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2022-02-21
Grano saraceno re delle farine grazie a Venezia
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Oggi è normale nominare e trovare cereali o piante trattate come equivalenti senza glutine al posto del frumento: miglio, amaranto, quinoa, riso, mais, grano saraceno. Tra tutti questi, uno che appartiene alla nostra tradizione da più profonda e che, diversamente da riso e mais che vi appartengono ma sono graminacee, non è una graminacea: è il grano saraceno, anche detto grano nero. La pianta a fiore del grano saraceno, Fagopyrum esculentum, appartiene alla famiglia delle Poligonacee, la stessa del rabarbaro. Sull’altezza del fusto glabro della pianta, che va dai 60 ai 120 centimetri, svettano rami con infiorescenze apicali, verdi all’inizio del ciclo, poi bianche, rosa o rossicce, a seconda delle varietà. Si tratta di una bella pianta annuale (compie il ciclo biologico in 80-120 giorni) che, per le sue caratteristiche nutrizionali e l’impiego alimentare, consideriamo un cereale: quella dei cereali è una classificazione merceologica e non botanica. Un po’ come diceva Forrest Gump che stupido è chi lo stupido fa, consideriamo commercialmente cereale ciò che trattiamo come se lo fosse. Cioè le piante erbacee i cui frutti fortemente amidacei maciniamo per ottenere farina da usare per polente, pasta e pani.
La stessa denominazione indica che questa farina, seppur non da graminacea, è per il gusto come quella da graminacea: esculentum in latino significa «buono da mangiare». Il grano saraceno è certamente più diffuso al Nord che al Sud Italia e la ragione sta nell’arrivo dal Nord Europa. Nel tardo Medioevo la pianta raggiunse l’Europa tramite le vie commerciali marittime: dalle coste del mar Nero arrivò a Venezia e Anversa. Nel XV secolo è documentata nel Meclemburgo e nell’Eifel tedeschi con il nome di heenisch, l’odierno heidenkorn, ossia «grano dei pagani», poiché introdotto da non cristiani provenienti dalle regioni asiatiche, che se ne nutrivano arrostendone i semi.
Nelle regioni del Nordest, il nostro è documentato in Valtellina nel XVI secolo in un atto relativo alle proprietà della famiglia Besta di Teglio: si chiama «formentone», furmentùn, forse perché surrogato del frumento che cresce molto più velocemente del frumento vero e proprio oppure nel senso di surrogato meno pregiato del frumento. Il formentone si diffonde molto nel secolo successivo: è del 1621 la Grida sopra il formento sarasino emessa dal Duca d’Este di Modena il 15 luglio 1621 a favore del commerciante ebreo Donato Donati.
In Valtellina, della quale il grano saraceno è oggi un prodotto identitario, il picco coltivatorio si raggiunge nel XX secolo, poi c’è un crollo in coincidenza con l’industrializzazione della produzione alimentare negli anni Cinquanta. Recentemente, con l’aumentare dell’attenzione alla tradizione e ai prodotti locali del territorio italiano, il grano saraceno sta tornando in auge, soprattutto in luoghi come Teglio e Baruffini, grazie anche all’Accademia del pizzocchero di Teglio e al presidio Slow food del grano saraceno della Valtellina.
Fuor di Valtellina, ci sono i presidi Slow food del grano saraceno di Terragnolo, Trentino Alto Adige, con cui si fa il fanzelto, che è anche una Deco, e il grano saraceno della Valnerina in Umbria, con il quale si prepara una bella «pasta» e lenticchie che al posto della pasta prevede la farina di grano saraceno.
Il grano saraceno è anche una pianta mellifera dalla quale si estrae un particolare miele monoflorale, non solo in Lettonia, dove il miele di grano saraceno è il miele nazionale: anche nella nostra Umbria si mielifica saraceno e, in generale, lo si fa ovunque ci sia grano saraceno in quantità. Il grano saraceno è certamente il protagonista assoluto dei pizzoccheri valtellinesi, ma anche di tante altre preparazioni locali, nonché straniere, come la soba, cioè i noodle giapponesi fatti con farina di grano saraceno (soba in giapponese vuol dire proprio grano saraceno). Oppure i bliny russi, e poi la grechnevaia kasa russa, polenta di grano saraceno in chicchi simile al porridge, anche detta kasha e grechka.
