- I Paesi che l’hanno introdotta sono pure quelli dove i giovani hanno rapporti più precoci e più a rischio, come dimostra il maggior numero di malattie veneree e come riconoscono studiose tutt’altro che bigotte. E la violenza sulle donne non è diminuita.
- La follia di voler cambiare la natura. La lotta agli stereotipi di genere è ormai arrivata a negare le differenze tra maschile e femminile. Eppure perfino feti e neonati reagiscono diversamente in base al sesso.
I Paesi che l’hanno introdotta sono pure quelli dove i giovani hanno rapporti più precoci e più a rischio, come dimostra il maggior numero di malattie veneree e come riconoscono studiose tutt’altro che bigotte. E la violenza sulle donne non è diminuita.La follia di voler cambiare la natura. La lotta agli stereotipi di genere è ormai arrivata a negare le differenze tra maschile e femminile. Eppure perfino feti e neonati reagiscono diversamente in base al sesso.Lo speciale comprende due articoli.Le scuole non hanno fatto neppure tempo a ripartire che subito, implacabile, si è riaffacciato un tormentone: quello dell’urgenza dell’educazione sessuale. Ai primi di settembre Repubblica ha pubblicato un servizio di Valentina Lupia circa uno studio dell’Università La Sapienza sui questionari sottoposti a 842 studenti del liceo Ripetta, che dimostra come, quando si tratta di sesso, «i ragazzi si informano sui social o chiedono agli amici», mentre una recente indagine su 500 ragazzi tra 14 e i 17 anni condotta da Webboh Lab - osservatorio digitale dedicato alla generazione Z, in collaborazione con Farmitalia e l’istituto di ricerca Sylla, con direttore scientifico Furio Camillo - ha registrato come i giovani chiedano una educazione sessuale priva di tabù e ricca di confronto e informazione. Se a ciò si aggiunge che l’attrice e regista Paola Cortellesi - reduce dal grande successo del suo film C’è ancora domani - aveva definito «uno scandalo» il fatto che tale insegnamento non sia già previsto fin dalla scuola dell’infanzia, sembrano davvero non esserci più dubbi sull’urgenza dell’educazione sessuale nella didattica italiana.Peccato che, se da noi queste lezioni tanto importanti ancora non ci sono, all’estero risultano invece offerte da decenni ed abbiano dato - circa la loro efficacia - esiti nella migliore delle ipotesi dubbi, sia sul fronte preventivo delle malattie sessualmente trasmissibili sia su quello del contenimento della violenza di genere. Iniziando con il primo versante, i riscontri emersi dalla letteratura sono addirittura controintuitivi: chi segue corsi di educazione sessuale, rispetto agli altri, tende ad anticipare l’età del primo rapporto, ad averne con maggiore frequenza e ad adottare comportamenti sessualmente maggiormente a rischio. Per quanto possa apparire paradossale, questo è talmente vero che nel Regno Unito, come messo in evidenza da uno studio uscito nel 2017 sul Journal of Health Economics, si è verificato un fenomeno inatteso: quello che ha visto i tassi di gravidanza tra le adolescenti diminuire nelle aree del Paese più colpite dai tagli governativi alla spesa per l’educazione sessuale. In questo modo, si è confermato quanto in realtà già dieci anni prima faceva osservare sul British Medical Journal Trevor Stammers, medico e bioeticista: «Contrariamente a quanto si possa pensare, invece di migliorare la salute sessuale, interventi di educazione sessuale possono peggiorare la situazione». Più recentemente, nel 2019, Irene H. Ericksen e Stan E. Weed hanno effettuato su Issues in Law & Medicine una revisione globale dei 106 studi condotti sull’educazione sessuale a livello globale - 60 statunitensi e 43 non statunitensi – scoprendo che di essi «solo sei hanno dato prove di reale efficacia», anche se non c’è stata per esempio «alcuna prova di successo nell’aumentare l’uso costante del preservativo [...] nessun successo nel ridurre le malattie sessualmente trasmissibili e solo uno studio ha mostrato una certa efficacia nel ridurre le gravidanze