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2024-12-24
Governo-giudici: secondo round sull’Albania
Giorgia Meloni (Ansa)
L’Albania è in cima alla lista dei buoni propositi per il 2025. Nella tarda mattinata di ieri, a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha presieduto una riunione sull’attuazione del protocollo con Tirana per i migranti. Hanno partecipato Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri; Matteo Piantedosi, titolare del Viminale; Guido Crosetto, ministro della Difesa; Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei; e il sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano. Il peso del parterre illustra il valore strategico attribuito dal governo all’hub di Shengjin e al Centro per i rimpatri di Gjadër. Struttura che le mancate convalide dei trattenimenti da parte dei giudici hanno svuotato, picconando un progetto sul quale la leader di Fdi ha investito soldi e reputazione.
«Il vertice», spiegava una nota della presidenza del Consiglio, «ha ribadito la ferma intenzione di continuare a lavorare, insieme ai partner Ue e in linea con le Conclusioni del Consiglio europeo dello scorso 19 dicembre, sulle cosiddette “soluzioni innovative” al fenomeno migratorio». Una strada sulla quale la Meloni ha registrato, a Bruxelles, un «forte consenso», emerso in occasione dell’incontro che si è svolto, a margine del summit Ue della settimana scorsa, «insieme ai primi ministri danese e olandese con gli Stati membri più interessati al tema». Tajani, che ieri è volato in Kosovo dai militari della missione Kfor, ha ribadito «il nostro impegno a seguire il percorso che anche l’Unione europea ha riconosciuto. Andremo avanti», ha aggiunto il capo della diplomazia italiana, «per contrastare i trafficanti di esseri umani, per il rispetto delle norme comunitarie. Le soluzioni innovative sono state apprezzate e vengono apprezzate anche da altri Paesi. Abbiamo avuto una sentenza della Corte che conferma la bontà delle scelte del governo».
Il ministro si riferiva al verdetto della Cassazione di giovedì scorso, che l’esecutivo ha accolto con entusiasmo. Gli ermellini, in effetti, hanno confermato che è il «circuito democratico della rappresentanza popolare», ossia la politica, a dover individuare i Paesi sicuri, nei quali è lecito rimandare gli immigrati con la procedura accelerata di rimpatrio. È un punto cruciale, perché il protocollo siglato con Edi Rama prevede che, al di là dell’Adriatico, siano condotti gli stranieri in età adulta, in buona salute, non vulnerabili, provenienti da uno Stato incluso nella lista governativa. Soltanto a costoro è possibile applicare l’iter veloce per il respingimento. La Suprema Corte ha precisato che i magistrati valuteranno caso per caso la situazione dei singoli ricorrenti, però ha chiarito - come hanno sottolineato dal Viminale - che il trattenimento nei Cpr si può negare solamente in presenza di una «puntuale istruttoria», qualora sussista un «manifesto contrasto» tra l’elenco dei Paesi sicuri e i «principi del diritto europeo e nazionale». È lecito disapplicare la normativa italiana solo se il richiedente asilo «abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza» del suo rimpatrio «nelle circostanze specifiche in cui egli si trova». Per intenderci: un egiziano chiede protezione in quanto omosessuale? Dovrà provare che, all’ombra delle piramidi, le minoranze Lbgt vengono perseguitate e che egli stesso rischia di essere preso di mira.
La Cassazione ha così fissato dei paletti all’arbitrio delle toghe, ringalluzzite dalla sentenza della Corte Ue di ottobre, la quale assegnava loro il compito di valutare la compatibilità della lista dei Paesi sicuri con il diritto europeo. I criteri indicati dagli ermellini dovrebbero aver messo al bando le sentenze-fotocopia, con cui sono stati fermati i trasbordi verso l’Albania. Il verdetto riguardava il precedente decreto ministeriale, snobbato dai giudici, in quanto fonte del diritto subordinata; a maggior ragione, varrà per il decreto legge, con cui il governo ha rafforzato la disciplina dei Paesi sicuri. Rimane sullo sfondo la prossima pronuncia delle toghe del Lussemburgo, attesa per metà 2025. Comunque, l’Ue dovrebbe giocare d’anticipo, aggiornando la sua «dottrina» sui Paesi sicuri a marzo.
Entro la prima decade di gennaio, invece, sarà completato il passaggio di competenze sui trattenimenti dalle sezioni immigrazione dei tribunali alle Corti d’Appello. È l’altro asso nella manica del governo: i giudici di seconda istanza non si sono occupati in maniera esclusiva di migranti e, auspicabilmente, non hanno trasformato quella per l’accoglienza in una battaglia ideologica personale; inoltre, nei gradi di giudizio superiore, in genere lavorano i magistrati più competenti ed esperti.
