
Occupati Internet e giornali con la balla dell'attacco nazista all'atleta nera, Pd e «poliziotti» del Web invocano una commissione di inchiesta contro le fake news. Il motivo? Il tentato golpe russo via Twitter contro Sergio Mattarella. Del quale, però, non ci sono prove.Se chi diffonde fake news non può aspirare alla carica di presidente Rai, la poltrona di viale Mazzini rischia seriamente di restare vuota qualche decennio. Nelle ore in cui è emerso - con un tocco d'ironia che ha tutta l'aria del destino - che decine di dichiarazioni politiche, centinaia di ore di palinsesti, migliaia di pagine di giornale e milioni di post e tweet sono stati dedicati a una falsità grottesca (l'uovo «razzista» di Moncalieri scagliato in realtà da un ragazzo ignaro del colore della pelle del bersaglio), un partito e molti media invocano commissioni contro le false notizie in rete. Ritengono un allarme nazionale 400 tweet che sarebbero stati indirizzati contro Sergio Mattarella da account con sede in Russia. Il contrasto è piuttosto straniante, e forse ci sta portando in territori inesplorati, dove viene meno perfino un minimo terreno comune nell'affronto della realtà politica. Ieri pomeriggio, alle 16.48, l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha twittato: «Nella notte della rottura con Mattarella, nascono falsi profili per attaccare il Quirinale. Nelle campagne elettorali e referendari tweet e post sono tutti contro il Pd. Con quale dignità rifiutano di fare Commissione inchiesta sulle #fakenews? #primairussi». Di che parla Renzi? Ieri mattina il Corriere della Sera dedicava l'apertura del giornale a un «attacco al Quirinale» che si sarebbe tenuto nella notte di domenica 27 maggio. Una serata drammatica per il nostro Paese: il capo di Stato aveva stoppato la nascita del governo Conte per il veto su Paolo Savona al Tesoro, e Luigi Di Maio si era spinto a chiederne l'impeachment. Su Internet si era scatenata una polemica conseguente a questo scontro istituzionale: c'è chi sosteneva che il Colle avesse esercitato le sue prerogative a tutela degli italiani e chi riteneva avesse esondato dalle sue funzioni, ledendo l'esercizio della rappresentanza. Questa battaglia come sempre si è polarizzata attorno ad alcuni hashtag (gli slogan preceduti dal simbolo «#» che orientano e aggregano le discussioni online). Il Corriere sostiene che «probabilmente» «venti profili di Twitter» (in Italia ce ne sono 3 milioni e mezzo) coinvolti nella campagna di maggio contro Mattarella «erano stati usati una o più volte dalla Internet Research Agency di San Pietroburgo per far filtrare nel nostro Paese la propria propaganda a favore dei partiti populisti, dei sovranisti e degli anti europei». Appena più sotto, Federico Fubini (membro del board di Open society e scelto con Gianni Riotta tra i rappresentanti italiani del gruppo della task force Ue contro le fake news) nota che «è impossibile sapere se i troll russi abbiano avuto un ruolo anche nell'alimentare l'ultima campagna contro il capo dello Stato», tuttavia «alcuni di coloro che presero parte a quell'attacco digitale di fine maggio erano già stati sollecitati dai russi in modo occulto, dunque a loro insaputa, in casi precedenti». Il combinato disposto dei titoli, però, suggerisce l'opposto: «Le manovre dei russi sul web e l'attacco coordinato a Mattarella» legittima il lettore a pensare che Putin abbia scatenato le sue divisioni contro la presidenza della Repubblica, e che tutti i politici o i cittadini che hanno avuto una posizione contrastante con il Colle abbiano agito sotto influenza russa. Il Copasir indagherà sulla pratica: è sacrosanto che le nostre istituzioni tutelino il Paese da interferenze indebite - tanto più se occulte - da parte di altri Stati o apparati. Il problema sembra però un altro. A fianco del pezzo di Fubini, il quirinalista del Corriere ribadisce che «lo staff di Mattarella non ha elementi per addebitare specificamente a qualcuno la paternità dell'interferenza», ma intanto lo stesso staff prepara un «dossier» che affianca a quelli dedicati ad altri attori dell'informazione online, come il blogger Claudio Messora, ex M5s e ora vicino a molti esponenti della maggioranza. È lecito o no domandarsi cosa rappresentino esattamente questi «dossier», e che valore abbiano? E perché per tutto il giorno il Pd, che per 4 giorni e in sintonia con quasi tutti i media ha dipinto l'Italia come un Paese agitato da pulsioni razziste (L'Espresso descrive garbatamente gli italiani come membri del Ku Klux Klan sotto l'ombrellone nella prossima copertina) prima che la frittata di Moncalieri si ribaltasse, ha preso il pezzo del Corriere per ribadire la richiesta di commissione contro le fake news? Di Renzi si è detto, ma pure il segretario Maurizio Martina, Emanuele Fiano, Michele Anzaldi e Lia