- La procreazione assistita è nata per preservare la fertilità ma oggi è diventata un costoso vezzo da condividere sui social.
- Il ginecologo e professore alla Cattolica: «Nei nascituri aumentano le probabilità di malattie oncologiche e malformazioni. Il 30% delle coppie si separa per la frustrazione che deriva dall’altro grado di insuccesso».
La procreazione assistita è nata per preservare la fertilità ma oggi è diventata un costoso vezzo da condividere sui social.Il ginecologo e professore alla Cattolica: «Nei nascituri aumentano le probabilità di malattie oncologiche e malformazioni. Il 30% delle coppie si separa per la frustrazione che deriva dall’altro grado di insuccesso».Lo speciale contiene due articoliSono benefit nei piani di welfare di molte imprese, i percorsi di procreazione medicalmente assistita (Pma). Ma varie aziende, a partire da big tech come Google, Microsoft, Facebook e Apple, oltre a rimborsare ad aspiranti genitori visite, esami e farmaci, si prodigano a pagare, alle giovani dipendenti, il social freezing, cioè le spese per prelevare, negli anni di massima fertilità, gli ovociti e crioconservarli in modo che possano scegliere il momento più opportuno per avere un figlio. Ma la vera motivazione di tale larghezza non è propriamente la promozione della maternità. Lo slogan che ha fatto decollare l’operazione, una decina di anni fa, in America, è Freeze your eggs, free your career (congela i tuoi ovociti e libera la tua carriera).Così, una metodologia nata per preservare la fertilità in caso di trattamenti che potrebbero comprometterla, come la chemioterapia, o per un naturale impoverimento della riserva ovarica, è diventato un benefit come i buoni pasto ma anche un regalo per il compleanno. La modella Bianca Balti ha, infatti, annunciato sui social di voler regalare alla figlia, per i 21 anni, la procedura per il social freezing, così definita per distinguerla dal congelamento per motivi sanitari. Peccato che le tecniche di Pma, che già non brillano per successo - nel 2022 il tasso di gravidanza ogni 100 trasferimenti eseguiti è arrivato al 32,9% ed era il 16,3% del 2005 - vedono crollare le percentuali di efficacia quando si utilizzano ovociti di donne con più di 36 anni.Purtroppo in questi 20 anni, dicono i dati dell’Istituto superiore di sanità, l’età media delle donne che si sottopongono a cicli di Pma, in Italia, è passata da 34 anni, nel 2005, a 37 nel 2022 e la quota delle over 40 dal 20,7%, è arrivata al 34%. Si spiega così il crescente ricorso all’eterologa, cioè all’impiego di ovociti donati da giovani donne, quindi con Dna esterno alla coppia, da cui ottenere embrioni da impiantare nell’attempata madre perché, tutto sommato, spiegano i clinici, l’utero invecchia meno velocemente. Non mancano, poi, le quarantenni che, in assenza di partner, ricorrono alla Pma utilizzando il seme di un donatore sconosciuto. Qualsiasi combinazione è possibile: dalle madri single che mettono al mondo un figlio già orfano di padre sconosciuto, fino alla surrogata, procedura diventata reato universale in Italia. La deriva della genitorialià, fuori da un contesto etico, rischia di far diventare un figlio un benefit, ignorando tutta una serie di realtà sociali, affettive e biologiche in nome di una fiducia esagerata in una tecnologia dai molti limiti.Il ricorso alla Pma che dovrebbe curare l’infertilità - condizione che interessa solo il 10-15% delle coppie - in Italia è quasi triplicata in vent’anni, passando dai 37.257 cicli iniziati nel 2005 ai 92.407 nel 2021 (dati Iss). Anche le procedure per preservare le fertilità congelando gli ovociti è in aumento del 25-30% dal 2016, a livello globale. In Italia, i dati più recenti del gruppo specializzato in medicina della riproduzione Genera, pubblicati sulla rivista Fertility and sterility e relativi a otto cliniche, segnalano un aumento di circa il 20% anno su anno. «Nelle donne più giovani, quindi fino a 35 anni», spiega il primo autore della ricerca Danilo Cimadomo, «le probabilità cumulative di nati sono comprese fra il 70% con 15 ovociti prelevati e congelati (considerato il numero ottimale) e il 95% con 25 ovociti. Ma ci sono comunque chance di gravidanza comprese tra il 30% e il 45% nel caso in cui vengano vitrificati 8-10 ovociti».Oltre la soglia dei 35 anni, continua il ricercatore, «il numero di ovociti necessari per raggiungere la gravidanza è chiaramente maggiore, rendendo la procedura di preservazione la fertilità» a -196 gradi «più