Le rinverdite speranze della Meloni hanno allarmato le opposizioni: se riuscisse l’operazione Albania, la sinistra finirebbe al tappeto. I 5 stelle, dunque, si sono scagliati contro una «propaganda che non risolve nulla»; Angelo Bonelli, di Avs, contestando l’interpretazione della sentenza della Cassazione, ha parlato di «analfabetismo giuridico» del premier; secondo Matteo Renzi, «è più facile credere a Babbo Natale che all’utilità dei centri albanesi». Da presidente del Consiglio, lui spalancò i porti in cambio del permesso dell’Europa a distribuire il bonus da 80 euro. Senza essere Santa Claus, ci rifilò un pacco.
Putin sta spostando in Cirenaica soldati e missili espulsi dalla Siria
L’assistenza al governo di accordo nazionale della Libia, nazione cruciale per l’immigrazione, la missione Miasit e la vicinanza ai nostri militari, per ringraziarli del loro impegno, che li tiene lontani da casa nel periodo delle festività. Sono gli scopi della visita in Libia del nostro capo di Stato maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, avvenuta ieri 23 dicembre. Accolto a Tripoli dall’ambasciatore italiano, Gianluca Alberini, e dal comandante Miasit, generale Luigi Tufano, Portolano ha incontrato l’omologo generale Mohamed Ali Elhaddad, con il quale ha discusso di come incrementare le capacità delle istituzioni locali e avviare la cooperazione per il supporto sanitario e umanitario, l’assistenza alle forze di sicurezza per la stabilità del Paese e di come continuare l’attività di addestramento del personale locale.
La caduta del regime siriano di Bashar al-Assad sta però cambiando la situazione: da due settimane, navi e aeroplani militari russi stanno smobilitando dalle basi siriane di Tartus e Hmeimin, facendo rotta su porti come Tobruk e basi come al-Khadim (Bengasi), dove comanda il generale Khalifa Haftar. Un fatto che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha così commentato: «Il ritiro delle forze russe dalla Siria potrebbe diventare un problema per l’Italia poiché il trasferimento avviene verso la Libia e questo può costituire una minaccia alla sicurezza. Le navi e i sottomarini russi nel Mediterraneo sono sempre una preoccupazione, ma ancora di più se sono a due passi da noi». L’ex presidente siriano Assad aveva firmato con Mosca un accordo nel 2017 per l’uso delle basi sul suo territorio, patto che pare congelato dal nuovo regime. Così Vladimir Putin, che da anni corteggia Haftar, starebbe trasferendo in territorio libico 1.500 uomini, ma anche sistemi missilistici S-300 e S-400. Vero è che la Libia è sempre stata una tappa intermedia dei voli militari tra la Russia e il resto dell’Africa, dove Mosca sostenere i golpisti della regione subsahariana, ma se Haftar accogliesse nuovi asset russi darebbe un pessimo segnale alla Nato, soprattutto dopo che, negli ultimi mesi, ha incontrato il funzionario statunitense Jeremy Berndt per discutere di riunificazione della Libia con la regione occidentale gestita dal governo di accordo nazionale, riconosciuto dall’Onu e presieduto dal primo ministro Abdul Hamid Dabaiba.
Al momento non pare esserci alcun accordo formale tra Haftar e Putin a suggellare queste operazioni, mentre ne esiste uno - simile a Miasit - che prevede la presenza di istruttori militari russi in Cirenaica per addestrare l’esercito nazionale libico.
La presenza russa in Libia non piace alla Turchia: il presidente Recep Erdogan ha sempre voluto essere protagonista del dopo Gheddafi armando le truppe dell’Ovest durante la guerra civile, ma Dabaiba respinge qualsiasi tentativo di trasformare il suo Paese in un centro per conflitti tra grandi potenze. Ha infatti convocato l’ambasciatore russo ribadendo: «Non daremo alcun permesso per trasferire qui asset militari poiché sarebbe un motivo per riaccendere la crisi interna».
Una delle preoccupazioni di Daibaba è seguire la linea dettata da Usa e Regno Unito per combattere la corruzione. Gli Stati Uniti hanno sospeso le transazioni in dollari della Federal Reserve Bank di New York verso la Banca centrale libica fino a quando non sarà nominato un revisore indipendente specializzato nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Ci sono sospetti di contrabbando di petrolio e di legami finanziari con Mosca.