Quartapelle insistono sul tema quantomeno con infelice tempismo. Dando anzi l'impressione che, sputtanati sul razzismo, non resti che spostare l'attenzione sul rischio interferenze russe, esasperando un tema che meriterebbe forse un affronto ben più ponderato: le manovre straniere, dalla finanza alla difesa, sono la norma. Il problema è capire quali ci facciano comodo, e come negoziare le nostre posizioni.Il fatto è che il caso Osakue, incrociato al dibattito sui presunti russi smanettoni, dà la sensazione che la maggior parte del dibattito mediatico e politico (immigrazione, economia) sia ormai consegnato ai canoni di una rappresentazione simbolica, nella quale il nesso con la realtà si fa sempre più pretestuoso. In un certo senso non c'è nulla di nuovo: le pagine dei giornali, i dibattiti in tv, le dichiarazioni dei politici (per non parlare dei messaggi sui social) non sono «fatti», sono selezione e manipolazione di essi. Epperò è lecito aspettarsi un'opera di inquadramento del dato di cui si sta perdendo traccia. Imbocchiamo - tutti - scorciatoie che portano dritte all'ebbrezza della conferma morale di qualche slogan definitivo. Tutto diventa simbolo, fiaba, precetto: l'uovo che ha ferito Daisy Osakue non è più un episodio di cronaca ma «l'allarme razzismo», lo spread non è un dato sulla cui genesi interrogarsi ma la misura del nerbo morale del Paese e del suo governo, e così via. Così, chi più grida alle fake news ricorda irrimediabilmente Pierino e il lupo: e lì, quando arrivavano i guai veri, si metteva male.
Ansa
Il ministero dell’Istruzione cassa uno dei rilievi con cui il Tribunale dei minorenni ha allontanato i tre figli dai genitori: «Fanno educazione domiciliare, sono in regola». Nordio, intanto, dà il via agli accertamenti.
Se c’è un colpevole già accertato nella vicenda della «famiglia del bosco», che ha visto i tre figli di Catherine Birmingham e Nathan Trevallion affidati dal Tribunale dei minori dell’Aquila a una struttura, è al massimo l’ingenuità dei genitori, che hanno affrontato le contestazioni da parte dei servizi sociali prima e del tribunale poi. Forse pensando che la loro buona fede bastasse a chiarire i fatti, senza affidarsi al supporto di un professionista che indicasse loro quale documentazione produrre. Del resto, in procedimenti come quello in cui sono stati coinvolti non è obbligatorio avere il sostegno di un legale e risulta che il sindaco del loro Comune, Palmoli in provincia di Chieti, li avesse rassicurati sul fatto che tutto si sarebbe risolto velocemente e senza traumi. Ma i fatti sono andati molto diversamente.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Ridotti i paragrafi del primo documento, il resto dovrebbe essere discusso direttamente da Volodymyr Zelensky con il presidente americano Il nodo più intricato riguarda le regioni da cedere. Forse ci sarà un incontro in settimana. E l’ultimatum per giovedì potrebbe slittare.
È un ottimismo alla Giovanni Trapattoni, quello espresso ieri da Donald Trump sul processo diplomatico ucraino. «È davvero possibile che si stiano facendo grandi progressi nei colloqui di pace tra Russia e Ucraina? Non credeteci finché non li vedete, ma potrebbe succedere qualcosa di buono», ha dichiarato il presidente americano su Truth, seguendo evidentemente la logica del «non dire gatto, se non ce l’hai nel sacco». Una presa di posizione, quella dell’inquilino della Casa Bianca, arrivata dopo i recentissimi colloqui, tenutisi a Ginevra, tra il segretario di Stato americano, Marco Rubio, e la delegazione ucraina: colloqui che hanno portato a una nuova versione, definita da Washington «aggiornata e perfezionata», del piano di pace statunitense. «I rappresentanti ucraini hanno dichiarato che, sulla base delle revisioni e dei chiarimenti presentati oggi (l’altro ieri, ndr), ritengono che l’attuale bozza rifletta i loro interessi nazionali e fornisca meccanismi credibili e applicabili per salvaguardare la sicurezza dell’Ucraina sia nel breve che nel lungo termine», si legge in una dichiarazione congiunta tra Washington e Kiev, pubblicata nella serata di domenica.
Elisabetta Piccolotti (Ansa)
Sulla «famiglia nel bosco» non ci risparmiano neppure la sagra dell’ipocrisia. La deputata di Avs Elisabetta Piccolotti, coniugata Fratoianni, e l’ex presidente delle Camere penali e oggi a capo del comitato per il Sì al referendum sulla giustizia, avvocato Giandomenico Caiazza, aprendo bocca, non richiesti, sulla dolorosissima vicenda di Nathan Trevallion, di sua moglie Catherine Birmingahn e dei loro tre figli che il Tribunale dei minori dell’Aquila ha loro tolto dicono: «Non mi piace la superficialità con cui si parla dei bambini del bosco», lei; e: «In un caso come questo dovremmo metterci al riparo da speculazioni politiche e guerre ideologiche preventive», lui.