Dal punto di vista nutrizionale, la prima e più rilevante caratteristica del grano saraceno è che non contiene glutine. Le farine non glutiniche oggi sono un’esigenza molto sentita, anche da parte di chi non è celiaco ma soffre di sensibilità al glutine. Il grano saraceno presenta 343 calorie ogni 100 grammi ed è composto soprattutto di amido (per il 25% amilosio e il 75% amilopectina): dal 71 al 78% nei fiocchi e dal 70 al 91% nei diversi tipi di farina (rispetto ad altri semi equiparati ai cereali come quinoa e amaranto, il saraceno è più ricco di amidi e meno di proteine).
Per il 18% abbiamo proteine, con importante concentrazione di aminoacidi essenziali, specialmente lisina, treonina e triptofano, che ripristinano e mantengono il tono della massa muscolare, migliorano la funzione cognitiva e aumentano le difese immunitarie. Altrettanto utili a dar tono sono le vitamine del gruppo B e i sali minerali, in particolar modo il ferro (2,20 milligrammi ogni 100 grammi), lo zinco (2,40 milligrammi) e il selenio (8,3 microgrammi). Il grano saraceno contiene anche un importante antiossidante e antinfiammatorio, il glucoside rutina, che tonifica le pareti dei vasi capillari riducendo il rischio di emorragie negli ipertesi e migliorando la microcircolazione di chi soffre di insufficienza venosa cronica: grazie alla sua capacità di prevenire la formazione di aggregati di piastrine nel sangue può essere utile in caso di emorroidi e disturbi della coagulazione.
Grazie all’effetto sul colesterolo, che è capace di ridurre, il grano saraceno aiuta ancora, indirettamente, il cuore. Grazie al D-chiro-inositolo, il grano saraceno può essere di aiuto nel diabete di tipo II e nella sindrome dell’ovaio policistico. Il grano saraceno è poi un’ottima fonte di fibre che aiutano la salute, l’efficienza e la regolarità dell’intestino. Il grano saraceno è un anche un allergene che può causare reazioni avverse in pazienti sensibilizzati.
Taragna, nera, chisciöi, fanzelti: il viaggio nelle polente nordiste
La polenta taragna è un piatto simbolo della tradizione montana. Anche chiamata semplicemente taragna, è una polenta di farina di mais e di farina di grano saraceno originaria della provincia di Bergamo, diffusa nell’Alta Lombardia e nelle province di Sondrio, Brescia e Lecco. Il nome deriva da «tarél», il bastone di legno con il quale la polenta si rimescola nel paiolo di rame rosso. Dal sito Valtellina.it ecco la ricetta della polenta taragna per 4 persone. Vi servono 400 g di farina di grano saraceno, 150 g di farina gialla, 400 g di burro d’alpe, 800 g di formaggio Valtellina Casera, 2 l di acqua, sale. In un paiolo di rame o di ghisa, portare a ebollizione l’acqua salata. Aggiungere a pioggia le farine precedentemente miscelate e, rimestando con l’aiuto di un mestolo di legno, preparare una polenta normale, cuocendola per circa un’ora. A fine cottura, ancora sul fuoco, aggiungere il burro. Far sciogliere, rimestare e aggiungere il formaggio Valtellina Casera e rimestare ancora la polenta per distribuire uniformemente al suo interno il formaggio. La polenta sarà cotta quando, rimestandola, si staccherà dai bordi del paiolo. Togliere quindi dalla fonte di calore, versarla sul tagliere e servire la polenta taragna molto calda.
Non c’è solo una polenta taragna. Dal blog AmoLaValtellina, ecco i diversi tipi di polenta taragna in base alla località. Nella polenta in fiür la panna si sostituisce all’acqua, si tratta quindi di un piatto piuttosto nutriente. Per 4 persone, 1 litro di panna fresca, 700 g di farina nera di grano saraceno valtellinese, 400 g di formaggio Valtellina Casera, sale. Fate bollire la panna in un paiolo capiente, salatela. Versatevi la farina poca per volta, mescolatela aiutandovi con una frusta per evitare che si formino grumi. Quando il composto inizia a diventare piuttosto consistente, mescolate con un cucchiaio di legno. Quando sul fondo e sulle pareti si sarà formata una crosta da cui il composto si stacca facilmente, la polenta è cotta. Prima di toglierla dal fuoco aggiungete il formaggio tagliato a fette. Versatela sulla basla - il tipico piatto di portata in legno - prima che il formaggio si sia completamente sciolto.
