
Secondo l'ex direttore di un Centro, collaboratore dell'Oms, «quando se ne parlava la cosa non veniva presa seriamente».Fin dai primi giorni dell'epidemia da Covid-19 in Italia era apparso chiaro che il nostro Paese non disponeva di alcun piano di preparazione e risposta ad un evento pandemico. A tutti era apparso chiara l'impreparazione, il disorientamento, la confusione con cui si cercava di reagire ai primi casi del nuovo coronavirus che aveva già provocato un'estesa epidemia in Cina. La mancanza di attribuzione immediata dei ruoli tra istituzioni, l'assenza di scorte di dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario, la mancanza di preparazione dei medici, l'afflusso indiscriminato dei malati ai pronto soccorso, l'assenza di percorsi specifici per i malati Covid negli ospedali, la mancanza di posti letto e di ventilatori nelle terapie intensive, la mancata assegnazione di zone rosse, l'arbitrarietà delle cure mediche prestate, hanno inciso profondamente sulla morbilità e la mortalità dell'epidemia nel nostro Paese. Perché l'Italia avrebbe dovuto avere un piano pandemico? Perché a cominciare dai primi anni di questo secolo, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sollecitava gli Stati membri a dotarsi di un piano organizzativo per far fronte a un'eventuale, ma molto probabile pandemia influenzale. Nel mio ruolo di direttore del centro collaboratore Oms per la Travel medicine, carica che ho ricoperto dal 1988 al 2008 (5 mandati quadriennali) ho partecipato a vari incontri al Ministero finalizzati alla predisposizione delle basi di un piano pandemico, ma in ognuna delle circostanze avevo notato come la cosa non fosse presa troppo seriamente dagli stessi funzionari del Ministero. Il rapporto del centro Oms di Venezia, collegato all'Ufficio regionale dell'Oms con sede a Copenaghen, aveva sottolineato che il piano del 2006 non era stato mai aggiornato, meno che mai nel periodo 2014-2017 durante i quali l'attuale assistent director general dell'Oms, Ranieri Guerra, era direttore generale della Prevenzione al ministero della Sanità. Ma questo piano non era stato colpevolmente aggiornato anche negli anni precedenti e successivi, quando altri funzionari hanno ricoperto quel ruolo. Poi nessuno finora ha messo in evidenza le responsabilità politiche di tale mancanza, la responsabilità cioè dei ministri della Sanità che si sono succeduti dal 2006 ad oggi. Nessuno o nessuna di loro è stato chiamato/a a rispondere per tale grave inadempienza.Viene da chiedersi ora perché l'Oms che aveva in modo lungimirante prevista una pandemia, anche se influenzale e non da coronavirus, abbia compiuto così tanti errori nella gestione della pandemia da Covid-19. Il motivo sta nel fatto che l'Oms almeno fin dal 2006, da quando cioè la cinese Margaret Chan ha assunto il ruolo (ricoperto fino al 2017) di direttore generale, è un'agenzia in cui la Cina ha un'influenza preponderante. Il direttore generale successivo, l'etiope Tedros Gebrayesus, è stato eletto grazie all'azione diplomatica della Cina e persegue una politica filocinese. La Cina utilizza l'Oms per accrescere il suo potere e il suo prestigio e la sua influenza sui Paesi del terzo mondo, specie africani. L'Oms non ha mai criticato la Cina per i ritardi con cui ha comunicato quando, dove e come è iniziata in Cina l'epidemia da Covid-19. Tale ritardo è stato di fondamentale importanza per la diffusione dell'epidemia e della sua trasformazione in pandemia. Si ricorderà come la Cina abbia chiuso la Città di Wuhan e la provincia dell'Hubei solo verso la fine di gennaio dopo aver lasciato uscire almeno 5 milioni di abitanti che nel frattempo hanno diffuso il contagio in tutto il mondo. Di fronte ad una situazione di simile gravità, l'Oms invia in Cina una sua delegazione di esperti solo alla fine di febbraio 2020, non subito come si usa abitualmente. Perché? È stato per negligenza o perché la Cina ha impedito loro l'invio della delegazione? Il rapporto che l'Oms redigerà dopo il sopralluogo sarà un elogio sperticato di come la Cina abbia