2022-05-27
Tony Britten: «Ho dato un’anima alla Champions con l’aiuto di Händel»
Tony Britten (Mark Fawcett)
Il compositore inglese: «L’inno è entrato nei cuori dei giocatori perché è fuori dal tempo. Alle finali però non mi invitano più».Bastano tre secondi per trasformare un hooligan inglese in un agnellino, zittire uno stadio, intimorire gli dei del calcio. Tutto ciò che occorre sono otto note, un solenne arpeggio di violini «e tutt’ad un tratto, il coro», come diceva Carlo D’Apporto al Carosello. Il testo non conta molto, è in tre lingue e in 30 anni nessuno l’ha mai imparato, urlo finale a parte. Stiamo parlando dell’inno della Champions league, un piccolo miracolo musicale e sportivo che dagli anni Novanta provoca pelle d’oca immediata e brividi intensi alle tifoserie di tutta Europa. E che risuonerà ancora una volta domani sera a Parigi, prima della finale tra Liverpool e Real Madrid. La firma è di un compositore londinese, Tony Britten, tifoso del Crystal Palace, squadra di Premier da mezza classifica che probabilmente non gareggerà mai per alzare al cielo la Coppa dalle grandi orecchie. Anche se i glaziers (i fan del Palazzo di cristallo non potevano che chiamarsi i «lucidatori») non hanno perso la speranza. Per tornare al momento in cui tutto è iniziato bisogna riavvolgere il Vhs fino al 1992, quando ancora esisteva il retropassaggio al portiere e la Sampdoria di Vialli & Mancini perdeva con il Barcellona la finale di quella che si sarebbe chiamata per l’ultima volta la Coppa dei campioni. O forse, a voler fare i pignoli, bisogna viaggiare con la macchina del tempo fino all’incoronazione di Giorgio II di Gran Bretagna nell’abbazia di Westminster del 1727, per la quale Georg Friedrich Händel (1685-1759) scrisse l’inno Zadok the Priest. Il legame tra questa pagina barocca e la «musichetta della Champions», come la chiamano affettuosamente i calciatori, non è un mistero, ma chi non ha mai avuto l’occasione di ascoltare l’opera del compositore tedesco, contemporaneo di Johann Sebastian Bach e Domenico Scarlatti, potrebbe rimanere a bocca aperta. «La Uefa all’epoca non aveva le idee chiare», racconta Britten alla Verità, «disse solo che voleva qualcosa di classico e di corale. Forse anche sull’onda dei Mondiali di Italia 90, che avevano visto esibirsi I tre tenori». Ma non si trattava soltanto di comporre una sigla, il mandato era quello di rifare completamente l’abito al calcio europeo creando un brand prestigioso e affascinante, che incutesse rispetto e infondesse un senso di storia e di tradizione. Per questo l’incarico venne assegnato a una nota agenzia di marketing svizzera, Team, che affidò a Britten il compito più difficile: dare un’anima musicale al progetto. «Il mondo del pallone in quegli anni aveva sofferto molto per la violenza negli stadi (due date su tutte: Heysel 1985, con 39 tifosi della Juventus morti e Hillsborough 1989, quando a cadere furono 96 supporter del Liverpool, ndr). Bisognava nobilitare di nuovo il gioco. Serviva qualcosa di magico».Qual è stato il processo creativo che l’ha portata a centrare l’obiettivo?«Per prima cosa ho fatto ascoltare ai miei committenti una selezione di brani classici e barocchi, per capire in che direzione volevano andare. Dopo Bach sono passato a Händel, partendo dal Messiah. Quando è venuto il momento di Zadok the Priest ho visto brillare gli occhi ai signori della Uefa».A quel punto cos’ha «rubato» da Händel?