La polenta cröpa o crupa era preparata dai pastori negli alpeggi, è una variante della polenta in fiür e prevede l’aggiunta delle patate all’impasto di base con meno farina gialla. Per 4 persone, 400 g di patate, 600 g di farina nera, 100 g di farina gialla, 1 litro di panna, 400 g di formaggio semigrasso, sale. Fate bollire le patate con la buccia, sbucciatele e fatene una purea. A parte, fate bollire in un paiolo la panna e, quando bolle, aggiungete la purea di patate, la farina nera e una manciata di quella gialla fino a ottenere un composto di media consistenza. Cuocete per circa mezz’ora continuando a mescolare, aggiungete poi il formaggio tagliato a cubetti, lasciatelo sciogliere e rovesciate il tutto sulla basla.
La polenta nera è un’ulteriore variante della polenta tradizionale; fatta interamente con la farina nera (quindi non mista) è caratterizzata dall’aggiunta di patate e formaggio. Per 4 persone, vi serve 1 litro di acqua, 600 g di farina nera, 100 g di burro, 200 g di formaggio semigrasso, 3 patate, sale. Portate a ebollizione l’acqua salata e fatevi lessare le patate. Quando saranno cotte schiacciatele e aggiungete la farina nera. Unite il burro e cuocete per un’ora. Pochi minuti prima di toglierla dal fuoco, aggiungete il formaggio a cubetti. Servite ben calda.
Per la polenta taragna della Valchiavenna per 4 persone ci vogliono 300 g di farina bianca, 300 g di farina gialla, 300 g di farina nera, 600 g di burro, 300 g di Bitto, 300 g di Magnuca, sale, 200 g di Parmigiano. Versate le farine in acqua bollente salata (nell’apposito paiolo di rame). Cuocete per un’oretta. Unite i formaggi, fate sciogliere completamente e rovesciate la polenta sulla basla. Servite. Per la polenta concia per 4 persone: 600 g di farina mista (granoturco e grano saraceno), 1,5 l di acqua, sale grosso q.b., 300 g di Valtellina Casera, 250 g di Bitto, 300 g di burro, 100 g di Parmigiano grattugiato, 2 cipolle rosse. Versate l’acqua salata in un paiolo. Aggiungete 100 g di burro e portate a ebollizione. A quel punto versate a pioggia la farina mista gialla e nera e amalgamate con una frusta. Durante la cottura, per almeno 45 minuti, unite ancora 50 g di burro. A fine cottura unite i formaggi tagliati a pezzettini e il Parmigiano. Affettate finemente le cipolle e friggetele nel restante burro. Tagliate a fette la polenta calda e tra una fetta e l’altra mettete le cipolle e il Parmigiano.
Per completare il viaggio nelle polente nordiche, ecco le ricette di due piatti che sembrano polente mescolate a freddo e poi fritte. Innanzitutto, i chisciöi valtellinesi, considerati la versione piatta degli sciatt valtellinesi (che sono tondi e fritti in immersione): per 4 persone, servono 300 g di farina di grano saraceno, 150 g di farina bianca, 250 g di Valtellina Casera poco stagionato, un bicchierino di grappa (facoltativo), acqua (2 bicchieri), strutto, sale. I chisciöi vanno cucinati in una padella di ferro. Preparare la pastella, unendo le farine e aggiungere grappa, acqua e sale fino a ottenere un impasto sufficientemente amalgamato e liquido (non troppo). Sciogliere nella padella lo strutto avendo cura che il fondo della padella sia ben coperto; lo strutto deve impedire ai chisciöi di attaccarsi sul fondo senza però sommergerli. Versare un cucchiaio di pastella in modo da formare frittelle di circa 5 cm di diametro, posarvi subito sopra una generosa fetta di formaggio (fatelo affondare con le dita) e infine coprire con un altro cucchiaio di pastella. Quando la pastella inizia a diventare croccante, girate la frittella per cuocerla dall’altro lato. I chisciöi saranno pronti quando saranno belli dorati. Servire caldi accompagnati da abbondante cicorino tagliato fine. Nei ristoranti e nelle famiglie si preparano anche chisciölin di dimensioni minori. Come molti piatti tradizionali, anche la preparazione dei chisciöi può variare nei paesi limitrofi o da famiglia a famiglia, ma le differenze rimangono minime. Nel 2006 è nata la Confraternita dei chisciöi per promuovere e diffondere questa specialità.