adolescenziali». Ora, uno può pensare che comunque sei studi su 106 siano meglio di nulla, anche se al «nulla» somigliano parecchio. Il fatto è che Ericksen e Weed fanno notare pure altre due cose. La prima: praticamente tutte le già scarsissime prove a favore dell’efficacia dell’educazione sessuale «provenivano da studi condotti dagli sviluppatori dei programmi, anziché da valutatori indipendenti». La seconda: i soli sei studi che hanno trovato qualche prova di efficacia dell’educazione sessuale risultano contrastati «in modo netto da 16 studi che hanno rilevato effetti negativi sulla sessualità degli adolescenti, sulla loro salute e sui comportamenti a rischio». Insomma, le lezioni che oggi i progressisti italiani richiedono a gran voce, se dall’altro hanno senz’altro un costo per i contribuenti, dall’altro risultano di utilità quanto meno dubbia, se non perfino controproducenti. La faccenda è talmente seria che la scorsa primavera un’autrice come Kathleen Stock - accademica che non può esser tacciata di bigottismo, essendo una femminista lesbica «con moglie» e figli - ha pubblicato un intervento, eloquentemente intitolato «The agony of sex education», per dire che «se l’educazione sessuale scolastica abbia successo o meno» in realtà «nessuno lo sa più veramente», con il risultato che l’idea di assicurarsi che i giovani «finiscano per ripetere a pappagallo tutte le opinioni» ritenute corrette sulla materia pare più una priorità degli adulti «che loro». Certo, uno può sempre ribattere che però un conto è l’educazione sessuale in senso stretto, un altro è quella contro la violenza di genere. Sfortunatamente, però, anche di quest’ultima mancano prove di reale efficacia.A dirlo, ancora una volta, è la letteratura. Una ricerca uscita nel 2020 sulla rivista Trauma, Violence & Abuse a firma di due accademiche, Madeline Schneider e Jennifer S. Hirsch della Columbia University, ha per esempio riportato che sì, l’educazione sessuale «ha il potenziale» - dato che mira a promuovere «relazioni sane» - per arginare la «violenza sessuale», ma gli stessi specialisti dell’argomento non hanno identificato «alcun lavoro pubblicato fino ad oggi che valutasse l’impatto dell’educazione sessuale sulla violenza sessuale». Esaminando la situazione americana, tutto ciò che sempre nel 2020, in un articolo apparso sul Byu Education & Law Journal, Brittney Herman è riuscita a notare è che negli Stati dove l’educazione sessuale è presente i tassi di stupro risultano più contenuti, ma «chiaramente, dato l’ampio numero e la varietà di fattori» che stanno dietro agli stupri e alle aggressioni sessuali «non è chiaro» - ammette la stessa Herman - se questi legami siano «causali o di correlazione». Insomma, ancora nessuna prova dell’utilità dell’educazione sessuale nel contrasto alle violenze di coppia. Al momento quel che c’è di più aggiornato su ciò che decenni di ricerca hanno prodotto riguardo alla violenza domestica sulle donne, è il lavoro uscito nel 2022 sull’International Journal of Environmental Research and Public Health. Gli autori, un gruppo multidisciplinare dell’Università Loyola in Andalusia, sono partiti da un materiale grezzo di ben 1.186 pubblicazioni fino a scremare progressivamente gli studi migliori per dare una risposta alla domanda: «Quali fattori favoriscono la violenza sulle donne da parte dei partner?». Tra i numerosi fattori individuati, troviamo immigrazione, basso reddito, scarsa scolarità, precedenti psichiatrici, comportamento violento antecedente e altri ancora; ma la presenza o meno dell’educazione all'effettività - termine attualizzato per dissimulare l’educazione sessuale - non compare, benché gli studi esaminati riguardassero nazioni dove l’educazione in oggetto è ben radicata. Ma se l’educazione sessuale è quindi di dubbia efficacia, perché alcuni spingono per promuoverla? La sensazione che si tratti di un discorso ideologico, a questo punto, si fa onestamente forte. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-dati-lo-dimostrano-leducazione-sessuale-e-un-grande-bluff-2669210399.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-follia-di-voler-cambiare-la-natura" data-post-id="2669210399" data-published-at="1726436809" data-use-pagination="False"> La follia di voler cambiare la natura Uno dei mantra dei promotori dell’educazione sessuale nelle scuole, forse il principale, è quello della «decostruzione degli stereotipi di genere». Una battaglia che, se si può sposare nei principi (non è accettabile pensare che esistano lavori «solo maschili» o «solo femminili»), appare assai meno condivisibile nella misura in cui viene condotta a scuola – magari lasciando le famiglie all’oscuro – e, soprattutto, quando arriva a negare in radice le differenze tra maschi e femmine, che esistono fin dagli albori dell’esistenza. Una ricerca uscita nel 2021 sull’Italian journal of gender-specific medicine ha rilevato significative differenze sessuali già nel grembo materno, scoprendo come «i feti maschi e femmine» rispondano «in modo diverso allo stesso ambiente intrauterino, suggerendo una differenza biologica fondamentale a livello cellulare e molecolare» e come vi siano «differenze significative legate al sesso nel periodo neonatale e per gli esiti dei neonati pretermine, così come per l’incidenza di malattie neurologiche, malformazioni congenite e malattie respiratorie, nonché nella risposta individuale ai farmaci durante l’infanzia». Tali differenze si riflettono anche nel comportamento dei bambini già… al primo giorno. Fondamentale, su questo, uno studio del 2000 di Jennifer Connellan la quale, con il professor Simon Baron-Cohen, aveva monitorato 102 neonati di appena un giorno e mezzo di vita; ebbene, sottoposti all’attenzione dei piccoli prima un viso umano e poi un oggetto meccanico, la Connellan aveva notato che i maschietti fissavano il 10% in più l’oggetto delle femmine, le quali invece guardavano più a lungo il volto. Queste ed altre differenze, man mano che i bimbi crescono, si riflettono anche nei comportamenti: nella scelta dei giocattoli, nello stile di gioco, in generale nel comportamento. Con il risultato che chi tenta di avventurarsi nella «decostruzione degli stereotipi di genere» rischia di ottenere poco. In effetti, come tali lezioni rischino di essere inefficaci se non ideologiche basta dare un’occhiata alle relazioni di coloro che ne hanno messo in pratica alcuni assaggi. Per esempio, leggendo quanto riferito da un’insegnante che ha seguito lo svolgimento di un gioco presso la scuola dell’infanzia Andrea del Sarto (Fi), durante il quale maschi e femmine si erano scambiati i grembiuli azzurri e rosa, si scopre quanto parziali ed evanescenti siano stati gli esiti di quell’esperimento: «Non tutti sono d’accordo, alcuni decidono di tenersi il proprio […] Si guardano, si sorridono e si compiacciono… poi, dopo un po’ qualcuno si stanca e tutto ritorna come prima» (Educazione alla cura e contrasto degli stereotipi. Inizio di una sperimentazione, Firenze 2008, p.41). Si ribatterà che con la «decostruzione degli stereotipi di genere» bisogna insistere. D’accordo, ma chi garantisce un risultato utile? Nel 2020 sulla rivista Current Psychology era per esempio uscito un lavoro - intitolato «Examining the impact of fiction literature on children’s gender stereotypes» - che aveva visto le sue autrici, Ellen E. Kneeskern e Patricia Reeder, sì registrare come l’«esposizione prolungata» a testi e fiabe egualitari «possa ridurre», nei bambini maschi, l’approvazione degli stereotipi di genere, senza però poter dire nulla su effetti a lungo termine e sulle condotte che, da adulti, i lettori di quei libri avranno. Insomma, più che corsi contro la «decostruzione degli stereotipi di genere» bisognerebbe chiamarli per ciò che davvero sono: esperimenti.
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Dimmi La Verità | Alessandro Rico: «Le reazioni della sinistra all'omicidio di Charlie Kirk»
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