gestito la pandemia e di come si sia adoperata per limitarne la diffusione globale, capovolgendo la verità dei fatti. L'Oms si è spesso contraddetta sull'importanza dell'uso delle mascherine, della distanza, dei tamponi per la ricerca dell'Rna virus. Molto ambigua è stata anche la posizione dell'Oms in merito all'origine del virus. Si sa che a fine maggio vi è stato un incontro tra alcuni funzionari Oms ed esperti cinesi per mettere a punto un programma di lavoro finalizzato alla ricerca dell'origine del virus a cui solo mesi dopo è seguito un altro incontro in remoto. Troppo poco. Viene da chiedersi infine perché la politica così spudoratamente filocinese non sia stata sufficientemente criticata dagli Stati membri. Forse per non inimicarsi la Cina? Sappiamo che il nostro Paese ha recentemente elargito dieci milioni di euro all'Oms oltre al budget annuale. È stato solo per il video spot Oms dove veniva elogiata l'Italia per la sua risposta al Covid? Non credo. Forse è perché non è stata fatta finora un'analisi seria del ruolo dell'Oms in questa pandemia. Eppure non può finire così. L'Oms deve sottoporsi seriamente a una critica severa del proprio operato e gli attuali dirigenti devono rassegnare le dimissioni per lasciare che l'Oms diventi una organizzazione internazionale indipendente. Durante questa emergenza sanitaria internazionale abbiamo compreso come vi sia l'assoluta necessità di una leadership sanitaria internazionale, ma di una leadership di grande spessore scientifico e di assoluta imparzialità politica.Walter Pasini, Direttore Centro di Travel medicine and global health, già direttore Centro collaboratore Oms per la Travel medicine
(Arma dei Carabinieri)
Ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 19 persone indagate per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro. Con l’aggravante del metodo mafioso.
Questa mattina, nei comuni di Gallipoli, Nardò, Galatone, Sannicola , Seclì e presso la Casa Circondariale di Lecce, i Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce hanno portato a termine una vasta operazione contro un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti che operava nella zona ionica del Salento. L’intervento ha mobilitato 120 militari, supportati dai comandi territoriali, dal 6° Nucleo Elicotteri di Bari Palese, dallo Squadrone Eliportato Cacciatori «Puglia», dal Nucleo Cinofili di Modugno (Ba), nonché dai militari dell’11° Reggimento «Puglia».
Su disposizione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lecce, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia, sono state eseguite misure cautelari di cui 7 in carcere e 9 ai domiciliari su un totale di 51 indagati. Gli arrestati sono gravemente indiziati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, rapina con armi, tentata estorsione, incendio, lesioni personali aggravate dalla deformazione dell’aspetto e altro, con l’aggravante del metodo mafioso.
Tutto è cominciato nel giugno del 2020 con l’arresto in flagranza per spaccio di stupefacenti avvenuto a Galatone di un giovane nato nel 1999. Le successive investigazioni avviate dai militari dell’Arma hanno consentito di individuare l’esistenza di due filoni parallel ed in costante contatto, che si spartivano le due principali aree di spaccio della zona ionica del Salento, suddivise tra Nardò e Gallipoli. Quello che sembrava un’attività apparentemente isolata si è rivelata ben presto la punta dell’iceberg di due strutture criminali ramificate, ben suddivise sui rispettivi territori, capaci di piazzare gradi quantitativi di droga. In particolare, l’organizzazione che operava sull’area di Nardò è risultata caratterizzata da una struttura verticistica in grado di gestire una sistematica attività di spaccio di stupefacenti aggravata dal tipico ricorso alla violenza, in perfetto stile mafioso anche mediante l’utilizzo di armi, finalizzata tanto al recupero dei crediti derivanti dalla cessione di stupefacente, quanto al controllo del territorio ed al conseguente riconoscimento del proprio potere sull’intera piazza neretina.
