2020-07-18
I giudici si inventano il salvacondotto del Covid per accogliere tutti
Il tribunale di Napoli dà la protezione umanitaria a un pakistano perché «in patria rischierebbe la salute». Ma così si apre a flussi senza fine, in particolare dall'Africa.In questi giorni non sono mancate le polemiche per gli extracomunitari malati di Covid giunti in Calabria e Sicilia. Per esempio a Roccella Jonica, su 70 pachistani, 28 sono risultati positivi. Un'altra quarantina di contagiati sono stati isolati presso la Croce rossa di Jesolo (Venezia). Ma in pochi sanno che il coronavirus non cagiona solo quarantene o respingimenti, ma è anche diventato un passepartout per rimanere in Italia. Una corte del tribunale di Napoli il 25 giugno scorso ha infatti stabilito che un cittadino pachistano ha diritto al riconoscimento della protezione umanitaria perché nella regione del Punjab, da cui proviene, il virus si sta diffondendo rapidamente e le locali strutture sanitarie non sono all'altezza.Come è facile intuire, con questa logica potrebbero spalancarsi le frontiere per gli abitanti di molti altri Paesi asiatici, come India e Bangladesh. Proprio da Dacca sembra che siano sbarcate a Roma nel mese di luglio decine di persone infette grazie a certificati medici falsi. Ma è ancora più evidente che l'intera Africa, in balia dell'epidemia, non abbia ospedali all'altezza. E allora? Bisogna accogliere tutti? L'esperienza della scorsa primavera ci insegna che a mettere alle corde il sistema sanitario nazionale è bastata l'ondata di malati autoctoni. Figuriamoci se avessimo dovuto assistere anche i contagiati di altri continenti. Ma persino pensare di trasformare il nostro Paese in un hub in cui accogliere temporaneamente chi fugge dal virus pare illogico, dal momento che siamo ancora uno degli Stati sotto osservazione e che ogni giorno facciamo il conto con nuovi contagi e morti. Torniamo alla sentenza. A emetterla è stato il collegio presieduto da Marida Corso della tredicesima sezione civile del Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione umanitaria e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea. Il cittadino pachistano ha fatto ricorso contro la commissione territoriale del ministero dell'Interno che nel 2018 gli aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale. Il pm ha chiesto il rigetto del ricorso, mentre la commissione ministeriale non si è costituita nella controversia per difendere le proprie ragioni. Nelle 11 pagine di motivazione del decreto i giudici ammettono che dagli atti non emerge «alcun credibile e fondato rischio di persecuzione, né il rischio di grave danno» per il ricorrente nel suo Paese d'origine. Infatti la versione del giovane ha mostrato subito molte lacune. Per esempio ha raccontato che la sua famiglia ha dovuto convertirsi allo sciismo dal wahabismo in tempi abbastanza recenti per evitare problemi nel proprio villaggio e che per questo lui stesso sarebbe stato minacciato dagli wahabiti e ferito da alcuni di loro in una colluttazione. Ma dopo aver fatto questo racconto il giovane si è contraddetto, riferendo che il padre si era convertito prima della sua nascita, essendo rimasto affascinato dalla lettura dei testi sacri dello sciismo. Messo di fronte alle discrepanze di quanto affermato, aveva dichiarato «di non essersi spiegato bene in precedenza» e che i suoi parenti vivono nel loro villaggio senza problemi. Così nel decreto si legge che «le dichiarazioni del ricorrente non appaiono credibili né coerenti, come condivisibilmente ritenuto dalla commissione e le ragioni della conversione (…) sono radicalmente diverse all'interno del verbale». E, quindi, l'unico episodio di violenza «ove realmente verificatosi (…) può ritenersi del tutto isolato e privo del connotato della gravità necessario per il riconoscimento dello status di rifugiato». Pure dal punto di vista dell'instabilità e del rischio terrorismo, il collegio evidenzia, «il consistente calo degli attentati e delle vittime nella regione del Punjab». Sino a questo punto la corte dà l'impressione che il ragazzo possa tornare tranquillamente a casa propria. Ma ecco il colpo si scena. Il collegio decide di valutare «la sussistenza di condizioni di grave vulnerabilità in cui verrebbe a trovarsi il ricorrente in caso di rimpatrio, connesse a situazioni di insicurezza derivanti dalla pandemia di Covid 19 nel Paese d'origine, da bilanciarsi con l'integrazione conseguita in Italia attraverso i numerosi contratti di lavoro susseguitisi negli anni». Per questo i magistrati decidono di consultare le fonti internazionali per verificare quale sia lo stato della pandemia in Pakistan. «Nel caso di specie» scrivono, «emerge che la pandemia da Covid 19 ha assunto una situazione di rilevante gravità, cui il sistema sanitario pachistano non appare capace di far fronte». I giudici ci informano che in Pakistan a maggio c'erano oltre 42.000 positivi e quasi 12.000 persone ricoverate, con circa 900 decessi. Un numero esiguo se confrontato con i nostri 35.000 morti. Eppure le toghe mettono in evidenza «un'enorme concentrazione di casi nel Punjab (15.346)». Anche qui il paragone con l'Italia è abbastanza impietoso: infatti il Punjab (che ha una superficie di 205.000 km quadrati, ovvero due terzi dell'Italia) ha 110 milioni di abitanti e, quindi, un contagiato ogni 7.100 abitanti, mentre in Italia, dove ci sono circa 12.500 casi positivi, l'incidenza è di un malato ogni 4.800 abitanti. Eppure da noi la situazione adesso è considerata praticamente sotto controllo.Il collegio ha esaminato anche il sistema sanitario pachistano ed è arrivato a questa conclusione: «Nella sanità pachistana sempre più commerciale hanno avuto sempre più diffusione ospedali, cliniche, farmacie moderne e laboratori diagnostici privati. A causa di questo orientamento commerciale, i servizi sanitari per i poveri sono diventati scarsi (…) i servizi di assistenza primaria sono scadenti, specialmente nelle zone rurali». Dove il 65 per cento degli abitanti non avrebbe «accesso alle strutture sanitarie di base e a servizi sanitari di qualità». Le toghe fanno anche i conti e ci informano che in Pakistan ci sono 35 ospedali Covid, evidentemente considerati insufficienti. Ed ecco la clamorosa decisione: «Orbene, alla luce dell'estensione dell'epidemia di coronavirus in Pakistan e delle gravi carenze del servizio sanitario pubblico, e in particolare nella regione del Punjab, ritiene il collegio che la domanda di protezione umanitaria possa essere accolta perché il rientro in patria in questo momento porrebbe il ricorrente in condizione di estrema vulnerabilità mentre egli risulta integrato nel territorio nazionale». La possibile conseguenza per tutti i migranti che non hanno diritto allo status di rifugiato, ma svolgono qualche lavoretto in Italia e provengono da Paesi in cui il coronavirus è diffuso e gli ospedali non sono all'altezza (la situazione di quasi tutti gli Stati africani e di buona parte di quelli asiatici e sudamericani) rischia di essere un effetto green card. Senza contare che in base alla filosofia che ha ispirato questa decisione, anche chi sbarca in Italia per la prima volta potrebbe rivendicare il diritto alla salute e ottenere la protezione umanitaria.