«Innanzitutto ho preso la linea dei violini, anche se l’arpeggio non è identico. Poi ho fatto mia quell’atmosfera. E ho insistito per avere un testo, anche se non li vedevo convinti: “Se volete un brano corale servono le parole, non basta un lalala…”. Per cui ho iniziato a buttare giù una serie di superlativi, in linea con ciò che mi avevano chiesto: “The best players, the main event… the champions”. E ho fatto tradurre questi concetti nelle altre due lingue dell’Uefa: francese e tedesco. Infine ho iniziato a musicare il tutto».In effetti la musica riesce a nascondere un testo un po’ banale: Die Meister, Die Besten, Les grandes équipes… In questi 30 anni il suo inno è stato analizzato e c’è chi sostiene che, rispetto a Zadok the Priest, lei ha rinforzato gli ottoni per evocare il metallo del trofeo calcistico più ambito di tutta Europa. «È così, ma le dirò di più: trombe e corni esprimono naturalmente un senso di vittoria e di gloria. Sono gli strumenti perfetti per celebrare un’incoronazione. E il brano che lei ha citato, da secoli accompagna tutte le cerimonie per l’insediamento dei nuovi sovrani inglesi».Scusi la domanda brutale: in percentuale quanto c’è di Britten e quanto di Händel nell’inno della Champions?«Di Händel un 10 per cento, il resto è farina del mio sacco...».Come se lo spiega questo successo così duraturo? Altre competizioni, dall’Europa league alla Serie A in Italia, non sono riuscite a trovare la stessa alchimia musicale. E praticamente tutti i top player hanno dichiarato di vivere un momento magico quando ascoltano l’inno in campo.«Guardi, questo brano è entrato nel cuore dei tifosi e dei giocatori perché è fuori dal tempo. Quando accettai l’incarico lavoravo per il cinema e per la pubblicità e avrei potuto scrivere jingle e sigle in qualunque stile, anche drum and bass o jazz. Ma c’è una regola ferrea in musica: se una composizione segue la moda del momento invecchia velocemente».Si può dire che questo lavoro le ha cambiato la vita?«Senza dubbio, è un treno che è passato in un momento molto impegnativo. Stavo lavorando ad altri progetti e per realizzare questo avevamo soltanto otto mesi. Per me è stata una svolta, anche se non potevo saperlo. Con questo trionfo ho potuto farmi notare e investire su progetti miei che difficilmente avrei potuto realizzare».Si offende se le chiedo quanto le ha fruttato?«Diciamo che è stato anche un ottimo affare…» (ride). Mi accontento di un’immagine: abbastanza per comprarsi una Ferrari?«Abbastanza per acquistarne una serie, ma non le dirò quante…» (ride). «Il vero lusso per me non è stato sperperare tutto in viaggi e champagne, ma creare una casa cinematografica, la Capriol Films. Dedicarmi alle colonne sonore. Poter rifiutare a 67 anni lavori poco interessanti. E andare fiero di quello che faccio».C’è chi dice che il suo inno ha aiutato l’Unione europea a unire i suoi cittadini su una delle poche cose che li accomunano: il calcio. «Credo che ci sia un fondo di verità, ma l’Ue ha già l’Inno alla gioia di Beethoven. E non mi voglio di certo paragonare… Ironia della sorte, da inglese ormai la cosa non mi riguarda più per colpa della Brexit. Io comunque ero per il remain. E oggi sono un rejoiner…».Cos’ha pensato invece quando alcuni club capitanati da Juventus e Real Madrid hanno provato a lanciare la Superlega?«Da un lato mi sono preoccupato perché se avessero ucciso la Champions avrei perso dei soldi» (ride). «Scherzi a parte, non sono un esperto ma il progetto non mi ha convinto: al centro c’erano i guadagni dei grandi club e non la passione dei tifosi. E soprattutto toglieva ogni speranza alle squadre meno blasonate di partecipare al torneo dei top club».Come il suo Crystal Palace?«Esattamente. Nel calcio la variabile impazzita e l’effetto sorpresa sono importanti. Io sono nato a Londra, nel quartiere operaio di Croydon. Per cui sono molto affezionato alla mia squadra. Anche se oggi vivo nel Norfolk e non seguo il club come un tempo. Però la formula della cara vecchia Champions non ci ha mai rubato il sogno».Sicuro che se la chiamassero per scrivere l’inno della Superlega direbbe di no?«Risponderei: “Grazie mille per l’offerta ma non mi interessa”. Ho già dato, non ci sarebbe lo stesso feeling».Domani sera andrà alla finale di Parigi?«No, no, non mi invitano più. Mi resta nel cuore il ricordo di quando ho diretto l’inno con il coro della Scala a San Siro. Oggi mi chiederebbero: “Che sponsor la manda? Lei è il compositore? No guardi, non c’è posto”...».