- Nonostante il clamoroso abbaglio con il fallimento Lehman Brothers, le «tre grandi» agenzie del rating monopolizzano i giudizi su Paesi e colossi finanziari. Quasi sempre sono pagate dalle istituzioni che devono monitorare. Fatturati in crescita anche del 17%.
- Jean Claude Juncker fa l'offeso per le critiche di Matteo Salvini e torna a minacciare: «Valuteremo la finanziaria il 15 e, nel caso, proporremo delle modifiche». La replica gialloblù: «Questa Europa alle prossime elezioni verrà licenziata».
- Le visite di Mario Draghi da Sergio Mattarella sono sempre più frequenti. Il presidente, nonostante due collaboratori dedicati, cerca consigli da chi tiene il polso dei mercati finanziari.
Lo speciale contiene tre articoli.
Non è un segreto, le agenzie di rating, con uno dei loro giudizi possono fare il bello e il cattivo tempo sui mercati finanziaria. Basta un segno meno o un «downgrade», un abbassamento del voto, che le vendite da parte degli investitori iniziano a fioccare.
Quello che però, forse, è meno noto è il modello di business di queste agenzie, le più importanti sono Moody's, Standard & Poor's, Fitch, ma ce ne sono molte altre meno conosciute. Come guadagnano? Chi le paga?
Di solito questi «colossi del voto», perlopiù basati a Londra o New York (ma non solo) hanno due modi molto semplici per fare soldi: si possono far pagare dall'emittente che ha bisogno di ricevere un voto, oppure possono essere remunerate dagli investitori che vogliono restare aggiornati sui loro investimenti e sapere se sono di buona qualità o meno attraverso abbonamenti (una sorta di Netflix finanziario, per intenderci).
In realtà la stragrande maggioranza delle agenzie di rating (di certo le più grandi) preferisce farsi pagare dall'emittente dell'investimento, sia questo un Paese o un'azienda che sta per emettere un'obbligazione, oppure una compagnia che si sta affacciando al mercato dei capitali.
La vulgata ufficiale di questa scelta è che, a partire dagli anni Settanta, con la diffusione delle telecomunicazioni (ai tempi fax e telex) molti investitori diffondevano illecitamente i report delle agenzie facendo perdere loro una grossa fetta di guadagni.
Così nel tempo quasi tutte le agenzie hanno preferito farsi pagare dagli emittenti di un investimento, una scelta da molti considerata quanto meno ambigua. Se da un lato S&P spiega che «questa modalità sia migliore dell'altra perché consente di mettere i rating a disposizione di tutti gli investitori e in maniera gratuita, favorendo una maggiore efficienza del mercato dei capitali», in realtà molti ritengono che in questo modello di remunerazione vi sia un grande conflitto di interessi.
Il motivo è chiaro: chi riceve il voto è anche chi paga. Almeno in teoria, dunque, l'agenzia di rating potrebbe essere indotta a fare l'interesse dell'emittente (e non quello del mercato). Anche perché diversamente, potrebbe rischiare di perdere un cliente. Per intenderci, chi potrebbe essere disposto a pagare fior di quattrini per ricevere un voto negativo che allontana gli investitori?
A volte, viste anche le conseguenze negative che questi giudizi possono avere, le agenzie scelgono di lasciare il voto inalterato, magari limitandosi solo a sottolineare che si respira un'aria pesante. A fine agosto, ad esempio, è stato il caso di Fitch che confermato il rating BBB per l'Italia con un outlook (prospettive) negative. In calendario ora si attende il giudizio di S&P, atteso per il 26 ottobre, e i mercati già tremano.
Fatto sta che quello del rating risulta essere un bell'affare. Le «big three», come le chiamano gli esperti sono aziende in gran salute e con migliaia di dipendenti in giro per il mondo. Merito anche della crisi finanziaria che ha spinto gli investitori ad affidarsi alle agenzie di rating per qualunque informazione. Una sorta di oracoli della finanza che, va ricordato, in diverse occasioni hanno anche preso fischi per fiaschi. Basti ricordare quanto siano servite prima del fallimento di Lehman Brothers: nessuna aveva previsto che una delle maggiori banche americane sarebbe finita a gambe all'aria. Per tutti questi motivi, delle agenzie di rating non si sa molto.
