2018-10-07
I conti in tasca a chi dà le pagelle all’Italia
Nonostante il clamoroso abbaglio con il fallimento Lehman Brothers, le «tre grandi» agenzie del rating monopolizzano i giudizi su Paesi e colossi finanziari. Quasi sempre sono pagate dalle istituzioni che devono monitorare. Fatturati in crescita anche del 17%.Jean Claude Juncker fa l'offeso per le critiche di Matteo Salvini e torna a minacciare: «Valuteremo la finanziaria il 15 e, nel caso, proporremo delle modifiche». La replica gialloblù: «Questa Europa alle prossime elezioni verrà licenziata».Le visite di Mario Draghi da Sergio Mattarella sono sempre più frequenti. Il presidente, nonostante due collaboratori dedicati, cerca consigli da chi tiene il polso dei mercati finanziari.Lo speciale contiene tre articoli.Non è un segreto, le agenzie di rating, con uno dei loro giudizi possono fare il bello e il cattivo tempo sui mercati finanziaria. Basta un segno meno o un «downgrade», un abbassamento del voto, che le vendite da parte degli investitori iniziano a fioccare. Quello che però, forse, è meno noto è il modello di business di queste agenzie, le più importanti sono Moody's, Standard & Poor's, Fitch, ma ce ne sono molte altre meno conosciute. Come guadagnano? Chi le paga?Di solito questi «colossi del voto», perlopiù basati a Londra o New York (ma non solo) hanno due modi molto semplici per fare soldi: si possono far pagare dall'emittente che ha bisogno di ricevere un voto, oppure possono essere remunerate dagli investitori che vogliono restare aggiornati sui loro investimenti e sapere se sono di buona qualità o meno attraverso abbonamenti (una sorta di Netflix finanziario, per intenderci).In realtà la stragrande maggioranza delle agenzie di rating (di certo le più grandi) preferisce farsi pagare dall'emittente dell'investimento, sia questo un Paese o un'azienda che sta per emettere un'obbligazione, oppure una compagnia che si sta affacciando al mercato dei capitali. La vulgata ufficiale di questa scelta è che, a partire dagli anni Settanta, con la diffusione delle telecomunicazioni (ai tempi fax e telex) molti investitori diffondevano illecitamente i report delle agenzie facendo perdere loro una grossa fetta di guadagni.Così nel tempo quasi tutte le agenzie hanno preferito farsi pagare dagli emittenti di un investimento, una scelta da molti considerata quanto meno ambigua. Se da un lato S&P spiega che «questa modalità sia migliore dell'altra perché consente di mettere i rating a disposizione di tutti gli investitori e in maniera gratuita, favorendo una maggiore efficienza del mercato dei capitali», in realtà molti ritengono che in questo modello di remunerazione vi sia un grande conflitto di interessi.Il motivo è chiaro: chi riceve il voto è anche chi paga. Almeno in teoria, dunque, l'agenzia di rating potrebbe essere indotta a fare l'interesse dell'emittente (e non quello del mercato). Anche perché diversamente, potrebbe rischiare di perdere un cliente. Per intenderci, chi potrebbe essere disposto a pagare fior di quattrini per ricevere un voto negativo che allontana gli investitori?A volte, viste anche le conseguenze negative che questi giudizi possono avere, le agenzie scelgono di lasciare il voto inalterato, magari limitandosi solo a sottolineare che si respira un'aria pesante. A fine agosto, ad esempio, è stato il caso di Fitch che confermato il rating BBB per l'Italia con un outlook (prospettive) negative. In calendario ora si attende il giudizio di S&P, atteso per il 26 ottobre, e i mercati già tremano. Fatto sta che quello del rating risulta essere un bell'affare. Le «big three», come le chiamano gli esperti sono aziende in gran salute e con migliaia di dipendenti in giro per il mondo. Merito anche della crisi finanziaria che ha spinto gli investitori ad affidarsi alle agenzie di rating per qualunque informazione. Una sorta di oracoli della finanza che, va ricordato, in diverse occasioni hanno anche preso