2018-07-05
Filippo Tortu: «Ho battuto Mennea ma mi rivedo in Berruti»
Ha infranto sui 100 metri il primato detenuto per 39 anni dallo sprinter barlettano. Merito dei «piedi molto reattivi» ereditati dalla madre e del papà coach: «Sono l'atleta numero 134 a essere andato sotto i 10", non potrò mai correre più veloce di Usain Bolt».22 giugno 2018. Gara dei 100 metri piani a Madrid. L'Italia scopre di avere in casa un «figlio del vento». Un giovane di 20 anni stampa sul tabellone un tempo a tre cifre e non a quattro, abbatte il muro dello zero, quello del numero 10, una soglia fisica ma anche psicologica, infrangendo il primato detenuto per 39 anni da Pietro Mennea - che il 4 settembre 1979, in altura a Città del Messico, aveva realizzato 10''01 - portandolo a 9''99. Il recordman si chiama Filippo Tortu.Che a questo punto può già essere soprannominato TurboTortu, nato a Milano ma cresciuto all'incrocio dei venti: il maestrale che da Nordovest spazza la Gallura, in Sardegna (dove lo chiamano su fillu 'e su entu, in omaggio alle origini del padre Salvino, nato a Tempio Pausania, suo coach e atleta a sua volta in gioventù), la tramontana che piomba in Brianza, dove vive da sempre con la famiglia, tra Carate e il liceo a Monza.Da 10''01 a 9''99: due centesimi di secondo, un soffio che fa la differenza e ti fa entrare nella storia, primo italiano di sempre a correre così veloce, terzo uomo bianco dopo il francese Christophe Lemaitre e l'azero naturalizzato turco Ramil Guliyev.Il primo arcano da svelare, tuttavia, non riguarda la sua carriera, il suo training, le sue potenzialità. No. La mia curiosità è più banalmente pop.Ti piacciono Franco Battiato, Lucio Battisti e Patty Pravo, con Pensiero stupendo, più di tutti. Non sono cantanti amati dai tuoi coetanei. «Sono gusti che ho mutuato da mia madre, che me li ha fatti scoprire e amare».Mamma Paola, che ha donato i piedi da sprinter a tuo fratello Giacomo e a te. «Lo racconta mio padre. Quando la conobbe, la sfidò sui 100 metri dandole 50 metri di vantaggio. Questo per capire se avesse le estremità “giuste". Ma gliel'ha confessato solo in seguito, quando mio padre seguiva Giacomo, anche lui atleta. Tornando a casa, una sera le disse: “Ha dei piedi molto reattivi, del resto non poteva essere diversamente, perché li ha come i tuoi". Lei non capiva, e allora lui le ha spiegato che quella prova in pista gli era servita per valutare le sue potenzialità come - dirla con mia madre che ci scherza su divertita - “futura madre di velocisti". Anche perché, come mio padre non ha difficoltà ad ammettere, lui era un buon atleta ma dotato di piedi come due ferri da stiro. Mio padre però aggiunge sempre che il colpo di fulmine c'era già stato».È vero che c'è un patto che lega te, tuo fratello e tuo padre? «Su questo non mi sentirete mai dire nulla (ride). È un segreto di famiglia».Nessuna rivalità tra te e Giacomo? Niente «fratelli coltelli»? «Macché. A Madrid, a gara finita, appena sul display è comparso 9''99', il primo abbraccio è stato tra noi».Salvino chi è per te? Tuo padre e il tuo allenatore, oppure... il contrario? «Entrambe le cose ma distinte. Quando parlo di atletica, è il mio coach. Fuori, è mio papà. E a casa non si parla di atletica».Hai detto: «Il mio record è per lui». «La dedica se la meritava tutta. È stato il suo duro lavoro negli anni, lo studio, le idee nuove che ha applicato agli allenamenti, la sua tenacia, oltre alla sua capacità di costruirmi intorno un team che mi ha messo nelle condizioni ottimali per ambire a questo traguardo».In cosa consistono le sue teorie innovative? «Il metodo si basa sulla tecnica, sul modo di correre. Le sessioni sono mirate a raggiungere l'equilibrio e il miglior assetto aerodinamico, non la pura forza fisica».Quella per cui a un certo punto sulle piste si vedevano più culturisti fanatici del bodybuilding che sprinter? «I chili di massa muscolare in più, è questo l'assunto da cui parte mio padre, ti appesantiscono, più che fornirti potenza. Ma come ama ripetere, sono indicazioni e soluzioni che vanno bene per me, non c'è nessuna pretesa di imporre una visione dogmatica a tutti».Obiettivo: la falcata naturale di Livio Berruti, che è nel tuo Pantheon ideale insieme a Mennea. «Il mio nome accostato a quello di Mennea era per me già un onore prima del record, e il fatto che io abbia migliorato il suo tempo non scalfisce la sua grandezza nella storia dell'atletica italiana. È un modello anche dal punto di vista della carriera universitaria, visto che lui di lauree ne ha prese addirittura quattro, e io ho solo cominciato economia e management alla Luiss. Ma proprio per le mie caratteristiche fisiche, l'affinità è con Livio Berruti. Ho avuto il privilegio di conoscerlo l'anno scorso, e stando con lui una giornata ho capito che intendevamo lo sport nello stesso modo, come passione, piacere, divertimento. Un campione, ma