2022-06-16
Happy e gli invisibili. Come proteggere i diritti dei più deboli
Alexis de Tocqueville (Getty Images)
Cercare un dialogo con gli altri inquilini del pianeta è doveroso. Lo status quo non è eterno. Dobbiamo aprirci ai cambiamenti.Alexis de Tocqueville era un genio. Avendo viaggiato per gli Stati Uniti (e non solo, visitò anche Montreal e Quebec City) per nove mesi nel 1831, scrisse il memorabile La democrazia in America, pubblicato in due volumi nel 1835 e nel 1840, a tutt’oggi la più sensibile e istruttiva introduzione allo spirito e ai costumi di quel Paese. Una delle molte osservazioni illuminanti di Tocqueville riguarda il sistema giudiziario, che in America «è investito di un immenso potere politico»: decidendo che una legge o un’ordinanza è contraria alla Costituzione, un giudice spesso determina le scelte comuni. I recenti casi di un giudice federale che ha abrogato l’obbligo delle mascherine sui trasporti pubblici e della Corte suprema apparentemente disposta a revocare il diritto di aborto (ne ho parlato in articoli precedenti) confermano la sua asserzione. Oltre a manifestare sacro rispetto per la Carta costituzionale (comunque interpretata), questa pratica serve a colmare quello che altrimenti rimarrebbe un vuoto. I poteri legislativo ed esecutivo americani sono irrimediabilmente divisi: da un lato il presidente e il parlamento federale; dall’altro, e spesso in atteggiamento contrario, i governatori e le legislature dei vari Stati. In condizioni simili, è difficile emanare regole che valgano per tutti, mentre un singolo giudice può farlo. È quindi di particolare interesse esaminare le cause dibattute nelle corti statunitensi, perché lì spesso si mettono in luce i temi del futuro. Ne considererò due, che danno suggestioni analoghe. Il 23 settembre 2019 si aprì, davanti al giudice Alison Y. Tuitt, della Corte suprema dello Stato di New York, un processo intentato dall’istituzione Nonhuman Rights Project contro lo zoo del Bronx e in favore di un elefante ospite dello zoo, di nome Happy. Era stato dimostrato da vari ricercatori che Happy riconosce la propria immagine in uno specchio e, secondo la psicologia contemporanea, questo prova l’esistenza di una soggettività. Il Nonhuman Rights Project chiedeva dunque che un animale che mostrava ovvia autoconsapevolezza non fosse più rinchiuso, come era stato per gli ultimi sedici anni, in uno spazio di quattromila metri quadri (circa la metà di un campo da calcio). Che fosse liberato: trasferito in un’area protetta dove potesse muoversi e socializzare a suo piacimento. Non lo chiedeva per tutti gli elefanti, si badi bene, perché altri non avevano superato il test dello specchio, ma solo per quello. Il 18 febbraio 2020, Tuitt emise una sentenza contraria a Happy. Secondo caso. Ci spostiamo in Florida, presso il lago Mary Jane, poco profondo (un massimo di tre metri e mezzo) ma ben connesso a una serie di altri laghi, stagni e canali. A un certo punto l’acqua è bloccata da dighe; se non lo fosse, un passo dopo l’altro arriverebbe da Mary Jane, situato in Orange County, nella parte centrale dello Stato, fino all’oceano. Ma Orange County, oltre che della città di Orlando, è sede di Disneyworld, ed è una delle aree a più rapido sviluppo della nazione; speculatori hanno progettato di convertire quasi ottocento ettari di terreni acquitrinosi appena a nord di Mary Jane in abitazioni e edifici commerciali. E il lago ha fatto causa; o, meglio, a suo nome l’ha fatta Chuck O’Neal, fondatore di Speak Up Wekiva (Wekiva è un fiume che scorre vicino a casa sua). Le prospettive non sono buone: i lobbisti degli speculatori sono attivamente al lavoro per far archiviare il caso. Ma è sempre così quando si cerca di cambiare le leggi, e uno degli avvocati che portano avanti la causa si consola con una battuta di Michael Jordan: «Mancherai il 100% dei tiri che non hai fatto». Non ho intenzione di raccomandare il sistema politico o giudiziario americano. Voglio invece, l’ho detto, trarre indicazioni su quel che ci riserva l’avvenire. I segnali sono chiari. In un infame giudizio promulgato nel 1857, la Corte suprema degli Stati Uniti respinse la causa del nero Dred Scott, che reclamava la libertà, dicendo che non era un cittadino e non aveva diritto di fare causa; poi si sa come (con gravissime difficoltà) sono andate le cose. Nello stesso periodo John Stuart Mill, in Inghilterra, protestava che le donne non avevano il diritto di possedere beni o fare scelte di vita indipendenti dai maschi della loro famiglia. Posizioni del genere, alla lunga, si rivelano insostenibili; come andrà a finire con animali, laghi e foreste? I motivi che vengono regolarmente citati a difesa dello status quo sono deboli. Motivi finanziari, che poco peso dovrebbero avere di fronte alla giustizia. L’idea che, se prendiamo questa strada, dove ci fermeremo? Al che è facile rispondere che non è necessario fermarsi: non si vede perché non avere un dialogo responsabile e rispettoso con tutta la natura. E l’altra idea che elefanti e laghi non hanno diritti perché non possono partecipare a una discussione sui medesimi. Al che è facile rispondere che non si vede perché avere diritti richieda saper discutere in una lingua comprensibile agli umani, o a certi umani. Il film Dove sognano le formiche verdi (1984), di Werner Herzog, è un courtroom drama, nel quale a un tratto compare un testimone che chiamano Il muto. In realtà non è affatto muto; si esprime anzi con evidente eloquenza. Lo chiamano così perché è l’ultima persona rimasta a parlare la sua lingua. Ecco: come vi sentireste se foste un elefante, o una balena, e parlaste nella vostra lingua a chi ha in mano il vostro destino, e non vi capisse, e vi considerasse muti? Io sono convinto, come lo erano grandi protagonisti della tradizione filosofica italiana quali Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che ogni elemento dell’universo sia animato: abbia, scriveva Bruno, un «desio di conservarsi». Ciò non mi porta a rinunce radicali; non sono nemmeno vegetariano. Mi porta a cercare un equilibrio con gli altri inquilini del pianeta, come lo cercavano i nativi americani, che si cibavano di bisonti e li ringraziavano per il loro sacrificio. Poi è venuto chi ha sterminato loro e i bisonti, e ora dice che laghi e foreste non hanno voce in capitolo (ma ce l’hanno le corporations, che pure non parlano una lingua umana). Cercando nelle pieghe del presente, dove si depongono i semi di possibili buone novelle, si scoprono gesti sfacciati e coraggiosi che, nel quadro di una generale distruzione, invitano ancora a sperare.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)