2019-04-12
I dubbi sulla fine «volontaria» di Alessandra
Nei carteggi fra la donna e Dignitas ci sono alcuni passaggi controversi, come quello in cui dalla Svizzera notano che una cura le ha giovato e chiedono conferme sul fatto che i dolori siano tornati e il male sia cronico. Il capo di Exit: «Ero felice per lei».Il fratello disperato: «Quando scoprii dov'era avvisai gli svizzeri che non era lucida, dovevano fermarsi. Confido nei magistrati».Il chirurgo: «La sindrome di Eagle si cura facilmente, l'eutanasia è impensabile».Lo speciale contiene tre articoli. Referti medici, carteggi, contratti, pagamenti. La mole di documenti in mano alla Procura di Catania è ormai imponente. Quella sulla morte assistita di Alessandra Giordano, 47 anni, insegnante di Paternò, non sembra un'inchiesta come tante. L'indagine, rivelata ieri dalla Verità, prosegue senza sosta. L'ipotesi di reato è induzione al suicidio. A breve, qualcuno potrebbe essere iscritto nel registro degli indagati. Alessandra è morta due settimane fa nella clinica svizzera Dignitas, la stessa di Dj Fabo. Lei però non era una paziente terminale. Era stata avvinta dalla depressione, che s'era mescolata alla sindrome di Eagle: una nevralgia che colpisce i legamenti, tra il collo e il cranio. Dolorosa. A volte invalidante. Ma non certo, reputano i magistrati, una malattia che può giustificare il suicidio assistito. E allora: qualcuno ha convinto Alessandra a mettere da parte ogni remora? Tra i documenti sequestrati dalla Procura di Catania ce n'è uno, tra gli altri, che ha fatto saltare sulla sedia gli investigatori. Un foglio. La fotocopia di un articolo scritto sulla newsletter di Exit: l'associazione italiana per il diritto a una morte dignitosa. Vent'anni di attività e rodate relazioni con la Dignitas. Lo scopo sociale è chiaro: promuovere l'eutanasia. In Italia ha 38.000 soci. Tra questi c'era anche Alessandra: tessera A4638, rilasciata il 5 febbraio 2018. Il primo contatto con Exit è però di qualche mese prima. Lo racconta proprio il presidente di Exit, Emilio Coveri, in articolo finito gli atti. Un pezzo del gennaio 2018, scritto sul «bollettino informativo» e inviato ai soci. Il numero si chiude con un racconto in prima persona. Lo scrive lo stesso Coveri: «È domenica 24 dicembre» esordisce. «Lei si chiama Alessandra e telefona da Paternò». Per i magistrati non ci sono dubbi: si riferisce alla donna morta il 27 marzo 2019 alla Dignitas. Il presidente di Exit riferisce allora i ai suoi lettori una storia che reputa paradigmatica: «Alessandra comincia subito a dirmi che è cattolica, ha una malattia, e ultimamente ha dovuto smettere di lavorare. È sola e i suoi parenti non accettano che lei voglia andare a morire in Svizzera… Andiamo avanti per tre quarti d'ora, dopo mi permette di spiegarle che cosa deve fare, appunto, per andare in Svizzera a morire “in esilio", ma con estrema dignità». Alessandra sembra perplessa. «Ogni tanto» prosegue l'articolo «lei mette davanti il fatto che è credente. Io replico che pure mia moglie è cattolica, e anche un po' leccabalaustre. Ma entrambi ci si rispetta perché l'eutanasia significa decidere per se stessi! E non per altri». Le sofferenze di Alessandra, continua il pezzo, sono indicibili e «non ha senso soffrire oltre misura!». Insomma, lascia intendere Coveri, lei sembrerebbe avere qualche titubanza. Ma la sofferenza, alla fine, sopravanza la fede. «E quindi s'iscriverà (a Exit, ndr) e mi domanderà come dovrà fare per andare a morire dignitosamente. Terminiamo la conversazione e decidiamo di darci del tu». Il commiato del presidente dell'associazione pro eutanasia è quasi euforico. Coveri è felice. Lo scrive lui stesso: «Mi sento felice quando metto giù la cornetta. Sento che, ancora una volta, ha prevalso la mia teoria: quella che la vita è nostra, di nessun altro, tantomeno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente e di tutta la sua banda». Alessandra, dunque, mette giù il telefono. Passano appena venti minuti, racconta sempre Coveri. E il presidente di Exit richiama l'insegnante siciliana. I due parlano un'altra ora, dettaglia l'uomo. Dopo quest'ennesima, lunga, telefonata le gli dice che è stanca. Ricorda Coveri: «Il suo saluto è fioco: “Ciao Emilio, a domani. Chiamami"». Già, a domani. E poi? Chissà. Intanto Alessandra matura la sua convinzione: di vivere non vale più la pena. La donna contatta la Dignitas. Nel mentre, continua le sue visite specialistiche. Il 19 marzo 2018 si fa visitare per la sindrome di Eagle. «La patologia presenta caratteristiche di cronicità» scrive lo specialista catanese «e compromette la qualità di vita della paziente». Il referto viene girato alla clinica svizzera. Che il 3 maggio 2018 scrive ad Alessandra, chiedendole