fischi per fiaschi. Basti ricordare quanto siano servite prima del fallimento di Lehman Brothers: nessuna aveva previsto che una delle maggiori banche americane sarebbe finita a gambe all'aria. Per tutti questi motivi, delle agenzie di rating non si sa molto. Partiamo da Moody's. Il primo azionista di questo gruppo da quasi 6.500 dipendenti è Warren Buffett, con la sua holding Berkshire Hathaway. Successivamente, compaiono in ordine Capital World Investment, ValueAct Capital, T. Rowe Price, Vanguard, State Street e BlackRock. Cos'hanno in comune tutti questi azionisti? Sono tutti operatori di risparmio gestito che producono fondi di investimento e che, a loro volta, sono giudicati da Moody's.Il gruppo Moody's, tra l'altro è tra i pochi a diffondere dati di bilancio (la società è obbligata perché quotata a Wall Street). Nel 2017 il gruppo ha messo a segno un fatturato da 4,2 miliardi di dollari, in crescita del 17% rispetto ai 3,6 del 2016. Non va diversamente per Standard & Poor's, colosso da oltre 10.000 dipendenti che nel 2017 ha realizzato ricavi per 6,06 miliardi di dollari, in aumento del 7% rispetto al 2016. Anche in questo caso, molti dei soci rilevanti di S&P sono gli stessi di Moody's: Vanguard è il primo, seguito da State Street, BlackRock, Fidelity, Jp Morgan IM, e tantissime altre firme del mondo del risparmio gestito. Tutti produttori di fondi che riterranno vantaggioso sotto diversi punti di vista possedere una fetta di chi riempie le pagelle del mondo finanziario (senza considerare che in pochi comprerebbero un fondo di un'azienda con un rating basso). Su Fitch, non essendo quotata, le informazioni sono più scarse. Di certo si tratta di tutto rispetto con circa 3.300 dipendenti e un fatturato annuo di circa 1,9 miliardi di dollari. L'azienda è posseduta da aprile dal colosso della comunicazione Hearst. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merrill Lynch, Lehman Brothers, Goldman Sachs, l'inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation e tante altre.Il legame tra chi controlla e chi deve essere controllato appare dunque a dir poco labile per queste aziende. Resta però il fatto che la crisi finanziaria iniziata nel 2008 proprio con il fallimento di Lehman Brothers abbia rappresentato una grande opportunità di fare affari per Moody's, Fitch e S&P. Per capirlo, basta dare uno sguardo ai loro bilanci annuali.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-conti-in-tasca-a-chi-da-le-pagelle-allitalia-2610501771.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nuova-carezza-dallue-sboccati-lega-e-m5s-promettono-siete-finiti" data-post-id="2610501771" data-published-at="1758066249" data-use-pagination="False"> Nuova carezza dall’Ue: «Sboccati». Lega e M5s promettono: «Siete finiti» Il braccio di ferro tra governo italiano e Unione Europea sul Def e in particolare sul rapporto deficit/pil previsto al 2,4% nel 2019 diventa sempre più incandescente, ma la sensazione è che dietro i toni duri ci siano ancora ampi margini per una trattativa, anche perché le elezioni europee incombono e tutti i segnali fanno prevedere un radicale cambiamento degli equilibri politici a Bruxelles. La Commissione europea ha scritto una lettera al ministro dell'Economia, Giovanni Tria, in risposta al documento inviato dallo stesso Tria con il quale si illustravano i contenuti del Documento di economia e finanza approvato dal governo. La risposta della Ue è esattamente quella che ci si attendeva: «Il Def», scrivono il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, «a prima vista sembra costituire una deviazione significativa dal percorso di bilancio raccomandato dal Consiglio Ue, il che è motivo di seria preoccupazione. Secondo le stesse proiezioni del governo, i nuovi obiettivi corrisponderebbero ad un deterioramento strutturale dello 0,8% del Pil nel 2019 e ad un saldo strutturale stabile nel 2020-21». La Commissione «invita l'Italia ad assicurare