
Dopo Netflix, anche la Disney minaccia di boicottare la Georgia a causa delle sue recenti leggi pro vita. A rischio ben 92.000 posti di lavoro. Intanto i democratici si spaccano e isolano i governatori «ribelli».Cosa c'entra l'industria cinematografica americana con le recenti leggi contro l'aborto? Nulla, direte voi. E invece negli Stati Uniti, dove il confine tra politica, soldi e diritti civili è molto più labile che dalle nostre parti, le due cose hanno molto a che spartire. Negli ultimi tempi sette stati (Missouri, Georgia, Ohio, Mississippi, Kentucky, Iowa, e Nord Dakota) hanno approvato norme molto restrittive riguardo all'interruzione di gravidanza, e a breve la Louisiana potrebbe diventare l'ottavo. Gli attivisti le hanno ribattezzate heartbeat bills, perché puntano a proibire l'aborto non appena viene riscontrato il battito cardiaco fetale, di norma intorno alla sesta settimana. Una soglia considerata troppo bassa dai detrattori, dal momento che lascerebbe alle donne intenzionate ad abortire una finestra temporale troppo esigua.La sferzata legislativa è finita nel mirino delle associazioni che si occupano della difesa dei diritti civili le quali, rifacendosi alla sentenza del 1973 «Roe contro Wade» che di fatto ha sancito su tutto il territorio nazionale il diritto all'aborto anche in assenza di pericolo per la donna e il bambino, giudicano incostituzionali i provvedimenti licenziati dai singoli Stati. Nella battaglia contro l'abortion ban un posto in prima fila è occupato dall'American civil liberties union (Aclu), una delle più antiche e potenti organizzazioni americane in materia di diritti. L'Aclu è da sempre impegnata in una potentissima azione di lobbying a favore, tra gli altri, della comunità Lgbt, degli immigrati e in tema di controllo delle nascite. Una pressione capace di influenzare non solo l'opinione pubblica ma anche la politica, il giornalismo e il mondo degli affari. Ed è proprio muovendo dalla campagna di sensibilizzazione promossa dall'Aclu che martedì lo storico settimanale Variety ha lanciato una fatwa contro i giganti di Hollywood, ritenuti colpevoli di «mantenere un assordante silenzio sul violento dibattito intorno alla legislazione sull'aborto che sta imperversando nel Paese». L'invito lanciato senza mezzi termini è a boicottare la Georgia, che da circa un decennio ha avviato una serie di incentivi fiscali per l'industria cinematografica. Le agevolazioni hanno fatto lievitare a livello locale il fatturato del settore: basti pensare che l'anno scorso sono state girate nello Stato ben 455 produzioni, per un giro d'affari di circa 9 miliardi di dollari (circa 8,1 miliardi di euro) che oggi vede impiegati circa 92.000 addetti. Grazie a questi incentivi, nel 2017 la Georgia ha superato la California per numero di produzioni, tanto da essere ribattezzata la «Hollywood del sud». Numerose serie sono state girate nelle location di questo Stato, tra le più famose ricordiamo Stranger Things, Ozark e The Walking Dead. La prima a sposare la causa dell'Aclu è stata Netflix. Martedì la piattaforma di contenuti on demand ha dichiarato di volersi unire alla campagna contro la proibizione dell'aborto. «Abbiamo molte donne attualmente al lavoro nelle nostre produzioni in Georgia», ha spiegato il responsabile dei contenuti Ted Sarandos, «i cui diritti, insieme a quelli di altri milioni di persone, saranno duramente colpiti da questa legge ed è per questo che lotteremo in tribunale insieme all'Aclu». Un dirigente dell'associazione, Talcott Camp, ha espresso a nome di Aclu la gratitudine «per il supporto di Netflix nella battaglia legale» contro la Georgia. Tuttavia, per il momento Netflix ha precisato di non voler interrompere la riprese, ma di essere intenzionata a ripensare la sua presenza in Georgia nel momento in cui la legge entrerà effettivamente in vigore.Dopo le dichiarazioni di Sarandos è arrivata ieri la presa di posizione della Walt Disney Company, colosso che vanta un fatturato di 59 miliardi di dollari (circa 53 miliardi di euro) e quasi 200.000 dipendenti. Nel corso di un'intervista rilasciata a Reuters, l'amministratore delegato Bob Iger ha detto che nel futuro diventerà «molto difficile» per l'azienda mandare avanti le sue produzioni in Georgia, considerato che molti addetti del settore non vorranno più lavorare in quello Stato. «Stiamo monitorando molto da vicino la situazione», ha spiegato Iger, «non possiamo ignorare la volontà dei nostri dipendenti, se la legge verrà attuata presumo sarà impossibile continuare le riprese qui». Prima che Netflix e la Disney prendessero ufficialmente posizione, molti attori e produttori avevano levato la loro voce contro le nuove norme sull'aborto. Tra i nomi più noti troviamo Alyssa Milano (Streghe), che in segno di protesta qualche settimana fa ha lanciato su Twitter l'idea di uno sciopero del sesso «finché non ci verrà restituita l'autonomia