impegnativa». Ovviamente, per normalizzare questa pratica ci sono anche influencer come Veronica Ferraro che ha organizzato una diretta su Instagram con Daniela Galliano, ginecologa specializzata in medicina della riproduzione, responsabile del Centro Pma di Ivi Roma, che la sta seguendo nel percorso di fecondazione assistita. Nella diretta è stata spiegata la differenza tra la Fivet, la fecondazione in vitro a cui si sottoporrà l’influencer, nella quale si lascia che gli spermatozoi e gli ovociti abbiano un incontro spontaneo, e l’Icsi dove, invece, è l’embriologo a iniettare lo spermatozoo nell’ovocita, oltre a chiarire la tecnica dell’egg freezing. «Dopo 10-12 giorni di stimolazione ormonale tramite delle iniezioni sottocutanee per indurre la crescita dei follicoli ovarici, Veronica si sottoporrà a breve al pick-up ovocitario», spiega nel video la Galliano. «Un prelievo poco invasivo con una leggera sedazione e che durerà una decina di minuti». Sulla stimolazione ormonale solo rassicurazioni: «Viene fatta anche su pazienti oncologiche, prima che inizino trattamenti di chemioterapia». L’identikit di chi oggi fa social freezing? Donne tra i 30 e 40 anni di un ceto socioeconomico medio-elevato, per via del costo, pari a circa 4.000 euro, a cui si devono sommare i circa 200 da versare annualmente alla biobanca. Donne separate con figli che, intorno ai 40 anni, desiderano un figlio con il nuovo compagno, attingendo alla loro riserva, potrebbero aggirare l’orologio biologico.Anche le tecniche più sofisticate, però, hanno il più alto margine di efficacia quando applicate negli anni di massima fertilità. A 40 e 50 anni, per quanto una si senta giovane, la probabilità di successo crolla. Per arrivare a percentuali più elevate si utilizza, allora, un numero elevato di ovociti, spesso donati, quindi si ricorre all’eterologa e si selezionano gli embrioni da impiantare, crioconservando gli altri, nella migliore delle ipotesi, mentre non è noto cosa accada ai «poco vitali». I problemi etici non sarebbero pochi e nemmeno secondari, ma ci si guarda bene dal segnalarli. Le tecniche di Pma che utilizzano gameti donati sono aumentate dai 246 cicli del 2014, pari allo 0,3%, ai 15.131 cicli del 2022 (13,8%). Attualmente in Italia si impiegano ovuli che arrivano dalla Spagna dove l’ovodonazione è incentivata nelle ragazze universitarie che donano 3-4 volte in cambio di un rimborso di circa 900 euro: non tanto, ma abbastanza per non essere una donazione. Anche il 75% dello sperma in Italia arriva da banche del seme straniere e la scelta del donatore viene fatta in base a un corrispondenza somatica, ma nessuno si azzardi a osservare che scegliere il padre da un catalogo svilisce il concetto di figlio come dono ed espressione di trasmissione di amore e vita di una coppia.In tempi di inverno demografico, la fede cieca in una tecnologia dai molti limiti illude che si possa avere un figlio quando si vuole, per appagare un desiderio personale, a prescindere dal contesto affettivo-biologico, relazionale e dell’età, sottovalutando aspetti sulla salute propria, del nascituro, ma anche dei suoi diritti, in nome dei propri, utili per sopprimerlo, se arriva in tempi sbagliati o non è perfetto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-falsi-miti-della-pma-un-figlio-a-tutti-i-costi-e-un-benefit-di-lusso-2669489617.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="vengono-abortiti-milioni-di-embrioni-donne-e-ragazze-a-rischio-tumore" data-post-id="2669489617" data-published-at="1730020064" data-use-pagination="False"> «Vengono abortiti milioni di embrioni. Donne e ragazze a rischio tumore» La correttezza del consenso informato è uno dei problemi psicosociali non secondari legati alla procreazione medicalmente assistita (Pma). A ogni ciclo di trattamento la probabilità che nasca un bambino è del 9,25%. «Sono i dati del ministero della Salute su ovociti trattati a fresco e confermati nel 2023 anche dal 9,9% dell’Eshre, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia», spiega alla Verità Giuseppe Noia, ginecologo, professore di medicina prenatale all’Università Cattolica Sacro Cuore. «L’età, naturalmente, è un fattore rilevante: quando si superano i 40 anni il valore è dall’8% al 4,4% e crolla all’1,7% dopo i 43 anni». Non è secondario che il 37% delle donne che accede alla Pma abbia più di 40 anni. Sugli effetti di tali terapie sulla donna, il nascituro, il padre e la coppia si parla poco e in maniera non corretta, e