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2018-04-15
Con la guerra durata un'oretta gli Usa si siedono al tavolo siriano
Parigi ha lanciato 12 missili da crociera sulla Siria. Gli altri 80 Tomahawk sono stati mandati a bersaglio da Stati Uniti e Gran Bretagna dopo che unilateralmente il trio ha deciso che anche senza prove certe sull'uso di gas chimici era necessario intervenire e bombardare la periferia di Damasco. «L'attacco è stato eseguito perfettamente. Missione compiuta», ha commentato su Twitter Donald Trump di fatto lasciando il campo libero a Emmanuel Macron che, utilizzando per la prima volta missili di tale portata in una situazione reale, è riuscito così a conquistare il proprio posto al sole in Medioriente. «La linea rossa fissata dalla Francia nel maggio 2017 è stata oltrepassata», ha detto il presidente francese, mentre da parte sua, la premier britannica Theresa May ha chiarito che lo scopo dell'azione «non è un cambio di regime», ma dissuadere il numero uno di Damasco, Bashar Al Assad, dal fare uso di armi chimiche e ammonire che non ci può essere «impunità» al riguardo.
Al di là delle parole, il blitz -della durata di un'ora - avrebbe colpito tre obiettivi legati alla produzione o stoccaggio di armi chimiche: un centro di ricerca scientifica e allontanandosi dalla capitale un sito industriale a ovest della città di Homs. Nessun punto sensibile né per i russi né per gli iraniani è stato sfiorato, segno che l'intervento ha soltanto uno scopo politico. Tanto più che la versione di Mosca sull'attacco ha aperto numerosi punti oscuri, a partire dalle modalità del coordinamento dell'azione e dal fatto che questa sia stata preventivamente comunicata al Cremlino: una circostanza negata dal capo di Stato maggiore delle forze armate americane, Joseph Dunford, sostenuta dal ministro della Difesa francese, Florence Parly e poi pure dal Pentagono. Una quarta versione è arrivata dall'ambasciatore americano Jon Huntsman il quale ha riferito che Washington avrebbe contattato la Russia poco prima dell'attacco solo per evitare vittime fra i militari russi e la popolazione civile.
Non conosceremo mai l'esatta dinamica. Ma per la sostanza delle nuove mosse geopolitiche è quasi irrilevante. Le sacche di territorio ancora controllate dall'Isis si sono quasi dissolte e quando ci sarà un tavolo per trattare la prossima pace (più o meno lontana nel tempo) con la mossa dell'altra notte potranno sedersi oltre a Russia, Turchia, Arabia Saudita anche gli Usa che negli ultimi tempi si erano sfilati e ovviamente la Francia. Londra si accontenterà di stare in scia a Washington. Sempre che il blitz non inneschi reazioni al momento impreviste.
Gran parte dei missili sono stati intercettati e distrutti dai sistemi di difesa siriani, tutti «fabbricati in Urrs oltre 30 anni fa», ha detto Vladimir Putin parlando comunque di aggressione. Anche Teheran, l'altro grande alleato di Assad, ha fatto sapere che «gli Stati Uniti e i loro alleati sono responsabili per le conseguenze regionali che seguiranno all'attacco», con la guida suprema Khamenei che ha definito Trump, Macron e May «criminali». E mentre il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha invitato alla «moderazione e alla responsabilità», il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dato il suo sostegno all'operazione. In serata tensione al consiglio di sicurezza Onu tra Usa e Russia, con la rappresentante americana Nikki Haley che ha detto: «Pronti a nuovi raid se la Siria userà ancora i gas».
Un appoggio all'attacco era arrivato con una frase sibillina pure da Angela Merkel: «Risposta necessaria e appropriata in caso di attacchi chimici». È la prima volta che la cancelliera apre bocca per una dichiarazione ufficiale. Un atto praticamente dovuto anche se imposto dallo scatto in avanti fatto da Macron. Berlino e Parigi hanno rotto il fronte europeo archiviando una volta per tutte l'ipotesi di esercito unico Ue e di Difesa comune ma soprattutto hanno creato una faglia tra gli interessi in gioco.