Dal sito del Comune di Terragnolo (Trento), ecco la ricetta del fanzelto, che è anche una Deco. Per 12 fanzelti ci vogliono 350 g di grano saraceno (formentòn), 5 dl di acqua (5 bicchieri), 9 g di sale, strutto di maiale (in mancanza olio di oliva). Mescolando delicatamente, incorporate alla farina il sale e l’acqua e ottenete un impasto morbido e cremoso. Riponete in una padella di ferro o antiaderente un po’ di strutto o un velo d’olio. Ponete sul fuoco. Quando lo strutto o l’olio saranno ben caldi, versate l’impasto con l’aiuto di un mescolino, andando a formare il fanzelto friggendolo da ambo le parti. Servite i fanzelti caldi accompagnandoli con formaggio e fette di luganega (o mortandela). Variante fanzelto bianco: è ammesso, in aggiunta alla ricetta tradizionale, uso di farina bianca e patate crude grattugiate, in piccole dosi, da mescolarsi all’impasto.
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Riduci
Fu la Serenissima a portarlo in Europa nel tardo Medioevo. La Valtellina è il suo habitat ideale. Privo di glutine, è cibo indispensabile per i celiaci Le sue proteine aiutano la mente e le difese immunitarie.Taragna, nera, chisciöi, fanzelti: il viaggio nelle polente nordiste. Ogni regione di montagna ha la sua specialità. Quella più diffusa si serve nell’Alta Lombardia rigorosamente con il formaggio Casera. Chi la vuole più nutriente sostituisce la panna all’acqua oppure aggiunge le patate.Lo speciale comprende due articoli. Oggi è normale nominare e trovare cereali o piante trattate come equivalenti senza glutine al posto del frumento: miglio, amaranto, quinoa, riso, mais, grano saraceno. Tra tutti questi, uno che appartiene alla nostra tradizione da più profonda e che, diversamente da riso e mais che vi appartengono ma sono graminacee, non è una graminacea: è il grano saraceno, anche detto grano nero. La pianta a fiore del grano saraceno, Fagopyrum esculentum, appartiene alla famiglia delle Poligonacee, la stessa del rabarbaro. Sull’altezza del fusto glabro della pianta, che va dai 60 ai 120 centimetri, svettano rami con infiorescenze apicali, verdi all’inizio del ciclo, poi bianche, rosa o rossicce, a seconda delle varietà. Si tratta di una bella pianta annuale (compie il ciclo biologico in 80-120 giorni) che, per le sue caratteristiche nutrizionali e l’impiego alimentare, consideriamo un cereale: quella dei cereali è una classificazione merceologica e non botanica. Un po’ come diceva Forrest Gump che stupido è chi lo stupido fa, consideriamo commercialmente cereale ciò che trattiamo come se lo fosse. Cioè le piante erbacee i cui frutti fortemente amidacei maciniamo per ottenere farina da usare per polente, pasta e pani. La stessa denominazione indica che questa farina, seppur non da graminacea, è per il gusto come quella da graminacea: esculentum in latino significa «buono da mangiare». Il grano saraceno è certamente più diffuso al Nord che al Sud Italia e la ragione sta nell’arrivo dal Nord Europa. Nel tardo Medioevo la pianta raggiunse l’Europa tramite le vie commerciali marittime: dalle coste del mar Nero arrivò a Venezia e Anversa. Nel XV secolo è documentata nel Meclemburgo e nell’Eifel tedeschi con il nome di heenisch, l’odierno heidenkorn, ossia «grano dei pagani», poiché introdotto da non cristiani provenienti dalle regioni asiatiche, che se ne nutrivano arrostendone i semi.Nelle regioni del Nordest, il nostro è documentato in Valtellina nel XVI secolo in un atto relativo alle proprietà della famiglia Besta di Teglio: si chiama «formentone», furmentùn, forse perché surrogato del frumento che cresce molto più velocemente del frumento vero e proprio oppure nel senso di surrogato meno pregiato del frumento. Il formentone si diffonde molto nel secolo successivo: