2024-01-20
A 47 anni Marchesi iniziò a vedere le Stelle
Gualtiero Marchesi nel 1984 (Getty Images)
Dopo le esperienze in Francia, il futuro re degli chef torna nel capoluogo lombardo e apre il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva. È un’ex pizzeria che un gruppo di amici trasforma in un posto dove l’arte si mescola ai sapori. Un successo certificato da Michelin.Se, in quel 1966, l’hit parade musicale vedeva regina Caterina Caselli con il suo Nessuno mi può giudicare, per Gualtiero Marchesi fu più attuale il Bang Bang dell’Equipe 84. Causa il mancato rinnovo del contratto d’affitto da parte della proprietà comunale, l’albergo trattoria «Al mercato», dopo lustri di attività, dovette abbassare le serrande, ma per il nostro futuro re dei fornelli si aprirono le porte di percorsi che oramai covava nell’animo da tempo. Sentiva che c’era tutto un mondo intorno al lui, con fermenti che provenivano soprattutto da Oltralpe, prodromi della rivoluzione della nouvelle cousine.Nell’inverno del 1967, con la sua Fulvia coupè, attraversa il passo del San Bernardo colmo di neve e arriva a Parigi «per conoscere le cucine dal di dentro». Prima tappa al famoso Ledoyen, un santuario della buona tavola. Poi a Digione, capitale della Borgogna, ai fornelli del Chapeau rouge. La tappa successiva è Lione, regno incontrastato di Paul Bocuse, il quale prova a scoraggiarlo: «Non c’è niente da imparare qui». Il che, detto da un tristellato, lascia il dubbio della prova, ma il nostro Gualtiero inforca la strada per Roanne, un piccolo comune della Loira illuminato dalle stelle dei Troigros, Jean Pierre padre e Jean Baptiste, degno erede.È un’empatia immediata, tanto che il primo lo adotta come un figlio e se lo porta per mercati e cantine a conoscere il meglio del territorio, con un’appendice inattesa. Una sera vanno a cena da quel Bocuse che gli aveva chiuso le porte. Questi li accoglie in cantina cantando l’Inno di Mameli e sventolando la bandiera tricolore. E non era neanche il primo aprile. L’andirivieni italo-francese prosegue per circa due anni, sino a che, alla soglia dei quarantanni, Marchesi sente che ha gli ingredienti per mettere a punto la sua prossima ricetta di vita. Quella che ha sempre desiderato, come ben sintetizzato da Anna Prandoni. «Marchesi ha colto l’essenza della cucina francese e l’ha trasferita in Italia, rinnovando quello che, fino ad allora, era un territorio di grandissime materie prime, un’infinita varietà di ricette della tradizione ma nel quale mancava quel tocco in più di cucine professionali». Sarà lo stesso maestro a confermarlo anni dopo nella sua autobiografia Marchesi si nasce scritta con Carlo Giuseppe Valli. «La cucina francese è internazionale», diffusa in tutto il mondo, nei grandi alberghi, con le relative contaminazioni geografiche. «Nulla a che fare con la vera cucina locale», frutto del suo territorio e del microclima che la circonda, da luogo a luogo. Anche perché l’Italia «è un ponte sul Mediterraneo», idealmente connessa ai quattro punti cardinali, dalle Alpi al mare, dal Tirreno all’Adriatico, con le sedimentazioni di storie e culture diverse.Passano alcuni anni in una sorta di limbo progettuale. Da un lato il nostro desidera trovare il suo modo di raccontare la cucina come una forma d’arte, lui cultore di musica e pittura, amico di artisti con cui è tutto un lievitare di riflessioni che spesso trovano la loro quadratura ideale a tavola, magari tra le accoglienti mura della Trattoria milanese della famiglia Villa, in via Santa Marta. Dall’altro c’è una famiglia da mantenere. Rileva la gestione dell’Hotel Vittoria. Non c’è il ristorante ma in una saletta dedicata, assieme agli amici di sempre, nasce il Laboratorio del gusto. Si discute dai grandi temi filosofici a quale sia il cren ideale da accompagnare ai wurstel. Non ci sono preclusioni di sorta. Si può ragionare di Beethoven o di Cavour, accompagnando il tutto con chi ha portato il suo tonno preferito dalla Sicilia o qualche scodella di caviale dall’Iran, quando ancora era il tempo dello Scià.Marchesi viene chiamato a gestire qualche ristorante