cittadini italiani non abbiano nessuna intenzione di alfabetizzarsi mi pare evidente: infatti hanno eletto ignoranti demagoghi (in verità che siano demagoghi lo suppongo; che siano ignoranti emerge dal loro curriculum scolastico e lavorativo). È per questo che penso che l'amico Ruggeri non abbia poi così ragione; e che la «tecnocrazia autoritaria» sia tutto ciò che ci resta.
Raymond Aron diceva: «Se a 20 anni non sei socialista sei senza cuore; ma se a 40 anni sei ancora socialista sei senza cervello». È un percorso che io ho regolarmene compiuto; ma sospetto di non aver acquisito del tutto un cervello rispettabile. Mi scopro ancora vulnerabile al socialismo, se per questo si intenda solidarietà, empatia e una certa dose di autocritica; che poi - talvolta - evolve in leggera schizofrenia. Adesso devo fare i conti con la «marcia del ritorno». Migliaia di palestinesi che si ammassano davanti al confine israeliano protestando per l'occupazione del loro territorio, iniziata il fatidico giorno della Nakba (la Catastrofe) - il 15 maggio del 1948, il giorno della nascita di Israele - e proseguita fino ad oggi, attraverso quattro guerre, dal 1948 al 1973. E poi consolidata attraverso la costruzione di insediamenti israeliani su terre che i palestinesi rivendicano di loro proprietà.
Il fatto è che la storia non è giusta; ma è storia e poco vale lamentarsi della sua crudeltà. Gli Stati Uniti sono il frutto di un genocidio efferato; per non parlare della distruzione di culture ben più evolute di quella dei nativi americani, l'Azteca e l'Inca. E il mondo che conosciamo è il frutto di queste crudeltà. Sarebbe interessante sapere come sarebbe stato se queste non fossero avvenute (Philip Kindred Dick ha scritto un bellissimo libro, The man on the high castle, in italiano La svastica sul sole, in cui immagina che i nazisti abbiano vinto la guerra e che Germania e Giappone si siano divisi gli Usa, la Germania abbia occupato l'Est e il Giappone l'Ovest); ma è un esercizio sterile, la storia non si combatte, si accetta. Il che è quello che dico e mi dico quando alcune persone che amo mi rimproverano la mia mancanza di partecipazione, se non ostilità, al dramma palestinese. Poi succede che un video e una fotografia penetrino questo schermo di realismo (cinismo?) e insinuino nel mio animo punte di angoscia e pietà.
Girano sul Web. Il video mostra alcuni ragazzi che corrono su una pietraia brulla e arsa (litigano da settant'anni per questi pezzetti di terra) trascinando un grande aquilone al quale è appesa una bottiglia molotov; cercano di dirigerla al di là del confine, sopra i soldati israeliani. Che - naturalmente - lo usano come bersaglio e lo tirano giù in men che non si dica. E loro, i ragazzi palestinesi, ne fabbricano un altro e ci attaccano un'altra bottiglia…
Una fotografia mostra un altro gruppo di ragazzi. Hanno fabbricato una fionda; grandissima, alta tre metri (a occhio e croce), fatta con tubi di ferro. L'hanno piantata in terra e tre di loro sono avvinghiati al manico (quello che sarebbe il manico in una fionda normale) e la tengono ferma; altri due tirano un enorme elastico fatto con camere d'aria annodate al cui centro c'è un grosso sasso. Lo tireranno sui blindati israeliani.
I blindati… Aquiloni e fionde contro carri armati, Tar (il fucile d'assalto israeliano, tanto per cambiare l'arma di questo tipo più evoluta al mondo), giubbotti corazzati. C'è di che creare un mito. E anche di stimolare una riflessione.