è del 1621 la Grida sopra il formento sarasino emessa dal Duca d’Este di Modena il 15 luglio 1621 a favore del commerciante ebreo Donato Donati. In Valtellina, della quale il grano saraceno è oggi un prodotto identitario, il picco coltivatorio si raggiunge nel XX secolo, poi c’è un crollo in coincidenza con l’industrializzazione della produzione alimentare negli anni Cinquanta. Recentemente, con l’aumentare dell’attenzione alla tradizione e ai prodotti locali del territorio italiano, il grano saraceno sta tornando in auge, soprattutto in luoghi come Teglio e Baruffini, grazie anche all’Accademia del pizzocchero di Teglio e al presidio Slow food del grano saraceno della Valtellina.Fuor di Valtellina, ci sono i presidi Slow food del grano saraceno di Terragnolo, Trentino Alto Adige, con cui si fa il fanzelto, che è anche una Deco, e il grano saraceno della Valnerina in Umbria, con il quale si prepara una bella «pasta» e lenticchie che al posto della pasta prevede la farina di grano saraceno. Il grano saraceno è anche una pianta mellifera dalla quale si estrae un particolare miele monoflorale, non solo in Lettonia, dove il miele di grano saraceno è il miele nazionale: anche nella nostra Umbria si mielifica saraceno e, in generale, lo si fa ovunque ci sia grano saraceno in quantità. Il grano saraceno è certamente il protagonista assoluto dei pizzoccheri valtellinesi, ma anche di tante altre preparazioni locali, nonché straniere, come la soba, cioè i noodle giapponesi fatti con farina di grano saraceno (soba in giapponese vuol dire proprio grano saraceno). Oppure i bliny russi, e poi la grechnevaia kasa russa, polenta di grano saraceno in chicchi simile al porridge, anche detta kasha e grechka. Dal punto di vista nutrizionale, la prima e più rilevante caratteristica del grano saraceno è che non contiene glutine. Le farine non glutiniche oggi sono un’esigenza molto sentita, anche da parte di chi non è celiaco ma soffre di sensibilità al glutine. Il grano saraceno presenta 343 calorie ogni 100 grammi ed è composto soprattutto di amido (per il 25% amilosio e il 75% amilopectina): dal 71 al 78% nei fiocchi e dal 70 al 91% nei diversi tipi di farina (rispetto ad altri semi equiparati ai cereali come quinoa e amaranto, il saraceno è più ricco di amidi e meno di proteine). Per il 18% abbiamo proteine, con importante concentrazione di aminoacidi essenziali, specialmente lisina, treonina e triptofano, che ripristinano e mantengono il tono della massa muscolare, migliorano la funzione cognitiva e aumentano le difese immunitarie. Altrettanto utili a dar tono sono le vitamine del gruppo B e i sali minerali, in particolar modo il ferro (2,20 milligrammi ogni 100 grammi), lo zinco (2,40 milligrammi) e il selenio (8,3 microgrammi). Il grano saraceno contiene anche un importante antiossidante e antinfiammatorio, il glucoside rutina, che tonifica le pareti dei vasi capillari riducendo il rischio di emorragie negli ipertesi e migliorando la microcircolazione di chi soffre di insufficienza venosa cronica: grazie alla sua capacità di prevenire la formazione di aggregati di piastrine nel sangue può essere utile in caso di emorroidi e disturbi della coagulazione. Grazie all’effetto sul colesterolo, che è capace di ridurre, il grano saraceno aiuta ancora, indirettamente, il cuore. Grazie al D-chiro-inositolo, il grano saraceno può essere di aiuto nel diabete di tipo II e nella sindrome dell’ovaio policistico. Il grano saraceno è poi un’ottima fonte di fibre che aiutano la salute, l’efficienza e la regolarità dell’intestino. Il grano saraceno è un anche un allergene che può causare reazioni avverse in pazienti sensibilizzati. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/grano-saraceno-re-delle-farine-grazie-a-venezia-2656749309.