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Riduci
Maxi vertice a Palazzo Chigi sul centro per i rimpatri balcanico: «Andiamo avanti, soluzione innovativa che nell’Ue apprezzano». Giorgia Meloni confida nei paletti messi ai magistrati dalla Cassazione e nel trasferimento di competenze alle Corti d’Appello da gennaio.Il generale Luciano Portolano in Libia per rafforzare la cooperazione, in vista della nuova sfida russa.Lo speciale contiene due articoli.L’Albania è in cima alla lista dei buoni propositi per il 2025. Nella tarda mattinata di ieri, a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha presieduto una riunione sull’attuazione del protocollo con Tirana per i migranti. Hanno partecipato Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri; Matteo Piantedosi, titolare del Viminale; Guido Crosetto, ministro della Difesa; Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei; e il sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano. Il peso del parterre illustra il valore strategico attribuito dal governo all’hub di Shengjin e al Centro per i rimpatri di Gjadër. Struttura che le mancate convalide dei trattenimenti da parte dei giudici hanno svuotato, picconando un progetto sul quale la leader di Fdi ha investito soldi e reputazione.«Il vertice», spiegava una nota della presidenza del Consiglio, «ha ribadito la ferma intenzione di continuare a lavorare, insieme ai partner Ue e in linea con le Conclusioni del Consiglio europeo dello scorso 19 dicembre, sulle cosiddette “soluzioni innovative” al fenomeno migratorio». Una strada sulla quale la Meloni ha registrato, a Bruxelles, un «forte consenso», emerso in occasione dell’incontro che si è svolto, a margine del summit Ue della settimana scorsa, «insieme ai primi ministri danese e olandese con gli Stati membri più interessati al tema». Tajani, che ieri è volato in Kosovo dai militari della missione Kfor, ha ribadito «il nostro impegno a seguire il percorso che anche l’Unione europea ha riconosciuto. Andremo avanti», ha aggiunto il capo della diplomazia italiana, «per contrastare i trafficanti di esseri umani, per il rispetto delle norme comunitarie. Le soluzioni innovative sono state apprezzate e vengono apprezzate anche da altri Paesi. Abbiamo avuto una sentenza della Corte che conferma la bontà delle scelte del governo».Il ministro si riferiva al verdetto della Cassazione di giovedì scorso, che l’esecutivo ha accolto con entusiasmo. Gli ermellini, in effetti, hanno confermato che è il «circuito democratico della rappresentanza popolare», ossia la politica, a dover individuare i Paesi sicuri, nei quali è lecito rimandare gli immigrati con la procedura accelerata di rimpatrio. È un punto cruciale, perché il protocollo siglato con Edi Rama prevede che, al di là dell’Adriatico, siano condotti gli stranieri in età adulta, in buona salute, non vulnerabili, provenienti da uno Stato incluso nella lista governativa. Soltanto a costoro è possibile applicare l’iter veloce per il respingimento. La Suprema Corte ha precisato che i magistrati valuteranno caso per caso la situazione dei singoli ricorrenti, però ha chiarito - come hanno sottolineato dal Viminale - che il trattenimento nei Cpr si può negare solamente in presenza di una «puntuale istruttoria», qualora sussista un «manifesto contrasto» tra l’elenco dei Paesi sicuri e i «principi del diritto europeo e nazionale». È lecito disapplicare la normativa italiana solo se il richiedente asilo «abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza» del suo rimpatrio «nelle circostanze specifiche in cui egli si trova». Per intenderci: un egiziano chiede protezione in quanto omosessuale? Dovrà provare che, all’ombra delle piramidi, le minoranze Lbgt vengono perseguitate e che egli stesso rischia di essere preso di mira.La Cassazione ha così fissato dei paletti all’arbitrio delle toghe, ringalluzzite dalla sentenza della Corte Ue di ottobre, la quale assegnava loro il compito di valutare la compatibilità della lista dei Paesi sicuri con il diritto europeo. I criteri indicati dagli ermellini dovrebbero aver messo al bando le sentenze-fotocopia, con cui sono stati fermati i trasbordi verso l’Albania. Il verdetto riguardava il precedente decreto ministeriale, snobbato dai giudici, in quanto fonte del diritto subordinata; a maggior ragione, varrà per il decreto legge, con cui il governo ha rafforzato la disciplina dei Paesi sicuri. Rimane sullo sfondo la prossima pronuncia delle toghe del Lussemburgo, attesa per metà 2025. Comunque, l’Ue dovrebbe giocare d’anticipo, aggiornando la sua «dottrina» sui Paesi sicuri a marzo. Entro la prima decade di gennaio, invece, sarà completato il passaggio di competenze sui trattenimenti dalle sezioni immigrazione dei tribunali alle Corti d’Appello. È l’altro asso nella manica del governo: i giudici di seconda istanza non si sono occupati in maniera esclusiva di