I palestinesi sono corresponsabili del loro destino. Se la guerra del 1948 aveva un senso (in sostanza l'Onu dispose del territorio palestinese in aperta violazione della sovranità nazionale), quelle successive furono un grave errore politico: la superiorità militare di Israele era evidente e pensare di vincerle era assurdo. La spartizione del 1947 aveva assegnato ai palestinesi circa il 50 % della Palestina; dopo quattro guerre e innumerevoli guerriglie, il territorio controllato (si fa per dire) dai Palestinesi non raggiunge il 10%. Questo restringersi dei loro campi e delle loro case li esacerba, li rende aggressivi. Hanno anche ragione, ma è certo che questo atteggiamento è un'ottima giustificazione per le soperchierie cui vengono sottoposti ai valichi di confine e nel territorio israeliano dove vivono molti di loro: tasse, acqua deviata verso gli insediamenti israeliani, controlli provocatori, continui incidenti (non sempre provocati dagli israeliani, questo è vero), arresti, processi; e qualche morto ogni tanto. Ma soprattutto, il rifiuto di accettare quello che è evidentemente immodificabile, la spartizione, si è risolta in un conflitto che i palestinesi non potranno mai vincere. Basta guardare le mappe che mostrano la progressiva diminuzione dei territori palestinesi, fino alla loro quasi inesistenza attuale, per rendersi conto che la strategia adottata in tutti questi anni è stata disastrosa. Il saltuario ricorso ad attentati dimostrativi, privi di ogni efficacia concreta, aventi l'unico scopo di ricordare al mondo «noi ci siamo», ha ancora peggiorato la loro causa; e comunque ha fornito a Israele l'alibi che cercava per incrementare la repressione. Ce n'è quanto basta per voltargli le spalle.
Eppure… Ricordo un commento a De rerum natura di Tito Lucrezio Caro: «È l'illusione che escogita infiniti argomenti per sopravvivere; e tutto è davvero perduto quando anche l'illusione ci ha abbandonato». Gli aquiloni e le fionde sono il prodotto di una tragica illusione. Ma, finché combattono, come possono, i palestinesi sono vivi. Accettare di morire come popolo è peggio che accettare la morte come persona. Succederà, tra 10, 20, 50 anni. Ma non ora. È per questo che non riesco a non stare dalla loro parte.
Da subito i propositi catalani di secessione mi sono sembrati velleitari e dannosi per gli stessi cittadini che l'auspicavano. Per motivi economici, principalmente. Ammesso che la Catalogna fosse la regione spagnola con il Pil più alto e che potesse considerarsi la più ricca tra tutte (da cui la voglia di non depauperarsi a vantaggio di altre), era evidente che la separazione dallo Stato spagnolo, conseguita unilateralmente e con l'opposizione del governo centrale, avrebbe radicalmente ridotto il benessere di cui godeva questo territorio. Le frontiere con l'ex Stato di appartenenza sarebbero state chiuse, i commerci bloccati o sottoposti a dazi pesantissimi, la circolazione delle persone resa difficoltosa. La sola minaccia del referendum secessionista indusse decine di imprese aventi sede in Catalogna a traferire la loro sede fuori della regione. Ancora peggiori conseguenze la secessione avrebbe avuto sul commercio e le relazioni intereuropee. L'Ue, che da subito aveva manifestato la sua contrarietà all'iniziativa catalana, non avrebbe certo potuto applicare al «nuovo» Stato il regime commerciale e giuridico proprio dello Stato spagnolo, riconoscendo la Catalogna come nuovo Paese aderente. A tacer d'altro, perché sarebbe stato necessario il voto unanime di tutti gli Stati membri, impossibile da ottenere vista la certa contrarietà della Spagna. La Catalogna indipendente sarebbe stata dunque considerata (se pure fosse stata riconosciuta) come un qualsiasi Stato extra comunitario, con le relative conseguenze commerciali e politiche. Per questi motivi, da subito, come ho scritto, la «ribellione» catalana mi è sembrata velleitaria, inconcludente e politicamente disastrosa.
La mia insopprimibile formazione giuridica mi ha condotto, di nuovo da subito, a ulteriori considerazioni, tanto più pressanti quanto più frequenti si erano fatte le critiche alla «feroce repressione» del governo spagnolo; in particolare quando, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale e dunque illegale il referendum indipendentista (tuttavia tenuto in spregio della legge), era stato necessario l'uso della forza pubblica per tentare di evitarlo. Considerazioni che prepotentemente si sono riproposte adesso, con il leader indipendentista Carles Puigdemont che si è presentato alla Commissione europea lamentando la violazione di insopprimibili diritti umani. Provo a spiegarle.
