2020-01-04
«Ho perso una gamba ma nessuno può privarmi dell’onore di portare la divisa»
Parla Bruno Varacalli, il primo agente effettivo disabile nella storia della polizia: «Ho subito un grave incidente, ma ho reagito alle avversità». Non è facile raccontare l'infinito coraggio di Bruno Varacalli. Ma per descrivere il suo carattere basta una fotografia: quella in cui, appena tre giorni dopo l'incidente che gli ha portato via la gamba destra, l'agente giace in un letto d'ospedale, stretto tra le bende, e riceve la telefonata del capo della polizia, Franco Gabrielli. In quello scatto, Varacalli non è un ferito dolorante, amputato sopra il ginocchio e martoriato dalle fratture. Non soffre. Non è afflitto da alcun pensiero. Al contrario, sorride giubilante. Sembra un bambino davanti a un regalo impossibile, un re su un trono. «Era l'8 settembre 2017», ricorda lui, quasi arrossendo, «e più che altro ero sorpreso. Non sapevo che cosa dire. Fu il capo a parlare, con parole che ricorderò sempre. Mi fece qualche complimento per quanto avevo fatto nella mia carriera. Poi aggiunse: «Tu hai la divisa cucita addosso, continuerai ad averla».Così è stato. Varacalli ha trascorso gli ultimi due anni tra ospedali e centri di riabilitazione, ha subito otto operazioni chirurgiche e 17 trasfusioni. Ma di certo non ha perso tempo. Ha messo su casa con la sua Jessica, la donna che ama e che due mesi fa gli ha dato un figlio. Si è laureato in scienze motorie. Ha scritto un libro. È tornato a correre sulle piste di atletica. Ed è tornato anche e soprattutto a lavorare nella questura di Milano, là dov'era entrato nel gennaio 2013 passando dall'ufficio denunce alla squadra investigativa e poi alle volanti, e meritando più di 20 premi ed encomi. Oggi, che di anni ne ha 33, Bruno Varacalli è il primo agente effettivo disabile nella storia della polizia italiana. Amputato e orgogliosamente in divisa, lavora all'ufficio vittime di reato, varato due mesi fa dal questore Sergio Bracco. «È un lavoro interessante e utile», dice, «le richieste di assistenza aumentano a ritmo veloce. Certo, non è come stare sulle volanti a fare arresti, ma l'importante è essere d'aiuto. E portare l'uniforme». Com'è accaduto l'incidente?«Il 5 settembre 2017 ero in moto sull'autostrada Milano-Venezia, andavo a un raduno d'amici. Viaggiavo a 100-110 chilometri all'ora. Dopo Brescia, stretto fra un tir a destra e una fila d'auto a sinistra, all'improvviso mi sono trovato di fronte una gomma, appena perduta da un camion. Non ho potuto evitarla, sono caduto. Un autotreno mi è passato sopra, m'ha agganciato e m'ha trascinato per due o trecento metri a testa in giù». Che cosa ricorda?«Solo la mia testa che sbatte nel casco contro il camion. Una centrifuga. Pensavo: sono morto. Poi quell'inferno è terminato. Allora mi sono guardato. La gamba destra all'altezza del femore era a brandelli. Il perone di quella sinistra era spezzato. Avevo rotto anche il braccio e il polso destro, e non muovevo la mano. Non riuscivo a tamponare la ferita, così ho rischiato di morire dissanguato». E poi?«Mi hanno salvato i soccorsi tempestivi e l'equipaggiamento: non avessi avuto un ottimo casco integrale e la mia giacca tecnica, sarei morto sicuramente. Negli incontri di prevenzione cui partecipo lo dico sempre, ai ragazzi: non andate in moto alla leggera, in infradito e maglietta; copritevi bene».Come ha capito di aver perso la gamba?«Al risveglio dal coma, nell'ospedale di Brescia. Ho allungato la mano e non c'era più. Mentre mi sedavano pensavo: perché a me? perché proprio a me? Quello è stato il momento peggiore. Come scivolare giù».E quando ha capito, invece, che sarebbe risalito? «Già nelle ore successive. Quando ho dovuto fare forza alla mia famiglia. Quando colleghi e amici m'hanno riempito per giorni la stanza d'ospedale. Allora ho cominciato a pensare all'incontrario: avevo perso una gamba, sì, ma ero vivo. Dopo ogni fine c'è un nuovo inizio, e sta a noi decidere in che senso farlo andare».Be', non è proprio una reazione da tutti, lo sa?