Partiamo da Moody's. Il primo azionista di questo gruppo da quasi 6.500 dipendenti è Warren Buffett, con la sua holding Berkshire Hathaway. Successivamente, compaiono in ordine Capital World Investment, ValueAct Capital, T. Rowe Price, Vanguard, State Street e BlackRock. Cos'hanno in comune tutti questi azionisti? Sono tutti operatori di risparmio gestito che producono fondi di investimento e che, a loro volta, sono giudicati da Moody's.
Il gruppo Moody's, tra l'altro è tra i pochi a diffondere dati di bilancio (la società è obbligata perché quotata a Wall Street). Nel 2017 il gruppo ha messo a segno un fatturato da 4,2 miliardi di dollari, in crescita del 17% rispetto ai 3,6 del 2016.
Non va diversamente per Standard & Poor's, colosso da oltre 10.000 dipendenti che nel 2017 ha realizzato ricavi per 6,06 miliardi di dollari, in aumento del 7% rispetto al 2016. Anche in questo caso, molti dei soci rilevanti di S&P sono gli stessi di Moody's: Vanguard è il primo, seguito da State Street, BlackRock, Fidelity, Jp Morgan IM, e tantissime altre firme del mondo del risparmio gestito. Tutti produttori di fondi che riterranno vantaggioso sotto diversi punti di vista possedere una fetta di chi riempie le pagelle del mondo finanziario (senza considerare che in pochi comprerebbero un fondo di un'azienda con un rating basso).
Su Fitch, non essendo quotata, le informazioni sono più scarse. Di certo si tratta di tutto rispetto con circa 3.300 dipendenti e un fatturato annuo di circa 1,9 miliardi di dollari. L'azienda è posseduta da aprile dal colosso della comunicazione Hearst. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merrill Lynch, Lehman Brothers, Goldman Sachs, l'inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation e tante altre.
Il legame tra chi controlla e chi deve essere controllato appare dunque a dir poco labile per queste aziende. Resta però il fatto che la crisi finanziaria iniziata nel 2008 proprio con il fallimento di Lehman Brothers abbia rappresentato una grande opportunità di fare affari per Moody's, Fitch e S&P. Per capirlo, basta dare uno sguardo ai loro bilanci annuali.
Nuova carezza dall’Ue: «Sboccati». Lega e M5s promettono: «Siete finiti»
Difesa europea sotto pressione: i numeri che smentiscono l’autonomia del Vecchio continente
La pubblicazione della nuova Strategia per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump, dai toni esplicitamente duri verso l’Europa, ha riacceso un interrogativo che da anni viene rinviato: il continente è realmente in grado di garantire da solo la propria sicurezza militare? Il documento, analizzato da Le Figaro, evidenzia una frattura sempre più evidente tra ambizioni politiche europee e realtà operativa sul terreno.
Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
Un autogol di quelli più divertenti e nello stesso tempo più pesanti, un gollonzo in piena regola: la partita del Mondiale che avrebbe dovuto celebrare l’orgoglio Lgbtq+ sarà… Egitto-Iran. Ben gli sta, e scusate la franchezza. L’idea che i Mondiali debbano celebrare un pride game per omaggiare l’omosessualità (nel senso più largo del termine, comprendendo perciò anche le politiche contro omofobia e quant’altro) è la solita forzatura retorica dove per certi temi sono previste corsie preferenziali. Tra l’altro i temi «pride» sono sempre gli stessi e - guarda caso - coincidono con fasce di consumatori big spender. Insomma i pride Lgbtq+ sono un business ed è per questo che conviene a tutti inserirli nelle manifestazioni.
Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.