La legge fondamentale di ogni Stato di diritto è la Costituzione. Che è o dovrebbe essere autoevidente, nel senso che ogni cittadino è in grado di interpretarla e di identificarne regole e principi. Quando ciò non avviene, in buona fede o strumentalmente, la voce della Costituzione si fa palese attraverso un organo apposito: la Corte costituzionale. In uno Stato di diritto (che vuol dire fondato sulla legge) è questa l'unica «vera» voce, nessun altro può sostituirsi ad essa. E infatti i rivoluzionari o ribelli (dipende dal punto di vista) si limitano a ignorare l'una e l'altra, delegittimandole quali strumenti repressivi, in violazione di fondamentali diritti umani. L'inconsistenza della tesi è stata dimostrata scientificamente (il diritto è una scienza) innumerevoli volte. Ma nulla mi sembra più convincente di un discorso tenuto il 30 settembre del 1962, quando i segregazionisti del Sud tentarono di opporsi all'iscrizione all'Università di Oxford del veterano di guerra, negro, James Meredith (rifiuto l'ipocrita politically correct «afroamericano»: ai razzisti brucia il colore della pelle, non la cittadinanza). Due morti e violenze spaventose cui John Kennedy reagì inviando truppe militari.
Ecco il discorso: «Gli americani sono liberi di disapprovare la legge, ma non di disobbedirvi. Ciò perché in un governo di leggi, non di uomini, nessun uomo - per quanto di grado elevato e potente che sia - e nessuna folla, per ribelle e turbolenta che possa essere, ha diritto di sfidare gli ordini di un tribunale e della nostra Costituzione. Se così fosse, nessuna legge sarebbe certa, nessun giudice sarebbe garantito e nessun cittadino sarebbe al sicuro dai suoi vicini. La Costituzione e le leggi degli Stati Uniti mi obbligano ad assicurare il rispetto delle sentenze dei Tribunali; ciò implica, se necessario, un uso proporzionato della forza, anche a costo di disordini.»
Puigdemont, i suoi sodali e una considerevole parte dei cittadini catalani hanno sfidato gli ordini della Costituzione e della Corte costituzionale. Hanno commesso reati gravi: ribellione, sedizione, malversazione, secondo quanto stabilito dalla legge dello Stato. L'intervento della forza pubblica non era solo necessario: era dovuto, a tutela di tutti i cittadini spagnoli. E, ovviamente, è stato proporzionato: perquisizioni, sequestri, contenimento delle proteste e delle opposizioni (anche violente) dei secessionisti. Proprio come avviene per qualsiasi fatto criminoso. Proprio come è avvenuto nel grande Paese democratico di Kennedy.
Tuttavia non si deve ignorare un ultimo passaggio. L'Occidente civilizzato non conosce Paesi asserviti a brutali dittature o a occupazioni militari. Il rispetto della legge ed eventuali modifiche con metodi democratici sono strumenti più che sufficienti per garantire a tutti i cittadini il libero godimento di ogni loro diritto. E però questa valutazione può non essere condivisa, il che apre la strada ai tipici strumenti di creazione dello Stato, la guerra, la ribellione, la rivoluzione. Molti Stati moderni sono nati in questo modo o sono stati profondamente modificati nella loro struttura: gli Stati Uniti, la Francia, la Russia, perfino l'Italia. E nessuno ne disconosce oggi la legittimità. Naturalmente c'è un presupposto indefettibile: guerra e rivoluzione devono avere successo; in mancanza di che continuano ad applicarsi le leggi dello Stato preesistente e i rivoluzionari divengono tecnicamente ribelli e delinquenti. Dunque Puigdemont e soci, evidentemente, pensavano che la loro rivoluzione avrebbe avuto successo; e che la loro sfida all'ordine costituito li avrebbe trasferiti dall'area dell'illegalità a quella della legittimità. Non c'è chi non veda l'inconsistenza di una diagnosi politica di questo tipo; ne consegue un giudizio impietoso sulle loro doti di statisti.
Giudizio che diviene ancora più severo alla luce del comportamento tenuto all'indomani del fallimento: fuga ignominiosa. Nelson Mandela coronò la sua rivoluzione dopo 20 anni di carcere; Mahatma Gandhi combatté la sua battaglia anche dopo essere stato arrestato e frustato dagli inglesi; Giuseppe Mazzini e Antonio Gramsci testimoniarono la validità delle loro idee con anni di carcere. Questi gnomi catalani strepitano e pontificano dal basso di una comoda latitanza. C'è quanto basta per valutare la validità delle loro figure politiche e delle idee che professano.