alcuni documenti e un chiarimento: proprio su quel referto inviato due mesi prima. C'è un passaggio che perplime la struttura elvetica: «Una frase in cui il dottore spiega che, dopo tre giorni di trattamento infiltrativo, il dolore le è passato del tutto». Insomma, il dubbio sembra assalire la Dignitas: ma la sindrome non era cronica? Uno spartiacque diagnostico che forse potrebbe precludere l'eutanasia. La struttura elvetica, quindi, chiede ad Alessandra di far confermare al suo medico «che il dolore purtroppo è tornato o riapparirà imperterrito». Chiede poi alla donna di allegare i suoi referti medici. «Non appena la documentazione sarà completa» concludono «le manderemo la fattura per il contributo speciale di 4.000 franchi». Solo dopo, potranno partire le verifiche per la luce verde. Altri 7.000 franchi saranno poi versati per ottenere la «dolce morte». Totale: poco meno di 10.000 euro. Il 28 agosto 2018 Alessandra ottiene dunque la «luce verde provvisoria». La struttura elvetica scrive: «Un medico con cui collaboriamo è in principio disposto a prescriverle la ricetta». Dignitas però chiarisce: «Il giorno del suicidio assistito avremo bisogno di un suo referto medico recente, che non sia più vecchio di quattro mesi». Alessandra adesso è pronta. Si fa rivisitare il 14 novembre 2018. E il responso è sempre lo stesso: sindrome di Eagle. Ha deciso. All'inizio del 2019 volerà a Zurigo. E nella casetta color cobalto della Dignitas avrà il suo suicidio assistito. Ma i familiari riescono a fermarla. La fanno ricoverare per più di un mese a Paternò. Il pericolo sembra scampato. Invece il piano di Alessandra è solo rinviato. Prima però ha bisogno di un nuovo certificato, che confermi il suo male. Il 4 marzo del 2019 viene nuovamente visitata dal neurologo di fiducia: la nevralgia persiste, il dolore resta acuto, i movimenti complessi. La conclusione del medico è severa: «La patologia presenta caratteristiche di irreversibilità, con importante compromissione della qualità di vita della paziente». È questo il quadro clinico che, probabilmente, l'ha condotta sulla strada dell'eutanasia. La «dolce morte». Che però, a magistrati e famiglia, sembra più amara che mai. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-dubbi-sulla-fine-volontaria-di-alessandra-2634357354.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="supplicai-la-clinica-di-non-ammazzarla-mi-dissero-soltanto-le-faremo-sapere" data-post-id="2634357354" data-published-at="1761042899" data-use-pagination="False"> «Supplicai la clinica di non ammazzarla. Mi dissero soltanto “le faremo sapere”» Massimiliano Giordano è il fratello di Alessandra: la donna di 47 anni che, due settimane fa, ha deciso di volare da Catania a Zurigo per raggiungere la clinica Dignitas. Dove, all'insaputa di tutti i familiari, ha scelto di morire con il suicidio assistito. A Paternò, un paesone nei dintorni del capoluogo siciliano, la sorella e i tre fratelli di Alessandra non si danno pace. La depressione e la nevralgia di cui soffriva, spiegano, non possono giustificare un'eutanasia. Massimiliano, a nome dei Giordano, chiede adesso giustizia. Nel ricordo della sorella scomparsa: «Una donna bella, forte, determinata, sicura di sé, intraprendente e solare». Alessandra era un'insegnante. «Lavorava nella scuola primaria. È andata regolarmente in classe fino a due anni fa. Amava il suo lavoro. Gli alunni e i nipoti erano tutta la sua vita. E anche lei sognava una famiglia e dei figli». Che però non sono mai arrivati. «Si era sposata vent'anni fa. Ma poco dopo aveva divorziato». Quando ha cominciato a soffrire di depressione? «Nel 2008, circa: dopo la morte di nostro padre. Apparentemente sembra sia stata quella la causa scatenante. Ma probabilmente quel male di vivere dipendeva da altro». Da cosa? «Una più generale insoddisfazione esistenziale, che ha coltivato fino a prima di morire». La malattia come ha cambiato la sua vita? «Negli ultimi due anni non si muoveva da casa. Passava intere giornate a letto. Per le commissioni quotidiane dovevamo accompagnarla o sostituirla». E la sindrome di Eagle cui soffriva? «Era una nevralgia dolorosa. Che probabilmente l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. Ma di certo non si trattava di una malattia che può legittimare l'eutanasia». Prima di quel fatidico 27 marzo 2019 aveva provato a togliersi la vita? «Mai». Ha scelto di andarsene in una clinica vicino Zurigo, scegliendo l'eutanasia. «Aveva manifestato la volontà di non volere continuare a vivere. Voleva praticare il suicidio assistito. Nell'ultimo periodo della sua vita, ci ha chiesto persino di accompagnarla in Svizzera». E voi? «Ci siamo rifiutati, ovvio. Categoricamente. E abbiamo attivato il servizio di psichiatria