nella stagione estiva, come all’isola d’Elba, ma sente che il destino lo chiama altrove e, finalmente, nel 1977, dopo undici anni dalla chiusura del locale di famiglia, arriva l’occasione che cercava: si chiamava Okay, nomen omen, anche se, in realtà, era stata sede di una pizzeria, con la sala posta al piano interrato. Si trovava in una via dal nome che prometteva bene, dedicata a Bonvesin de la Riva, un segno del destino. Considerato tra i padri della lingua lombarda, vissuto nel tredicesimo secolo, tra le sue opere ne annovera una dedicata al galateo del convito e sul modo di stare a tavola.Gli amici del Laboratorio del gusto lo seguono, prodighi di consigli, con quel tocco in più che farà poi la differenza. Francesco Monzino, il patron della Standa, gli consiglia di far sedere la clientela su poltroncine o sedie con il bracciolo, per stare il più comodi possibile. In cucina lo affianca immancabile Eugenio Medagliani, il «calderaio umanista» come amava definirsi, lo stilista delle pentole d’autore. «Facemmo lavorare lattonieri e vecchi ramieri» per realizzare supporti su misura che, dalla cucina alla tavola, avrebbero accompagnato le future creazioni che brulicavano a lievitazione naturale nella mente di Marchesi. A dar loro luce le lampade suggerite dai fratelli Castiglioni, compagne silenziose a fianco dei commensali: «Un occhio di luce che inquadrava, come nel palcoscenico di un teatro, la scena principale, ovvero la tavola dove si dipanava il racconto del cuoco».Poesia pura, non c’è che dire, a forte trazione salivare. Ma il ricettario logistico avrà quel tocco in più che contribuì a far entrare da subito, nella leggenda, la creatura del Divin Gualtiero. C’entra lo zampino del gallerista Giorgio Marconi che suggerì di porre a ogni tavolo, al posto dello scontato vasetto di fiori, una piccola scultura. E fu così che, ad esempio, chi scrive toccò con mano le opere di Arnaldo Pomodoro. Oramai la cabina di regia era pronta per il ciak: mancavano solo i fornelli accesi. Correva il maggio del 1977. Marchesi aveva 47 anni, un’età in cui, i più, cominciavano a fare i conti con il loro vissuto, ma lui la sfida l’aveva appena cominciata. Invia una lettera ai molti amici che ne avevano condiviso le diverse tappe di una vita sempre intenta a progettare il futuro. «Nella mezza età in cui mi ritrovo, aprire un ristorante è come rientrare in quella tiepida casseruola in cui sono nato, confortato dai caldi panni. Desidero trovarmi a mio agio, come spero sarà per voi ai tavoli».È un esordio con il botto. Già dopo sei mesi arriva la prima stella «gommata» cui seguirà, a brevissima distanza, la seconda. I guru della nouvelle cousine, Henri Gault e Christian Millau seguono a ruota, inserendo l’atelier con uso di cucina di via Bonvesin de la Riva tra i loro quindici locali preferiti al mondo. Seguono le processioni di chi, con l’intervista a seguire, cerca di raccontare al pubblico, sempre più numeroso, i motivi di questo successo. «I miei piatti sono il frutto di folgorazioni improvvise. La mia vuol essere una cucina totale». Una sorta di sintesi marchesiana tra l’opulenta cucina francese, spesso arricchita da salse ricercate, e quella italiana, «umile e autenticamente legata alla nostra cultura contadina», la cucina delle madri di famiglia che hanno sfamato generazioni, in cui bisognava far tesoro di quanto la dispensa e il territorio offriva, di stagione in stagione.Quella di Marchesi è una felice sintesi storica in quanto «il futuro si può coniugare al passato, come le novità si ottengono arrangiando in maniera inedita» quanto storia e tradizione ci hanno consegnato nel tempo. Oramai Gualtiero Marchesi è pronto a spiccare il volo, la sua vuol essere una cucina emozionale che soddisfa e stimola tutti i cinque sensi con una felice sintesi del Gastronauta Davide Paolini. «Ha fatto dei piatti che sono entrati di diritto fra le leggende e gli intramontabili».
Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale (Imagoeconomica)
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica)
Iil presidente di Confindustria Emanuele Orsini (Ansa)