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="taragna-nera-chiscioi-fanzelti-il-viaggio-nelle-polente-nordiste" data-post-id="2656749309" data-published-at="1645392034" data-use-pagination="False"> Taragna, nera, chisciöi, fanzelti: il viaggio nelle polente nordiste La polenta taragna è un piatto simbolo della tradizione montana. Anche chiamata semplicemente taragna, è una polenta di farina di mais e di farina di grano saraceno originaria della provincia di Bergamo, diffusa nell’Alta Lombardia e nelle province di Sondrio, Brescia e Lecco. Il nome deriva da «tarél», il bastone di legno con il quale la polenta si rimescola nel paiolo di rame rosso. Dal sito Valtellina.it ecco la ricetta della polenta taragna per 4 persone. Vi servono 400 g di farina di grano saraceno, 150 g di farina gialla, 400 g di burro d’alpe, 800 g di formaggio Valtellina Casera, 2 l di acqua, sale. In un paiolo di rame o di ghisa, portare a ebollizione l’acqua salata. Aggiungere a pioggia le farine precedentemente miscelate e, rimestando con l’aiuto di un mestolo di legno, preparare una polenta normale, cuocendola per circa un’ora. A fine cottura, ancora sul fuoco, aggiungere il burro. Far sciogliere, rimestare e aggiungere il formaggio Valtellina Casera e rimestare ancora la polenta per distribuire uniformemente al suo interno il formaggio. La polenta sarà cotta quando, rimestandola, si staccherà dai bordi del paiolo. Togliere quindi dalla fonte di calore, versarla sul tagliere e servire la polenta taragna molto calda. Non c’è solo una polenta taragna. Dal blog AmoLaValtellina, ecco i diversi tipi di polenta taragna in base alla località. Nella polenta in fiür la panna si sostituisce all’acqua, si tratta quindi di un piatto piuttosto nutriente. Per 4 persone, 1 litro di panna fresca, 700 g di farina nera di grano saraceno valtellinese, 400 g di formaggio Valtellina Casera, sale. Fate bollire la panna in un paiolo capiente, salatela. Versatevi la farina poca per volta, mescolatela aiutandovi con una frusta per evitare che si formino grumi. Quando il composto inizia a diventare piuttosto consistente, mescolate con un cucchiaio di legno. Quando sul fondo e sulle pareti si sarà formata una crosta da cui il composto si stacca facilmente, la polenta è cotta. Prima di toglierla dal fuoco aggiungete il formaggio tagliato a fette. Versatela sulla basla - il tipico piatto di portata in legno - prima che il formaggio si sia completamente sciolto. La polenta cröpa o crupa era preparata dai pastori negli alpeggi, è una variante della polenta in fiür e prevede l’aggiunta delle patate all’impasto di base con meno farina gialla. Per 4 persone, 400 g di patate, 600 g di farina nera, 100 g di farina gialla, 1 litro di panna, 400 g di formaggio semigrasso, sale. Fate bollire le patate con la buccia, sbucciatele e fatene una purea. A parte, fate bollire in un paiolo la panna e, quando bolle, aggiungete la purea di patate, la farina nera e una manciata di quella gialla fino a ottenere un composto di media consistenza. Cuocete per circa mezz’ora continuando a mescolare, aggiungete poi il formaggio tagliato a cubetti, lasciatelo sciogliere e rovesciate il tutto sulla basla. La polenta nera è un’ulteriore variante della polenta tradizionale; fatta interamente con la farina nera (quindi non mista) è caratterizzata dall’aggiunta di patate e formaggio. Per 4 persone, vi serve 1 litro di acqua, 600 g di farina nera, 100 g di burro, 200 g di formaggio semigrasso, 3 patate, sale. Portate a ebollizione l’acqua salata e fatevi lessare le patate. Quando saranno cotte schiacciatele e aggiungete la farina nera. Unite il burro e cuocete per un’ora. Pochi minuti prima di toglierla dal fuoco, aggiungete il formaggio a