ancor meno, sul destino degli embrioni. Nell’ultima relazione del ministero, una sintesi di Aigoc, Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici, curata da Angelo Francesco Filardo sui dati aggiornati al 2021, registra la nascita di 11.722 bambini, ma sono i figli di solo il 16,9% delle coppie trattate. E gli embrioni? A vent’anni dalla legge 40, per i quasi 160.000 nati con Pma, circa 1,8 milioni sono stati sacrificati e, nei freezer, ne sono conservarti circa 170.000 a cui si dovrebbero aggiungere i circa 31.000 dell’eterologa per i 2.063 bimbi nati da 14.421 trasferimenti (21,5%). La tendenza è di prelevare 8 ovociti a ciclo, ma il 46,2% delle donne sospende il trattamento ormonale dopo il primo prelievo e quasi il 9% si ferma prima ancora. Come chiarisce Noia, «l’iperstimolazione ovarica, in una donna che ha uno sbilanciamento ormonale verso gli estrogeni e che in famiglia ha avuto una mamma o una zia con un tumore della mammella e i bombardamenti ormonali amplificano questo fattore di rischio oncologico. Questi rischi ci sono anche per le ragazze che fanno il trattamento per l’ovodonazione o il social freezing, legati soprattutto all’iperstimolazione ovarica. Il Bmc Pregnancy riporta, in uno studio del 2019, una serie di problemi gravi, statisticamente significativi di circa 3 volte superiore, di alterazioni dell’impianto placentare che portano quasi sempre a un alto tasso di parti cesarei». Quali rischi per il nascituro? «Partiamo dall’embrione. Studi internazionali mostrano che il 76% degli embrioni prodotti non viene trasferito e l’88% di quelli trasferiti non arriva alla nascita. Sono numeri importanti, non solo sul fronte etico, che le coppie devono sapere. Ci sono poi dati su malformazioni e nascita prematura. Uno studio di qualche anno fa mostra che l’incidenza di malformazioni è circa due volte superiore e che la paralisi cerebrale è 2.8 volte superiore rispetto a quelli concepiti naturalmente. La prematurità grave e la mortalità perinatale sono ambedue di 1.9 volte superiore. Per quanto riguarda gli effetti a distanza dei nati da Pma, sono stati segnalati una maggiore incidenza di ipertensione in adolescenza e dei profili metabolici (Diabetologia 2020, Fertility and sterility 2017). Nascere con Pma aumenta anche la probabilità di tumori nell’infanzia. Il rischio relativo (Hr) di cancro è 4,41 più alto e, in particolare, 1,68 volte più elevato per neoplasie del sistema nervoso e 1,39 maggiore per tumori solidi. Per la leucemia il valore è addirittura di 64,83 volte più grande». Come si spiega? «Un embrione che si forma naturalmente, sin da subito, nella tuba, è in comunicazione con la madre. Quelli formati in vitro vengono messi, invece, direttamente in utero. Mancano gli otto giorni di dialogo con la madre per sviluppare il meccanismo che impedisce all’embrione di essere riconosciuto estraneo dal sistema immunitario materno, avendo il 50% del Dna del padre. Fin da subito l’embrione è protagonista: nei primi otto giorni di vita, nella tuba, sopravvive senza ossigeno, dialoga con la madre per questioni immunitarie, per preparare l’impianto e, dopo l’impianto, manda addirittura cellule staminali alla madre per guarirla, se necessitasse. Nella Pma, soprattutto nel caso di ovodonazione, gli embrioni impiantati producono un fattore biologico che cerca di aiutarli ad attecchire creando però il problema della placenta accreta (placenta molto approfondita nella parete dell’utero) e tutto questo aumenta le complicanze emorragiche e il rischio di asportazione dell’utero». Come si scelgono gli embrioni da trasferire? «Viene fatta una classificazione in base alle loro caratteristiche biologiche. È una selezione che fa l’uomo, non la natura. Se si vuole quello perfetto o normale, si fa la diagnosi preimpianto: allo stadio di sviluppo di 8 cellule, se ne prelevano 3-4 per vedere se ci sono alterazioni cromosomiche o altre patologie. È uno screening selettivo e abortivo perché l’embrione può non sopravvivere all’esame. Le implicazioni etiche non sono secondarie». Qual è l’impatto della Pma nell’uomo e nella coppia? «La sofferenza delle coppie c’è ed è devastante, specie in quelle che hanno fatto sei-sette tentativi, a cui si aggiunge un impegno economico di migliaia di euro. L’incapacità di concepire crea una tale pressione sulla coppia che ne compromette la stabilità: il 30% si separa».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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