sul nostro corpo»; Busy Phillips (Cougar Town), neo testimonial dell'Aclu per una serie di sei spot che verranno mandati in onda sui principali canali nazionali; Zoe Kazan (figlia di Elia Kazan, candidata all'Emmy per la miniserie tv Oliver Kitteridge), la quale su Twitter ha invitato attori, produttori e registi a rifiutarsi di girare film in Georgia e Alabama, e di «chiamare i rispettivi governatori e spiegare loro il motivo». Vista la potenza di fuoco schierata dall'establishment, sarà dura per i singoli Stati evitare che i provvedimenti non vengano bloccati. Di volta in volta l'Aclu, Planned Parenthood (leader negli Usa nel ramo del controllo delle nascite) e le altre associazione di advocacy impegnate nell'area dei diritti civili ingaggiano durissime battaglie legali per evitare che le leggi entrino in vigore. Nel caso del Nord Dakota (capofila nel 2013) e dell'Iowa (maggio 2018), lo stop è definitivo dal momento che appellandosi al precedente Roe contro Wade i giudici hanno emesso un verdetto di incostituzionalità. Le analoghe leggi approvate in Kentucky e Mississippi, invece, hanno subito una sospensiva e sono in attesa di un giudizio definitivo. Rimangono ancora in piedi le norme licenziate in Ohio (entrata in vigore luglio 2019), Georgia (gennaio 2020) e Missouri (agosto 2019), mentre in Louisiana il testo approvato mercoledì è in firma dal governatore democratico John Bel Edwards. La presa di posizione di Edwards a favore della legge ha alzato un polverone nel suo partito, apertamente pro aborto, introducendo forse senza volerlo un tema caldo nella prossima campagna presidenziale.
Stadio di San Siro (Imagoeconomica)
Ieri il Meazza è diventato, per 197 milioni, ufficialmente di proprietà di Milan e Inter. Una compravendita sulla quale i pm ipotizzano una turbativa d’asta: nel mirino c’è il bando, contestato da un potenziale acquirente per le tempistiche troppo strette.
Azione-reazione, come il martelletto sul ginocchio. Il riflesso rotuleo della Procura di Milano indica un’ottima salute del sistema nervoso, sembra quello di Jannik Sinner. Erano trascorsi pochi minuti dalla firma del rogito con il quale lo stadio di San Siro è passato dal Comune ai club Inter e Milan che dal quarto piano del tribunale è ufficialmente partita un’inchiesta per turbativa d’asta. Se le Montblanc di Paolo Scaroni e Beppe Marotta fossero state scariche, il siluro giudiziario sarebbe arrivato anche prima delle firme, quindi prima dell’ipotetica fattispecie di reato. Il rito ambrosiano funziona così.
Lo ha detto il vicepresidente esecutivo della Commissione europea per la Coesione e le Riforme Raffaele Fitto, a margine della conferenza stampa sul Transport Package, riguardo al piano di rinnovamento dei collegamenti ad alta velocità nell'Unione Europea.
Mario Venditti (Ansa)
Dopo lo scoop di «Panorama», per l’ex procuratore di Pavia è normale annunciare al gip la stesura di «misure coercitive», poi sparite con l’istanza di archiviazione. Giovanni Bombardieri, Raffaele Cantone, Nicola Gratteri e Antonio Rinaudo lo sconfessano.
L’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, è inciampato nei ricordi. Infatti, non corrisponde al vero quanto da lui affermato a proposito di quella che appare come un’inversione a «u» sulla posizione di Andrea Sempio, per cui aveva prima annunciato «misure coercitive» e, subito dopo, aveva chiesto l’archiviazione. Ieri, l’ex magistrato ha definito una prassi scrivere in un’istanza di ritardato deposito delle intercettazioni (in questo caso, quelle che riguardavano Andrea Sempio e famiglia) che la motivazione alla base della richiesta sia il fatto che «devono essere ancora completate le richieste di misura coercitiva». Ma non è così. Anche perché, nel caso di specie, ci troviamo di fronte a un annuncio al giudice per le indagini preliminari di arresti imminenti che non arriveranno mai.
Alessia Pifferi (Ansa)
Cancellata l’aggravante dei futili motivi e concesse le attenuanti generiche ad Alessia Pifferi: condanna ridotta a soli 24 anni.
L’ergastolo? È passato di moda. Anche se una madre lascia morire di stenti la sua bambina di un anno e mezzo per andare a divertirsi. Lo ha gridato alla lettura della sentenza d’appello Viviana Pifferi, la prima accusatrice della sorella, Alessia Pifferi, che ieri ha schivato il carcere a vita. Di certo l’afflizione più grave, e che non l’abbandonerà finché campa, per Alessia Pifferi è se si è resa conto di quello che ha fatto: ha abbandonato la figlia di 18 mesi - a vederla nelle foto pare una bambola e il pensiero di ciò che le ha fatto la madre diventa insostenibile - lasciandola morire di fame e di sete straziata dalle piaghe del pannolino. Nel corso dei due processi - in quello di primo grado che si è svolto un anno fa la donna era stata condannata al carcere a vita - si è appurato che la bambina ha cercato di mangiare il pannolino prima di spirare.






