2018-10-20
«Ho avuto due padri, ma mi sentivo orfano»
Figlio del regista Luciano Salce, dai 2 anni ha vissuto con Vittorio Gassman che aveva sposato sua madre: «Fare il genitore non era il loro mestiere. Sono diventato attore per stare con loro e costruire il rapporto mancato. Tra i due c'era attrito, però non ho mai visto scenate».Nella costellazione dei figli d'arte che illumina (non sempre) il mondo dello spettacolo, un posto unico lo occupa Emanuele Salce, che per molto tempo ha cercato di sfuggire al suo destino artistico. Una ribellione interiore che lo ha portato a percorrere molte strade, salvo ritrovarsi in un crocevia, dove si stagliavano, immense, le figure dei suoi due padri, Luciano Salce e Vittorio Gassman, marito di sua madre, l'attrice Diletta D'Andrea. Con la sua voce da mattatore e un quoziente intellettivo decisamente superiore alla norma (fa parte da decenni dell'associazione Mensa), Emanuele fa un resoconto sincero, se non spietato, della sua vita da doppio figlio d'arte.In Una storia senza nome di Roberto Andò interpreti un presidente del consiglio. Ti sei ispirato a qualcuno?«Durante la scelta dei costumi sentivo che le indicazioni della regia alla costumista erano di ispirarsi a una figura più o meno contemporanea, alla Renzi. Non sono proprio un ragazzino, ho 50 anni, non potevo certo interpretare un presidente del consiglio anziano. Non mi è stato però chiesto di imitare qualcuno, sono stato libero di interpretare il ruolo come sentivo di farlo». Un precedente film di Andò, Viva la libertà, tratto dal suo romanzo Il trono vuoto, ha incredibili similitudini con La pecora nera, diretto da tuo padre nel 1968.«È una cosa che ho pensato anch'io. Prima di lavorare con Andò, mi sono rivisto i suoi film e ho notato che la trama è la medesima, riportata ai giorni nostri».In entrambi il protagonista è un politico che per varie ragioni viene sostituito da un fratello irregolare e fuori dagli schemi. «Se lo rincontro, glielo chiedo!». La pecora nera era interpretato da Vittorio Gassman, che è stato il tuo secondo padre...«Verso i 2 anni mi sono trovato a vivere a casa di Vittorio, che si era messo con mia madre e aveva già tre figli, Paola, Vittoria e Alessandro, nessuno dei quali viveva con noi. Alessandro è venuto a vivere con noi verso i miei 14 anni, dopo la nascita di nostro fratello Jacopo. Per cinque anni abbiamo vissuto tutti assieme in una grande casa». Com'è stato il rapporto con i tuoi due padri?«Fare il padre non era il loro mestiere! Nel mio monologo teatrale Mumble mumble ovvero confessioni di un orfano d'arte dico che avevano altri talenti. Erano due uomini, Vittorio ancora di più, molto centrati su di loro, sul lavoro, disinteressati alla figura del bambino o all'essere padri. Hanno fatto dei figli perché avevano accanto mogli o compagne che volevano diventare madri. Vittorio si è sposato quattro volte e ha fatto quattro figli, ma non aveva la vocazione del padre. Faceva delle battute: “I bambini sono come i cani: devono stare fuori, in giardino, correre appresso alla palla, fuori dai cojoni!"».E con tuo padre?«Con papà è stato difficile avere un rapporto, non essendoci cresciuto assieme, se non una settimana sì e una no. Mancava la quotidianità, la consuetudine di stare assieme, la confidenza. Poi sono cresciuto e con l'adolescenza sono subentrati tutti i conflitti del caso».Eppure tuo padre sul grande schermo interpretava spesso personaggi moderni, aperti ai giovani e ai cambiamenti...«Devi assolutamente uscire dalla visione dell'artista, del personaggio pubblico, rispetto all'uomo privato. Però, anche nella vita, era un uomo alla mano, di grande ironia, raffinatezza, cultura. Come artista era poliedrico, ha fatto cinema, teatro, radio, televisione, musica...».Il suo saper far tutto si è trasformato paradossalmente in un limite. Il fare l'attore lo ha penalizzato come regista, mentre è stato un grandissimo regista (Il federale, La voglia matta, Basta guardarla, Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi, Vieni avanti cretino). «Se uno faceva il sabato sera in televisione, raccontava le barzellette, recitava in commedie scollacciate, faceva le battute alla radio, non era da prendere in considerazione con la stessa serietà con cui venivano presi i Comencini, i Risi, i Monicelli, gli Scola, che avevano il merito di saper fare bene una cosa o di aver scelto di fare solo una cosa. Dino Risi, che ho conosciuto, poteva fare la radio benissimo, era un uomo di genio, dalle battute folgoranti. Così come Ettore Scola, che è stato un grande sceneggiatore e con mio padre scriveva le scenette per Carlo Dapporto. Furono licenziati perché per cambiare la solita solfa scrissero uno sketch in cui lui aveva una défaillance. La cosa fu presa da Dapporto come lesa maestà. Conservo la lettera, su carta intestata di un albergo, indirizzata a mio padre e a Ettore, in cui vengono vilipesi e insultati. “Andate a zappare la terra!"». Hai mai fatto una colpa a tuo padre delle sue manchevolezze?