«Prima dell'incidente guardavo gli amputati e anch'io mi domandavo: ma come fanno? Poi è capitato a me. Sa com'è: a volte dentro ti scatta qualcosa. Oggi la mia storia “gira" molto sui social network, mi scrivono in tanti. Alcuni mi chiedono dove trovi la forza. È importante far capire alla gente il senso della resilienza, la riscossa davanti alle avversità. La vita deve andare avanti. Se abbiamo una seconda possibilità non dobbiamo sprecarla piangendoci addosso. Non si deve rinunciate ai sogni».E il suo sogno era fare il poliziotto.«Sì, fin da piccolo. Io sono nato a Locri, in Calabria, e nei primi anni ho vissuto a Gerace. Da bambino, la mia scuola era proprio davanti alla casa dove abitava Nicola Gratteri…».Gratteri il magistrato? E che cosa c'entra lui?«Oggi è procuratore di Catanzaro, ma già allora era in prima fila contro la 'ndrangheta. Ed era sotto scorta. Ogni mattina, con i miei compagni di scuola, passavamo davanti alla sua porta e vedevamo gli agenti che aspettavano. È lì che ha cominciato a balenarmi in testa l'idea di entrare in Polizia. Quei poliziotti erano gentili, ci salutavamo sempre». Il fascino della divisa?«Sarà stato quello, o forse il modello positivo del loro lavoro a protezione della giustizia. Sta di fatto che non pochi di quei bambini di Gerace, divenuti adulti, hanno provato il concorso in Polizia. Io ho avuto fortuna, ce l'ho fatta».Con l'incidente temeva di aver perso il suo sogno. Come ha reagito? «La dirigente del mio commissariato, Anna Laruccia, m'era venuta a trovare in ospedale. Mi avevano appena tolto i tubi della respirazione forzata. Le ho detto: mi aiuti, dottoressa, non voglio perdere la divisa. E lei: “Non preoccuparti, faremo di tutto". È stato così».Altre spinte per la riscossa?«Tante, e tutte insieme. La mia famiglia. I colleghi. I bravi medici che mi hanno curato. Lo sport. Di certo devo moltissimo all'amore della mia compagna, Jessica. Anche lei è in polizia. Poco prima dell'incidente c'eravamo un po' allontanati. Ma poi m'è sempre stata vicina, sempre. Con lei nel gennaio 2018 sono andato in vacanza in Thailandia».Scusi: intende dire quattro mesi dopo l'incidente?«Sì. Lo so che pare strano. Ma prima dell'estate Jessica aveva preso il biglietto. Le ho detto: non buttarlo, vengo anch'io. Non è stato facile, avevo ancora una protesi provvisoria. Ma ce l'ho fatta. A Krabi Ao Nang ho anche salito la scalinata del Tempio delle tigri, 1.237 gradini». Follia…«No, una sfida. Jessica mi ha seguito, passo dopo passo. E non solo lì, ma anche nella riabilitazione. Jessica ha vissuto con me tutto quel che ho passato, più di ogni altro. Il 5 novembre è nato nostro figlio, Thomas. Abbiamo deciso che in maggio ci sposeremo».Che cosa le ha portato la nascita di Thomas?«Grande felicità, è ovvio. Ma anche la percezione di qualche limite: non è agevole portare il suo passeggino per l'auto».Ora che cosa c'è nel suo futuro?«Altre due operazioni, al braccio e al polso. Poi sto valutando un intervento di osteointegrazione».Di che cosa si tratta?«È la ricreazione di un femore artificiale: s'innesta un impianto nell'osso rimasto, e poi gli si attacca la protesi collegandola dal ginocchio. È un'operazione che fanno all'ospedale Budrio, vicino a Bologna».Già, perché lei fa sport. Come va in pista?«Ho sempre fatto attività sportiva. Ora corro ad Assago. Il mio allenatore pensa potrei partecipare alle Paralimpiadi di Parigi, nel 2024. Vedremo…».