migranti e, auspicabilmente, non hanno trasformato quella per l’accoglienza in una battaglia ideologica personale; inoltre, nei gradi di giudizio superiore, in genere lavorano i magistrati più competenti ed esperti.Le rinverdite speranze della Meloni hanno allarmato le opposizioni: se riuscisse l’operazione Albania, la sinistra finirebbe al tappeto. I 5 stelle, dunque, si sono scagliati contro una «propaganda che non risolve nulla»; Angelo Bonelli, di Avs, contestando l’interpretazione della sentenza della Cassazione, ha parlato di «analfabetismo giuridico» del premier; secondo Matteo Renzi, «è più facile credere a Babbo Natale che all’utilità dei centri albanesi». Da presidente del Consiglio, lui spalancò i porti in cambio del permesso dell’Europa a distribuire il bonus da 80 euro. Senza essere Santa Claus, ci rifilò un pacco.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/governo-giudici-secondo-round-albania-2670665454.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="putin-sta-spostando-in-cirenaica-soldati-e-missili-espulsi-dalla-siria" data-post-id="2670665454" data-published-at="1735027373" data-use-pagination="False"> Putin sta spostando in Cirenaica soldati e missili espulsi dalla Siria L’assistenza al governo di accordo nazionale della Libia, nazione cruciale per l’immigrazione, la missione Miasit e la vicinanza ai nostri militari, per ringraziarli del loro impegno, che li tiene lontani da casa nel periodo delle festività. Sono gli scopi della visita in Libia del nostro capo di Stato maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, avvenuta ieri 23 dicembre. Accolto a Tripoli dall’ambasciatore italiano, Gianluca Alberini, e dal comandante Miasit, generale Luigi Tufano, Portolano ha incontrato l’omologo generale Mohamed Ali Elhaddad, con il quale ha discusso di come incrementare le capacità delle istituzioni locali e avviare la cooperazione per il supporto sanitario e umanitario, l’assistenza alle forze di sicurezza per la stabilità del Paese e di come continuare l’attività di addestramento del personale locale. La caduta del regime siriano di Bashar al-Assad sta però cambiando la situazione: da due settimane, navi e aeroplani militari russi stanno smobilitando dalle basi siriane di Tartus e Hmeimin, facendo rotta su porti come Tobruk e basi come al-Khadim (Bengasi), dove comanda il generale Khalifa Haftar. Un fatto che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha così commentato: «Il ritiro delle forze russe dalla Siria potrebbe diventare un problema per l’Italia poiché il trasferimento avviene verso la Libia e questo può costituire una minaccia alla sicurezza. Le navi e i sottomarini russi nel Mediterraneo sono sempre una preoccupazione, ma ancora di più se sono a due passi da noi». L’ex presidente siriano Assad aveva firmato con Mosca un accordo nel 2017 per l’uso delle basi sul suo territorio, patto che pare congelato dal nuovo regime. Così Vladimir Putin, che da anni corteggia Haftar, starebbe trasferendo in territorio libico 1.500 uomini, ma anche sistemi missilistici S-300 e S-400. Vero è che la Libia è sempre stata una tappa intermedia dei voli militari tra la Russia e il resto dell’Africa, dove Mosca sostenere i golpisti della regione subsahariana, ma se Haftar accogliesse nuovi asset russi darebbe un pessimo segnale alla Nato, soprattutto dopo che, negli ultimi mesi, ha incontrato il funzionario statunitense Jeremy Berndt per discutere di riunificazione della Libia con la regione occidentale gestita dal governo di accordo nazionale, riconosciuto dall’Onu e presieduto dal primo ministro Abdul Hamid Dabaiba. Al momento non pare esserci alcun accordo formale tra Haftar e Putin a suggellare queste operazioni, mentre ne esiste uno - simile a Miasit - che prevede la presenza di istruttori militari russi in Cirenaica per addestrare l’esercito nazionale libico. La presenza russa in Libia non piace alla Turchia: il presidente Recep Erdogan ha sempre voluto essere protagonista del dopo Gheddafi armando le truppe dell’Ovest durante la guerra civile, ma Dabaiba respinge qualsiasi tentativo di trasformare il suo Paese in un centro per conflitti tra grandi potenze. Ha infatti convocato l’ambasciatore russo ribadendo: «Non daremo alcun permesso per trasferire qui asset militari poiché sarebbe un motivo per riaccendere la crisi interna». Una delle preoccupazioni di Daibaba è seguire la linea dettata da Usa e Regno Unito per combattere la corruzione. Gli Stati Uniti hanno sospeso le transazioni in dollari della Federal Reserve Bank di New York verso la Banca centrale libica fino a quando non sarà nominato un revisore indipendente specializzato nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Ci sono sospetti di contrabbando di petrolio e di legami finanziari con Mosca.
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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