«Quello che ho cercato di fare negli anni è stato di capire se ci fossero dei motivi per questa difficoltà di creare un rapporto. Mio padre ha avuto una vita che al confronto il libro Incompreso è un romanzo rosa. La madre muore dopo pochi mesi per le conseguenze del parto, viene cresciuto da una balia, l'unica che si occupa di lui, la quale muore quando ha 3-4 anni, il padre vede questo figlio come la causa della scomparsa della donna amata, non sa rapportarsi a lui e lo manda in collegio dai gesuiti, il famoso collegio Mondragone di Frascati. A 13 anni ha un incidente di auto e gli applicano un'impalcatura di oro zecchino, che i tedeschi gli strapperanno via in campo di prigionia, dove rimarrà per due anni. A mio padre chi gli ha insegnato a essere figlio, a essere amato, a essere genitore? Ha avuto balie che morivano, i gesuiti e poi i nazisti!». Tuo padre ti ha raccontato la sua vita?«No, l'ho scoperta dopo. Non conoscevo del tutto nemmeno la sua carriera. Per esempio, ho scoperto che mio padre parlava portoghese guardando in televisione Blitz, il programma domenicale di Rete 2. Assieme ad Adolfo Celi erano stati in Brasile negli anni Cinquanta e avevano posto le fondamenta del cinema e del teatro di quel paese».Era molto amico di Adolfo Celi e di Gassman...«Erano compagni di Accademia. A causa della guerra mio padre si è diplomato con due anni di ritardo nella classe di Panelli, Bice Valori, Manfredi, l'ondata successiva. Erano amici fraterni. Con Vittorio hanno cominciato a lavorare assieme, hanno scritto un libro, hanno girato due film, Slalom e La pecora nera, hanno fatto tante cose in teatro, si scrivevano...».E dopo la scelta di tua madre?«Quando c'è stato questo passaggio di consegne si è creato un attrito, ma di grande civiltà. Non ho mai assistito a scenate terribili, erano troppo intelligenti, colti e anche troppo forti per scontrarsi».Tuo padre frequentava la vostra casa?«Frequentava il pianerottolo!». Gassman lo vedevi come un padre?«Di paterno aveva poco anche lui, era più un patriarca. L'ho visto come padre di mio fratello Jacopo e con la sua nascita sono stati una famiglia, in effetti. Io e Alessandro li guardavamo con meraviglia. Fino al giorno prima a noi due ci prendevano a calci in culo!». Quando ti è venuta voglia di fare l'attore?«La voglia di fare l'attore mai! Mi è venuta a un certo punto la necessità interna di andarmi a confrontare non con loro, ma con i miei mostri, con le mie insicurezze, per chiudere dei cerchi. Avevo il dubbio che forse ero scappato da quella professione per timore, anche se mi dicevo che non la facevo per non avere dei vantaggi, con i padri in vita, criticando, sotto certi aspetti, tutti i figli d'arte che avevano seguito senza esitazioni le orme paterne».Quando hai cominciato a recitare?«Siccome c'era da riscattare un rapporto, che era stato teso e complesso, Vittorio mi disse: “Stai un po' con me, mi dai una mano", e così sono diventato il suo assistente. Non era né un lavoro né una necessità vera di Vittorio, ma un modo di stare assieme e di costruire un rapporto che non c'era mai stato. In uno spettacolo che si chiamava Anima e corpo decise di buttarmi in scena. Gli servivo in scena per dire delle battute perché non voleva più accanto a sé attori veri. Il debutto era al Politeama Rossetti di Trieste, 1.400 posti, tutto esaurito. Quando ho sentito negli altoparlanti dei camerini il vociare del pubblico che sta affluendo, ho avuto un mancamento. Sono stato buttato in scena in uno stato di incoscienza, non sapevo nemmeno dove fossi. Arrivato all'intervallo, scoprii di essere sopravvissuto! Poi ho fatto con lui L'addio del mattatore prima a Canale 5, poi a teatro, fino al 1999. Sei-sette anni dopo ho ripreso a fare teatro».Perché questa ulteriore attesa?«Diciamo che facevo finta di fare altre cose. Non riuscivo a capire cosa mi piacesse. Fondamentalmente non mi piacevo io, ero incapace di essere all'altezza dei modelli che avevo avuto. Modelli esasperanti, specie per uno come me che era pensante. Soffrivo delle mie riflessioni, complicandomi la vita».Quindi hai frequentato Gassman nel periodo della famosa depressione...«Gli anni della depressione, in realtà, iniziano con la paternità di Jacopo, quando prende atto che sarebbe un giorno invecchiato anche lui, quando non tiene più il quinto set o non può più fare le sue capriole con la stessa nonchalance degli anni precedenti. Ha un'incrinatura, scopre di essere umano anche lui, “come il mio commercialista!". Però grazie a questo c'è un avvicinamento e un chiarimento tra di noi. Gli ultimi sei-sette anni di Vittorio, dai 70 in poi, praticamente siamo sempre stati assieme. Ho avuto un rapporto con lui privilegiato, con cui abbiamo riscattato un quarto di secolo di guerra fredda». Recuperato il rapporto con Vittorio, hai poi reso omaggio a tuo padre, girando un documentario su di lui, L'uomo dalla bocca storta.«Nel 2009 era il ventennale della scomparsa di papà, nessuno aveva fatto niente, allora insieme ad Andrea Pergolari abbiamo deciso di farlo noi». Hai avuto la bella idea di andare nella via intitolata a tuo padre a Roma e di chiedere ai residenti chi fosse Luciano Salce, nessuno lo sapeva.«Eravamo andati solo a documentare la via intestata a mio padre. Passa un signore e mi viene di chiedergli: “Lei abita qui, sa chi era Luciano Salce?". A Vittorio andò peggio. La prima cosa che gli hanno intitolato è largo Gassman dentro il giardino zoologico. Non una strada antistante, proprio dentro!