dell'ospedale locale. È stato disposto un trattamento accertamento sanitario obbligatorio». Poi cos'è successo? «Alessandra è stata ricoverata a Paternò, per più di un mese: dal 19 gennaio all'1 marzo 2019». Era capitato altre volte? «Sì, questo è stato l'ennesimo intervento per la salute di Alessandra. E voglio precisare una cosa: noi l'abbiamo sempre seguita nel suo percorso di visite, cure e indagini diagnostiche». Come avete saputo che vostra sorella era partita per Zurigo? «Casualmente. Un amico di famiglia l'ha incontrata all'aeroporto. E aveva avvisato mia sorella Barbara inviandole un messaggio su Whatsapp. Lei però purtroppo l'ha visto solo quattro ore dopo…» Poi? «Barbara ha cominciato a chiamare Alessandra. Ma lei non rispondeva. Abbiamo cercato di capire dove fosse finita. Dopo varie peripezie, abbiamo capito: era a Zurigo». Conoscevate le sue intenzioni? «Sì, per questo abbiamo inviato una diffida alla Dignitas, intimandogli di non procedere al suicidio assistito. Alessandra era gravemente depressa, come attestava il certificato medico che allegavamo alla mail». E loro? «Nessuna risposta». Avete anche provato a telefonare alla clinica? «Sì, ma hanno glissato: “Vi faremo sapere". Così l'indomani abbiamo preso contatti con l'ambasciata Italiana in Svizzera. E siamo partiti per Zurigo». Invano. «Sono stati momenti di grande concitazione e d'infinita preoccupazione. Abbiamo fatto tutto il possibile, ma non è servito». Cosa si aspetta adesso? «Chiarezza e giustizia. Questo chiediamo alle autorità italiane ed elvetiche. Abbiamo bisogno di sapere cos'è successo. Mia sorella era sana. Non era una malata terminale. E non doveva morire in quel modo». Qualcuno potrebbe aver indotto il suicidio assistito? «Non lo sappiamo. Sarà la Procura di Catania ad accertarlo. Confidiamo fortemente nel lavoro dei magistrati. Noi vogliamo solo che si faccia chiarezza. Casi come quello di Alessandra non devono accadere mai più». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-dubbi-sulla-fine-volontaria-di-alessandra-2634357354.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="quella-signora-aveva-una-patologia-che-puo-risolvere-uno-specializzando" data-post-id="2634357354" data-published-at="1761042899" data-use-pagination="False"> «Quella signora aveva una patologia che può risolvere uno specializzando» La signora di 47 anni morta in Svizzera, oltre ad essere depressa soffriva della sindrome di Eagle. Non è una malattia rara, tutt'altro, è un disturbo dei legamenti che collegano il cranio all'osso ioide del collo. Tecnicamente si tratta della manifestazione dolorosa dell'allungamento del processo stiloideo, che è parte dell'osso temporale, punto di intersezione di alcuni muscoli del collo. Calcificandosi, il legamento stiloioideo provoca la sindrome e il paziente soffre di dolore alla gola, ha difficoltà nel deglutire o a parlare, presenta eccessiva salivazione. Può avvertire anche dolore alla regione auricolare, ma si tratta di «una patologia perfettamente risolvibile», come spiega il professor Pier Francesco Nocini, direttore della clinica odontoiatrica di chirurgia maxillo facciale e della relativa scuola di specializzazione presso la facoltà di medicina e chirurgia dell'Università di Verona. Professore, ma si può pensare di morire per la sindrome di Eagle? «No di certo, una persona non può chiedere l'eutanasia per una cronicizzazione di un processo infiammatorio, che nel paziente al quale sono state tolte le tonsille porta a un'ossificazione del legamento stiloioideo. Se la sindrome è sintomatica, cioè se il paziente ha dolori soprattutto nella deglutizione, viene eseguita un'incisione sul collo, lungo il muscolo sternocleidomastoideo e si rimuove il legamento ossificato». Il dolore cronico cervicale è insopportabile per chi soffre di questa malattia? «Ma no, sono solo dei fastidi. Una cura analgesica momentanea prima di essere operati aiuta il paziente. C'è anche chi non soffre affatto, ha solo difficoltà a deglutire». Dopo l'intervento il male cessa? «Certo, la sintomatologia sparisce e si risolve il problema. C'è anche un approccio intraorale, se l'ossificazione è molto importante, incidendo dall'interno. Un'incisione di 10 centimetri, bilateralmente. È uno degli interventi più semplici, lo eseguono i miei giovani specializzandi al terzo o quarto anno. La prima operazione al collo che faccio fare è per la sindrome di Eagle». Se il trattamento chirurgico è così semplice e se il dolore viene tolto, come è possibile una persona abbia cercato di morire per questa patologia? «Se uno vuole morire per la sindrome di Eagle hai dei grandissimi problemi psichiatrici. Non è una malattia cronica e la soluzione è chirurgica. Semplice e definitiva». Patrizia Floder Ritter