cubetti. Servite ben calda. Per la polenta taragna della Valchiavenna per 4 persone ci vogliono 300 g di farina bianca, 300 g di farina gialla, 300 g di farina nera, 600 g di burro, 300 g di Bitto, 300 g di Magnuca, sale, 200 g di Parmigiano. Versate le farine in acqua bollente salata (nell’apposito paiolo di rame). Cuocete per un’oretta. Unite i formaggi, fate sciogliere completamente e rovesciate la polenta sulla basla. Servite. Per la polenta concia per 4 persone: 600 g di farina mista (granoturco e grano saraceno), 1,5 l di acqua, sale grosso q.b., 300 g di Valtellina Casera, 250 g di Bitto, 300 g di burro, 100 g di Parmigiano grattugiato, 2 cipolle rosse. Versate l’acqua salata in un paiolo. Aggiungete 100 g di burro e portate a ebollizione. A quel punto versate a pioggia la farina mista gialla e nera e amalgamate con una frusta. Durante la cottura, per almeno 45 minuti, unite ancora 50 g di burro. A fine cottura unite i formaggi tagliati a pezzettini e il Parmigiano. Affettate finemente le cipolle e friggetele nel restante burro. Tagliate a fette la polenta calda e tra una fetta e l’altra mettete le cipolle e il Parmigiano. Per completare il viaggio nelle polente nordiche, ecco le ricette di due piatti che sembrano polente mescolate a freddo e poi fritte. Innanzitutto, i chisciöi valtellinesi, considerati la versione piatta degli sciatt valtellinesi (che sono tondi e fritti in immersione): per 4 persone, servono 300 g di farina di grano saraceno, 150 g di farina bianca, 250 g di Valtellina Casera poco stagionato, un bicchierino di grappa (facoltativo), acqua (2 bicchieri), strutto, sale. I chisciöi vanno cucinati in una padella di ferro. Preparare la pastella, unendo le farine e aggiungere grappa, acqua e sale fino a ottenere un impasto sufficientemente amalgamato e liquido (non troppo). Sciogliere nella padella lo strutto avendo cura che il fondo della padella sia ben coperto; lo strutto deve impedire ai chisciöi di attaccarsi sul fondo senza però sommergerli. Versare un cucchiaio di pastella in modo da formare frittelle di circa 5 cm di diametro, posarvi subito sopra una generosa fetta di formaggio (fatelo affondare con le dita) e infine coprire con un altro cucchiaio di pastella. Quando la pastella inizia a diventare croccante, girate la frittella per cuocerla dall’altro lato. I chisciöi saranno pronti quando saranno belli dorati. Servire caldi accompagnati da abbondante cicorino tagliato fine. Nei ristoranti e nelle famiglie si preparano anche chisciölin di dimensioni minori. Come molti piatti tradizionali, anche la preparazione dei chisciöi può variare nei paesi limitrofi o da famiglia a famiglia, ma le differenze rimangono minime. Nel 2006 è nata la Confraternita dei chisciöi per promuovere e diffondere questa specialità. Dal sito del Comune di Terragnolo (Trento), ecco la ricetta del fanzelto, che è anche una Deco. Per 12 fanzelti ci vogliono 350 g di grano saraceno (formentòn), 5 dl di acqua (5 bicchieri), 9 g di sale, strutto di maiale (in mancanza olio di oliva). Mescolando delicatamente, incorporate alla farina il sale e l’acqua e ottenete un impasto morbido e cremoso. Riponete in una padella di ferro o antiaderente un po’ di strutto o un velo d’olio. Ponete sul fuoco. Quando lo strutto o l’olio saranno ben caldi, versate l’impasto con l’aiuto di un mescolino, andando a formare il fanzelto friggendolo da ambo le parti. Servite i fanzelti caldi accompagnandoli con formaggio e fette di luganega (o mortandela). Variante fanzelto bianco: è ammesso, in aggiunta alla ricetta tradizionale, uso di farina bianca e patate crude grattugiate, in piccole dosi, da mescolarsi all’impasto.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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