
I giudici accolgono il ricorso, patrocinato dal sindacato, contro l'imposta per il permesso di soggiorno. Ora lo Stato dovrà restituire i soldi a più di un milione di stranieri che l'avevano pagata negli anni scorsi.Gli italiani pagheranno la tassa di soggiorno dei migranti. Lo stabilisce una sentenza del Tribunale di Lecco che apre la porta a una stagione da luna park delle rivendicazioni: non vi piace una tassa o la ritenete troppo gravosa per le vostre tasche? Da oggi potrete contestarla davanti a una corte di giustizia e chiedere che vi venga rimborsata. Buona fortuna. La rivoluzione epocale per proprietà transitiva arriva dal palazzo di giustizia manzoniano, che ha accolto il ricorso di 50 migranti teso a recuperare il contributo stabilito nel 2011 dal governo per le pratiche del permesso di soggiorno. «Balzello ingiusto», avevano subito rilevato la Cgil e l'Asgi (associazione studi giuridici sull'immigrazione) da sempre in trincea per difendere i richiedenti asilo e i loro diritti, anche quelli presunti. E dopo sei anni di fatica e abnegazione, con ricorsi alla Corte di giustizia europea, al Tar del Lazio e al Consiglio di Stato, le due sigle sono riuscite a vincere una partita che costerà 160 milioni di euro allo Stato, quindi ai contribuenti italiani. È il prezzo della restituzione della tassa ordinata dal giudice di Lecco, in media 160 euro, esteso a 1.134.000 titolari di permesso a tempo determinato (fonte Idos, centro studi e ricerche sull'immigrazione) che oggi si trovano nelle stesse condizioni giuridiche dei 50 pionieri.Prima dell'introduzione dell'imposta ogni cittadino straniero pagava solo una marca da bollo di 16 euro più il costo di stampa del documento (27,50 euro) e la spedizione postale (30 euro). Ma in quella stagione di crisi feroce che tagliava le gambe ad aziende e contribuenti mandando intere famiglie sul lastrico, il governo di Silvio Berlusconi decise di chiedere un sacrificio anche a chi entrava in Italia per trovarvi lavoro e quindi accedere a ben altre salvaguardie previdenziali e mediche, insomma a un welfare di stampo occidentale con ampi perimetri di garanzia. Così l'esecutivo varò la legge con il contributo aggiuntivo per il permesso di soggiorno che andava da 80 a 200 euro a seconda delle motivazioni e della durata della concessione. Il provvedimento fu reiterato dal governo di Mario Monti e in seguito impugnato proprio dalla Cgil, negli ultimi tempi piuttosto pigra del difendere i diritti calpestati dai lavoratori tagliati dalla produzione ma più attiva di una Ong sul pianeta dell'accoglienza. Nel 2015 la Corte di giustizia europea ha dichiarato sproporzionata la tassa perché «rende difficoltoso l'accesso agli stranieri». Un grimaldello efficace per i ricorrenti, utile a smuovere le «coscienze inquiete e stipendio fisso» (copyright di Carlo Emilio Gadda) di Tar e Consiglio di Stato, che annullando il decreto con gli aumenti chiedevano alla pubblica amministrazione di stabilire importi più proporzionati e di restituire il denaro pagato in eccesso dagli stranieri.«Niente di tutto questo è accaduto, l'Italia non solo non ha mai restituito il dovuto ma non ha mai neppure risposto alle richieste inviate dal nostro ufficio riguardo ai 50 assistiti», spiega Cinzia Gandolfi, direttrice del patronato Cgil di Lecco. Per la verità nel 2016 è stata varata una legge con nuove tariffe: 70,46 euro per il permesso inferiore a un anno, 80,46 per quello fino a due anni, 130,46 (richiesto dall'Europa) per i soggiornanti di lungo periodo. Ma del pregresso nessuna notizia. Così la faccenda è passata nelle mani dei legali dell'Asgi che hanno pensato a una causa collettiva, una class action in piena regola, portata avanti dall'avvocato Alberto Guariso. La sentenza ha stabilito un principio ed è lui a tirare le somme: «In tutta Italia i titolari di permesso a tempo determinato sono 1.134.000. In questi sei anni hanno avuto tre aumenti, quindi lo Stato si sta trattenendo indebitamente una cifra che stimiamo superiore ai 160 milioni di euro».Un vulnus burocratico di solida tradizione italiana rischia di far spendere una cifra significativa allo Stato e di conseguenza ai contribuenti per rifondere i migranti. A questo punto il quesito iniziale torna alla ribalta: il diritto alla restituzione vale per tutti? Domanda retorica, perché la consuetudine quotidiana ci dice che la sentenza lecchese cristallizza una differenza fastidiosa fra cittadini italiani - impossibilitati a vedere annullate o alleviate le imposizioni fiscali versate in un periodo eccezionale -, e immigrati senza permesso di soggiorno ma con il maggiore sindacato e una schiera di legali (pagati dai patronati) a disposizione. Se sproporzionato era il contributo, ancora più sproporzionata è la realtà che sta dentro questa fotografia.A maggior ragione in un periodo che si presenta come eccezionale, visto che il flusso di migranti è ripreso in pieno e i programmi di ricollocamento sono rispettati solo sulla carta. Non lo dicono leghisti disegnati dagli intellettuali dem con il fiasco sotto il sedile della Panda 4x4, ma lo sottolinea la Corte dei conti europea nell'ultimo rapporto datato ieri: «I programmi di ricollocamento non hanno raggiunto i target e solo in parte l'obiettivo principale di alleviare la pressione su Grecia e Italia. Persistono lunghi tempi di gestione e strozzature, i rimpatri sono bassi e problematici in tutta la Ue». Un'ammissione di impotenza preoccupante, una smentita rispetto all'ottimismo istituzionale del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, che due giorni fa aveva annunciato: «L'emergenza migranti semplicemente non esiste». La pensano diversamente a Kirchberg, in Lussemburgo, sede della Corte di conti europea, dove precisano che «dall'obiettivo iniziale di 160.000 migranti, i Paesi dell'Ue hanno legalmente accettato di ricollocarne 98.256. Tuttavia solo 34.705 (21.999 dalla Grecia e 12.706 dall'Italia) sono stati trasferiti». Meno del 30%. Numeri impietosi che testimoniano la difformità della narrazione governativa rispetto alla realtà dei fatti. In un simile contesto la sentenza del Tribunale di Lecco è socialmente spigolosa con il suo profilo di «causa pilota» e il messaggio di umanità può essere facilmente travisato. Sostiene trionfante Elena Lattuada, segretario generale della Lombardia: «La Cgil è sempre dalla parte di coloro che subiscono ingiustizie». Se sono stranieri (e a pagare sono gli italiani) è meglio.