soprattutto una grande persona».Che vinse l'oro alle Olimpiadi di Roma del 1960. Che non si rifaranno a Roma nel 2024, perché il Comune si è opposto. «Non parlo di politica, perché penso che un atleta debba esprimersi in pista. Il che non significa che non abbia una mia opinione. È stato un peccato enorme, ho sperato fino all'ultimo, e ritengo sia stata una sciocchezza buttare via l'occasione di candidarsi, sarebbe servito alla città per rimettersi a nuovo e rilanciarsi, e poi vuoi mettere per un atleta italiano l'onore e la soddisfazione l'idea di poter gareggiare all'Olimpico in un appuntamento del genere? Mi è dispiaciuto anche per il nostro paese perché ospitare i giochi dei 5 cerchi è straordinario, una vetrina mondiale».Ti sei definito «molto patriottico». «La cosa ha colpito molto. Ma per me non è un concetto così complicato: esprime l'attaccamento alla nazione, alla bandiera, e non c'entra nulla con l'essere di destra, di centro o di sinistra. È un sentimento che ho respirato in famiglia, e che fa parte della mia indole. Credo che ogni cittadino dovrebbe esserlo. E da atleta delle Fiamme gialle, aggiungo che indosso con orgoglio ogni volta che posso la divisa della Guardia di finanza».È la stessa cosa che ripeteva mio padre, finanziere a Como. Nel frattempo, è arrivato l'oro tuo e dei tuoi compagni nella 4 x 100 ai Giochi del Mediterraneo, insieme a quello delle ragazze della 4 x 400. Ma a far notizia è stato il colore della loro pelle, lo stesso di uno della vostra staffetta, Eseosa Desalu, di origini nigeriane. «Ci ho fatto caso quando me l'hanno fatto notare. Io ho visto 8 atleti italiani dare il massimo in gara e vincere l'oro. Con il tricolore cucito sul petto».Giusto: primi gli italiani, più che «prima gli italiani». Il 20 luglio c'è il meeting a Montecarlo, poi gli Europei di Berlino il 6 agosto. Dove correrai sia i 100 sia i 200? «In realtà, stiamo ancora decidendo. Di certo, gli Europei sono il mio obiettivo stagionale. Sono propenso a correre i 100. Nei 200, viste le mie caratteristiche, credo di potermi esprimere al meglio, ma non ancora quest'anno. Ci devo lavorare ancora un po'».Ci penserà la Divina Provvidenza. A proposito, ti sei «sparato» un selfie con il Papa in piazza San Pietro. «Non me ne faccio mai. È stato il primo. Mi son detto: “Pensi ti ricapiterà un'occasione del genere?". Quando mi ha stretto la mano, mi sono accorto che la mia tremava. La più grande emozione della mia vita».Più del record? «Senza dubbio. Papa Francesco mi piace perché è vicino alla gente, soprattutto ai giovani».Usain Bolt, con il suo primato mondiale sui 100 con 9“58, è battibile? «Da me no. Se vincere l'oro alle Olimpiadi, che è un sogno che ogni ragazzino che si avvicina all'atletica coltiva, è un traguardo possibile ma improbabile, quello di migliorare il tempo di Bolt è impossibile, almeno per me. Lo dico con la serena consapevolezza che aver stabilito il record italiano non fa di me un essere speciale nella prospettiva del record mondiale, sono l'atleta numero 134 a essere andato sotto i 10 secondi. A 9“58, però, è arrivato solo uno. Lui». Tuo nonno paterno, un centrometrista. Tuo padre, un altro atleta. Sei un predestinato? «Mio padre non mi ha obbligato a scegliere l'atletica, ma uno sport, quello che volevo io, perché pensava, a ragione, che fosse uno strumento di formazione, per acquisire disciplina e determinazione. Ma sempre senza stress, sdrammatizzando. Per questo di sport per un po' ne ho praticati parecchi: anche calcio, basket, nuoto, sci. Sono stato indeciso per parecchi anni. Quando poi a 14 anni ho cominciato a conseguire i primi risultati di un certo valore, allora mi sono concentrato sull'atletica».Nel calcio tifi per la Juventus. Hai suggerito l'acquisto del difensore dell'Ajax Matthijs de Ligt. Ma il tam tam di queste ore annuncia un possibile sbarco a Torino di un attaccante, un certo CR7. Contento lo stesso? «Vorrei vedere. Ronaldo è un grande campione e sono certo che, come sempre, la società farà la scelta giusta».Hai postato una foto di una statua di Carlo Pedersoli, Bud Spencer, commentando: «Non c'e cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo». «Riflette un po' il mio carattere: sono tranquillo e pacifico, per questo quando mi arrabbio, mi arrabbio forse un po' di più di uno che lo fa abitualmente».Allora dimmi la tua più grande virtù e il tuo peggior difetto. «Coincidono. La testardaggine. Se mi metto in testa una cosa difficilmente qualcuno può farmi cambiare idea. Allo stesso tempo, qualche volta dovrei invece ascoltare un po' di più».Cocciuto come un sardo? E lo dico io, che sono figlio di un calabrese... «Come un sardo».
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
Continua a leggereRiduci
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
Continua a leggereRiduci
Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
Continua a leggereRiduci