2022-08-19
«House of the Dragon», su Sky e Now Tv lo spin-off del «Trono di Spade»
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«House of the Dragon» (Sky)
In onda da lunedì 22 agosto, la serie è il tramonto dei Targaryen, un tempo signori incontrastati di Westeros, è la fine dei Draghi, mostri dei cieli. E, al contempo, è il tassello che manca alla serie madre, la spiegazione di come Daenerys abbia potuto essere quel che è stata, l’amazzone rivoluzionaria di Game of Thrones.L’orologio è tornato indietro ad un tempo in cui Daenerys, bionda madre dei Draghi, ancora non era nata. Centosettantadue anni prima del suo avvento, due secoli, o quasi, prima delle lotte intestine, di Westeros e della corsa al Trono di Spade, era un re, solo, a governare. Jaehaerys Targaryen avrebbe dovuto avere un regno lungo e prospero, ma lo spettro della morte, improvvisa e cieca, ne ha soffocato l’ambizione. Una malattia, accompagnata dalla consapevolezza di una fine ormai vicina, dall’imperativo conseguente di designare un successore. Jaehaerys Targaryen, capostipite di una Casa patriarcale, emblema di un potere che non ha mai smesso di essere maschio, ha scelto insieme al Gran Consiglio: sarebbe stato suo nipote Viserys a prenderne il posto, sopperendo così alla mancanza di figli morti prematuramente. Sarebbe stato Viserys e Rhaenys, la nipote femmina, pur dotata per natura di tutto quel che serve a governare, si sarebbe fatta da parte. Così comincia House of the Dragon, primo fra gli spin-off annunciati di Game of Thrones. È la scelta di un vecchio, avvalorata e indotta dalle esigenze del Gran Consiglio, a rappresentarne l’inizio, il preludio, per condurre poi ad un ripetersi della storia. A Viserys, lui pure malato, costretto ad indicare chi fra la figlia e il fratello possa esserne l’erede. Rhaenyra è il nome che la logica e il buon senso gli hanno suggerito. Daemon è quel che l’assuefazione al patriarcato avrebbe dovuto sussurrargli. Avrebbe dovuto essere Daemon il sanguinario a comandare i Targaryen, portando avanti le tradizioni della Casa. Ma l’imprevedibilità del ragazzo, la sua natura fumantina hanno finito per fagocitarne i diritti di sangue. Nessuno lo avrebbe voluto capo, non il fratello, non il più fidato fra i consiglieri del re, Ser Otto Hightower. Così, la regola non scritta in nome della quale nessuna donna dovrebbe mai detenere il potere, Viserys decide di violarla. Sarà Rhaenyra a succedergli, dando inizio – impotente – alla fine dei Targaryen. House of the Dragon, su Sky e Now Tv da lunedì 22 agosto, è la cronaca di un declino che il pubblico ha visto compiuto. È il tramonto dei Targaryen, un tempo signori incontrastati di Westeros, è la fine dei Draghi, mostri dei cieli. E, al contempo, è il tassello che manca alla serie madre, la spiegazione di come Daenerys abbia potuto essere quel che è stata, l’amazzone rivoluzionaria di Game of Thrones. Lo show, tratto da Fuoco e Sangue di George R. R. Martin, non dice apertamente quale sia il suo fine. Nell’aria, però, sopra gli episodi che c’è stato dato vedere in anteprima aleggia un’atmosfera precisa, la sensazione di sapere (già) dove il racconto – pur costellato degli elementi che hanno fatto grande il Trono di Spade, il sangue, il sesso, la violenza più cruda – voglia andare a parare. Riecheggia Daenerys in Rhaenyra e Rhaenys. A volte, lo si dimentica. I colpi di scena, la brutalità (voluta e ricercata) della narrazione, la complessità dei nuovi personaggi adombrano sua Signora dei Draghi. Ma la guerriera dai capelli biondi ritorna, puntuale, un’assenza che è presenza. È un gioco che funziona, però, questo perdere e ritrovare quel che già si è imparato a conoscere. House of the Dragon è capace di avviluppare lo spettatore nella propria spirale. Desta curiosità, repelle, a tratti, e pur induce alla visione, tiene appeso chi guardi e lo nutre, di tanto in tanto, con la sua promessa: far luce sui meccanismi già noti, su Game of Thrones, e, al contempo, dar forma ad una saga nuova, quella che potrebbe lenire le pene degli orfani di Westeros.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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