che il tasso di crescita nominale della spesa pubblica primaria non ecceda lo 0,1% nel 2019, cosa che corrisponde ad un aggiustamento strutturale dello 0,6% del Pil per il 2019. Chiediamo alle autorità italiane di assicurare che la manovra sia in linea con le regole fiscali comuni». La Commissione europea, si legge ancora nel documento inviato a Tria, «rimane disponibile a un dialogo costruttivo» con il governo italiano sulla manovra, e sottolinea che «la valutazione effettiva sulla sua conformità inizierà una volta che il progetto di legge di bilancio sarà sottoposto alla Commissione, cosa che deve avvenire entro il 15 ottobre». Bruxelles dunque fa la voce grossa con Roma, ma non troppo: il passaggio finale sul «dialogo costruttivo» è particolarmente significativo, l'Unione sa benissimo che non può forzare la mano più di tanto. La lettera è dunque un cartellino giallo, non quello rosso che avrebbero desiderato gli esponenti dell'opposizione e i giornali di riferimento, che ieri titolavano a reti unificate su una «bocciatura» da parte dell'Ue, bocciatura che non c'è stata e non poteva esserci, visto che il confronto è appena iniziato. Immediatamente dopo l'arrivo della lettera firmata da Dombrovskis e Moscovici, Palazzo Chigi ha fatto presente che «non c'è stata alcuna bocciatura da parte dell'Ue, anche perché non è stata ancora avviata, né poteva essere, alcuna interlocuzione formale. La valutazione della Commissione Ue avverrà in base al documento draft budgetary plan che sarà inviato dal governo italiano entro il 15 ottobre. Dal canto suo», ha fatto trapelare l'entourage del premier Giuseppe Conte, «il governo rimane fortemente convinto della bontà delle misure che andranno a costituire la manovra economica. Altrettanto forte è la volontà ad avviare un dialogo costruttivo con l'Ue». Il governo italiano sa benissimo che le elezioni europee della prossima primavera cambieranno radicalmente gli assetti di potere a Bruxelles. Salvo clamorosi imprevisti, le forze populiste e sovraniste, quelle che in tutta Europa si oppongono alle politiche portate avanti dai burosauri europei negli ultimi anni, conseguiranno un grande risultato. Già tra pochi mesi, il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, e i suoi commissari, potrebbero appartenere alla storia e non più alla cronaca. A decidere la rotta dell'Europa saranno protagonisti politici con idee profondamente diverse, assai più simili a quelle di Lega e M5s. Ieri Juncker ha nuovamente attaccato Roma: «L'Italia si trova in una condizione difficile. Spetta ai politici italiani», ha detto il presidente della Commissione, in una intervista quotidiano viennese Der Standard, «impostare misure che consentano all'Italia di rimanere entro gli obiettivi di bilancio concordati. Il fatto che due vicepremier italiani si esprimano in modo estremamente sboccato sulla Ue fa capire tante cose». Juncker ha fatto poi finta di ritornare sui propri passi: «Non ho paragonato l'Italia alla Grecia», ma certamente «l'Italia si trova in una situazione difficile». E poi la consueta minaccia: «Il governo italiano dovrà presentare il proprio bilancio alla Commissione entro il 15 ottobre: valuteremo, valuteremo e, se necessario, proporremo modifiche sine ira et studio». Immediata la risposta di Matteo Salvini, autore di diverse e pungenti stoccate nei confronti di Juncker: «L'Europa dei banchieri», ha attaccato Salvini, «quella fondata sull'immigrazione di massa e sulla precarietà, continua a minacciare e insultare gli italiani e il loro governo? Tranquilli, fra 6 mesi verranno licenziati da 500 milioni di elettori, noi tiriamo dritto!». Sulla stessa lunghezza d'onda l'altro vicepremier, Luigi Di Maio: «Non alzo i toni con l'Europa», ha detto Di Maio, «perché, diciamolo chiaro, questa Europa è finita, sopravvivrà ancora pochi mesi. Dalle prossime elezioni europee mi aspetto un terremoto politico proprio come c'è stato un terremoto con il voto in Italia. Voci che oggi fanno fatica a farsi ascoltare in Europa», ha aggiunto Di Maio, «avranno, dopo le europee, il quadruplo della forza avuta in questi anni. Ci aspettavamo che questa manovra non piacesse a Bruxelles, adesso inizia una fase di discussione con la Commissione ma deve essere chiaro che indietro non si torna». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-conti-in-tasca-a-chi-da-le-pagelle-allitalia-2610501771.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-colle-e-a-corto-di-esperti-economici" data-post-id="2610501771" data-published-at="1758066249" data-use-pagination="False"> Il Colle è a corto di esperti economici Mercoledì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha incontrato e non certo per una stretta di mano il numero uno della Bce, Mario Draghi. La notizia è uscita su due quotidiani nazionali venerdì mattina. La notte prima il governo aveva già vistato e inviato il Def alle Camere. Alcuni osservatori sostengono che quando Mattarella voglia avere un quadro completo di quanto stia accadendo ai mercati europei e al nostro debito pubblico chiami direttamente il capo di Francoforte. Non sappiamo se la notizia sia sfuggita dal Colle e finita sui giornali oppure se il Quirinale abbia gradito lo scoop. Un modo per fare sapere che i vertici del Colle sono estremamente preoccupati, tanto da cercare notizie di prima mano a chi gestisce l'euro. In realtà, i due si incontrano con una certa frequenza, non è un dato così riservato. Certo mercoledì sarebbe stato opportuno far sapere che i sue si erano almeno visti e non tenere tutto nascosto. Mattarella però sa bene che tra le sue prime fila di consiglieri manca quello che tiene in pugno i concetti economici e soprattutto le relazioni finanziarie. I potentissimi Ugo Zampetti e a seguire Rolando Mosca Moschin e Simone Guerrini garantiscono al presidente della Repubblica una vasta rete di relazioni e un network iper efficiente. Ma l'agenda di chi conta nella finanza privata in giro per l'Europa non è certo il loro forte. Il Colle ha ereditato dalla precedente presidenza Giuseppe Fotia, colui che Silvio Berlusconi chiamava «signor no». Considerato più rigido addirittura del ragioniere dello Stato nel valutare le coperture, mantiene ancora oggi il ruolo di consigliere finanziario, ma certo non può essere definito uno stretto collaboratore di Mattarella. Un po' per il fatto di provenire dalla scuderia di Giorgio Napolitano. L'attuale presidente vanta quindi una sola consulente economica nel grande ufficio che è il Quirinale. Si tratta della bergamasca Magda Bianco. Entrata in Banca d'Italia nel 1989, presso il Servizio Studi, dove ha lavorato fino al 1999. Dal 1999 è transitata all'Ufficio Diritto dell'economia, nel 2007 diviene titolare della Divisione economia e diritto, di nuovo nel Servizio Studi di struttura economica e finanziaria. Si è occupata della struttura industriale italiana, di regolamentazione dei mercati, corporate governance e diritto societario, diritto fallimentare, giustizia civile, donne ed economia. Su questi temi ha pubblicato diversi articoli e coordinato progetti di ricerca. Durante il periodo di Mario Monti ed Enrico Letta è passata al ministero della Giustizia prima e al Mef dopo. Un curriculum eccellente, ma il tema è un altro. Il capo dello Stato cerca sempre più un alto consigliere che si muova fuori dal Parlamento e nella comunità finanziaria per capire i veri umori di quest'ultima. Abbiamo più volte scritto che il governo gialloblù è diviso in tre componenti. Una fa riferimenti allo stesso Mattarella. Questa componente comprende anche Giovanni Tria il quale dalla stesura del Def è uscito appannato nell'immagine. Per settimane è stato incensato dall'opposizione come l'unico ministro degno di tale nome. In poche parole è diventato un elemento da insultare o al limite denigrare. Insomma, Mattarella cerca Draghi per sapere e forse agire. Se sia opportuno è un'altra cosa.