Antonio Scurati (Ansa)
Eccoli lì, tutti i «veri sapienti» progressisti che si riuniscono per chiedere all’Aie di bandire l’editore «Passaggio al bosco» dalla manifestazione «Più libri più liberi».
Sono tutti lì belli schierati in fila per la battaglia finale. L’ultima grande lotta in difesa del pensiero unico e dell’omologazione culturale: dovessero perderla, per la sinistra culturale sarebbe uno smacco difficilmente recuperabile. E dunque eccoli, uniti per chiedere alla Associazione italiana editori di cacciare il piccolo editore destrorso Passaggio al bosco dalla manifestazione letteraria Più libri più liberi. Motivo? Tale editore sarebbe neofascista, apologeta delle più turpi nefandezze novecentesche e via dicendo. In un appello rivolto all’Aie, 80 autori manifestano sdegno e irritazione. Si chiedono come sia possibile che Passaggio al bosco abbia trovato spazio nella fiera della piccola editoria, impugnano addirittura il regolamento che le case editrici devono accettare per la partecipazione: «Non c’è forse una norma - l’Articolo 24, osservanza di leggi e regolamenti - che impegna chiaramente gli espositori a aderire a tutti i valori espressi nella Costituzione italiana, nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea e nella Dichiarazione universale dei diritti umani e in particolare a quelli relativi alla tutela della libertà di pensiero, di stampa, di rispetto della dignità umana? Poniamo quindi queste domande e preoccupazioni all’attenzione dell’Associazione italiana editori per aprire una riflessione sull’opportunità della presenza di tali contenuti in una fiera che dovrebbe promuovere cultura e valori democratici». Memorabile: invocano la libertà di pensiero per chiedere la censura.
Olivier Marleix (Ansa)
Pubblicato post mortem il saggio dell’esponente di spicco dei Républicains, trovato impiccato il 7 luglio scorso «Il presidente è un servitore del capitalismo illiberale. Ha fatto perdere credibilità alla Francia nel mondo».
Gli ingredienti per la spy story ci sono tutti. Anzi, visto che siamo in Francia, l’ambientazione è più quella di un noir vecchio stile. I fatti sono questi: un politico di lungo corso, che conosce bene i segreti del potere, scrive un libro contro il capo dello Stato. Quando è ormai nella fase dell’ultima revisione di bozze viene tuttavia trovato misteriosamente impiccato. Il volume esce comunque, postumo, e la data di pubblicazione finisce per coincidere con il decimo anniversario del più sanguinario attentato della storia francese, quasi fosse un messaggio in codice per qualcuno.
Roberto Gualtieri (Ansa)
Gualtieri avvia l’«accoglienza diffusa», ma i soldi andranno solo alla Ong.
Aiutiamoli a casa loro. Il problema è che loro, in questo caso, sono i cittadini romani. Ai quali toccherà di pagare vitto e alloggio ai migranti in duplice forma: volontariamente, cioè letteralmente ospitandoli e mantenendoli nella propria abitazione oppure involontariamente per decisione del Comune che ha stanziato 400.000 euro di soldi pubblici per l’accoglienza. Tempo fa La Verità aveva dato notizia del bando comunale con cui è stato istituito un servizio di accoglienza che sarà attivo dal 1° gennaio 2026 fino al 31 dicembre 2028. E ora sono arrivati i risultati. «A conclusione della procedura negoziata di affidamento del servizio di accoglienza in famiglia in favore di persone migranti singole e/o nuclei familiari o monogenitoriali, in possesso di regolare permesso di soggiorno, nonché neomaggiorenni in carico ai servizi sociali», si legge sul sito del Comune, «il dipartimento Politiche sociali e Salute comunica l’aggiudicazione del servizio. L’affidamento, relativo alla procedura è stato aggiudicato all’operatore economico Refugees Welcome Italia Ets».
2025-12-03
Pronto soccorso in affanno: la Simeu avverte il rischio di una crisi strutturale nel 2026
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iStock
Secondo l’indagine della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, dal 2026 quasi sette pronto soccorso su dieci avranno organici medici sotto il fabbisogno. Tra contratti in scadenza, scarso turnover e condizioni di lavoro critiche, il sistema di emergenza-urgenza rischia una crisi profonda.
Il sistema di emergenza-urgenza italiano sta per affrontare una delle sue prove più dure: per molti pronto soccorso l’inizio del 2026 potrebbe segnare una crisi strutturale del personale medico. A metterne in evidenza la gravità è Alessandro Riccardi, presidente della Simeu - Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza - al termine di un’indagine che fotografa uno scenario inquietante.