Sono stati alcuni episodi a destare l’attenzione degli inquirenti. Un caso eclatante è stato quando,dopo un prelievo di denaro presso un bancomat, una vittima era stata avvicinata da alcuni individui armati che, con violenza e minaccia, la costringevano a cedere il controllo della propria auto.
Durante il tragitto, la vittima veniva colpita con schiaffi e minacciata con una pistola puntata alla gamba destra e al volto, fino a essere portata in un luogo isolato, dove i malviventi la derubavano di una somma in contanti di 350 euro e delle chiavi dell’auto.
Uno degli aggressori esplodeva successivamente due colpi d’arma da fuoco in direzione della macchina, uno dei quali colpiva lo sportello dal lato del conducente.
In un'altra circostanza invece, nei pressi di un bar di Nardò, una vittima era stata aggredita da uno dei sodali in modo violento, colpendola più volte con una violenza inaudita e sproporzionata anche dopo che la stessa era caduta al suolo con calci e pugni al volto, abbandonandolo per terra e causandogli la deformazione e lo sfregio permanente del viso.
Per mesi i Carabinieri hanno seguito le tracce delle due strutture criminose, intrecciando intercettazioni, pedinamenti, osservazioni discrete e perfino ricognizioni aeree. Un lavoro paziente che ha svelato un traffico continuo di cocaina, eroina, marijuana e hashish, smerciati non solo nei centri abitati ma anche nelle località marine più frequentate della zona.
Nell’organizzazione, un ruolo di primo piano è stato rivestito anche dalle donne di famiglia. Alcune avevano ruoli centrali, come referenti sia per il rifornimento dei pusher sia per lo spaccio al dettaglio. Altre gestivano lo spaccio e lo stoccaggio della droga, controllavano gli approvvigionamenti e le consegne, alcune avvenute anche alla presenza del figlio minore di una di loro. Spesso utilizzavano automobili di terzi soggetti estranei alla compagine criminale con il compito di “apripista”, agevolando così lo spostamento dello stupefacente.
Un’altra donna vicina al capo gestiva per conto suo i contatti telefonici, organizzava gli incontri con le altre figure di spicco dell’organizzazione e svolgeva, di fatto, il ruolo di “telefonista”. In tali circostanze, adottava cautele particolari al fine di eludere il controllo delle forze dell’ordine, come l’utilizzo di chat dedicate create su piattaforme multimediali di difficile intercettazione (WhatsApp e Telegram).
Nell’azione delle due strutture è stato determinante l’uso della tecnologia e l’ampio ricorso ai sistemi di messaggistica istantanea da parte dei fruitori finali, che contattavano i loro pusher di riferimento per ordinare le dosi. In alcuni casi gli stessi pusher, per assicurarsi della qualità del prodotto ceduto, ricontattavano i clienti per acquisire una “recensione” sullo stupefacente e quindi fidelizzare il cliente.
La droga, chiamata in codice con diversi appellativi che ricordavano cibi o bevande (come ad es. “birra” o “pane fatto in casa”), veniva prelevata da nascondigli sicuri e preparata in piccole dosi prima di essere smerciata ai pusher per la diffusione sul territorio. Un sistema collaudato che ha permesso alle due frange di accumulare ingenti profitti nel Salento ionico, fino all’intervento di oggi.
Il bilancio complessivo dell’operazione è eloquente: dieci arresti in flagranza, il sequestro di quantitativi di cocaina, eroina, hashish e marijuana, che avrebbero potuto inondare il territorio con quasi 5.000 dosi da piazzare al dettaglio.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha ritenuto gravi gli elementi investigativi acquisiti dai Carabinieri della Compagnia di Gallipoli, ha condiviso l’impostazione accusatoria della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, emettendo dunque l’ordinanza di custodia cautelare a cui il Comando Provinciale Carabinieri di Lecce ha dato esecuzione nella mattinata di oggi.
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