Da un lato la Germania è nella sfera russa, iraniana e cinese (il Dragone ha inviato le sue navi di fronte a Damasco in sostegno della coalizione pro Assad). Dall'altro, la Francia, con Inghilterra, è stabilmente nella sfera americana. Un nuovo scenario che impatta anche sulle relazioni all'interno della lega araba e di tutti i Paesi mediorientali. Ieri Recepp Erdogan, il numero uno di Ankara, si è limitato a gettare acqua sul fuoco, mentre il Qatar ha addirittura rilasciato una nota ufficiale per definirsi a fianco di Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Doha non poteva fare diversamente. Macron nelle ultime settimane ha sterzato verso l'Arabia Saudita e Hamid Bin Al Thani ha imparato la lezione subita la scorsa estate dopo essere stato messo in un angolo da Ryad e Trump. Le bombe su Damasco dell'altra notte hanno avuto anche questo effetto politico: riallineare il Qatar all'Arabia Saudita che nell'area è sempre più la potenza di riferimento. Non a caso ieri, nonostante un attentato subito in casa, il capo dell'Egitto Abdel Fatah Al Sisi, si è recato a Dammam per discutere di una serie di temi che richiedono l'unità di tutti di Stati membri della Lega: principalmente Siria e Libia. Se il primo scenario è in evoluzione il secondo, quello di Tripoli e Tobruk, è tutto ancora da definire. Molto si capirà dalle reali condizioni del generale Khalifa Haftar, ricoverato a Parigi. Fino a oggi la Cirenaica è stata filo Doha e vicina alla Russia oltre che alla Francia. I punti di riferimento sono tutti cambiati ora.
Claudio Antonelli
In trincea adesso ci è finito il centrodestra
I partiti divisi su tutto. Poi, all'improvviso, una crisi internazionale che rimescola le carte, le cancellerie straniere che fischiano la fine della ricreazione. Un democristiano al Colle che rimette insieme i cocci della solita Italietta divisa. Dopo i bombardamenti della notte in Siria da parte degli Stati Uniti di Donald Trump, con la Russia di Vladimir Putin che fa la voce grossa e minaccia «conseguenze», l'Italia torna in piena Prima Repubblica. Tutti spaventati di dispiacere Washington, Londra e Parigi, con l'eccezione di Matteo Salvini, immediatamente sgridato da Silvio Berlusconi, e Luigi Di Maio, che parla come Arnaldo Forlani e prega in cuor suo che nessuno ci chieda le basi di Sigonella. Che se no, Grillo e Alessandro Di Battista chi li tiene più? Ma il tema è ancora una volta la divisione del centrodestra, sempre più difficile da nascondere.
Va detto che, uso delle basi militari a parte, a nessuno nel mondo importa che cosa pensano i leader politici italiani della crisi siriana. Ma Sergio Mattarella era preoccupato da giorni, più che altro per possibili dibattiti sguaiati tra le forze politiche su temi come la politica estera e le alleanze internazionali.
Ieri nessuno è andato sopra le righe. Anzi. Chi sperava, tra i detrattori del Movimento 5 stelle, di godersi una bella sfuriata di Di Battista, che ancora l'anno scorso ripeteva che «Su Assad e le armi chimiche non ci sono prove», ha invece dovuto registrare le ennesime parole da giovane vecchio di Di Maio. Il candidato premier ha garantito: «Restiamo al fianco dei nostri alleati, soprattutto perché in questa fase delicatissima credo che l'Ue debba avere la forza di farsi vedere compatta e unita anche nell'invitare le Nazioni unite a compiere ispezioni sul terreno in Siria affinché si accertino le responsabilità sull'uso di armi chimiche da parte di Assad». E per finire, dalla grisaglia alla papalina: «Siamo preoccupati per quel che sta accadendo e riteniamo che in Siria occorra accelerare con urgenza il lavoro della diplomazia, incrementando i canali di assistenza umanitaria». Per queste dichiarazioni ha avuto il plauso di Pier Ferdinando Casini («parole responsabili»), che per la pancia grillina non è esattamente una medaglia.
Ma M5s ritiene giusto o sbagliato l'intervento in Siria? Nel programma aggiornato al 2017 c'era anche la politica estera e la linea era abbastanza chiara: niente esportazione di democrazia a mano armata e quando c'è un dittatore, aspettare che il suo popolo lo rovesci.
E sulla Siria di Assad, sfoggio di grande scetticismo. Ancora a marzo scorso, Di Battista ripeteva in tv che sui presunti crimini del presidente siriano non c'erano prove e quando a Piazza Pulita, su La7, Corrado Formigli gli mostrò una serie di immagini di bambini siriani morti per i gas, il colonnello penstastellato rispose sventolando una bella fotografia di Giorgio Napolitano a pranzo con Assad, nel 2010. La faccenda si chiuse lì.
Di Maio, però, non è certo l'unico a essere sotto esame in queste ore. Salvini ha ribadito di condividere la scelta del non intervento del governo italiano, al pari di quello di Angela Merkel, ma non ha resistito alla tentazione di confermare il pieno appoggio della Lega alle tesi di Mosca, ovvero che la storia dell'uso di armi cliniche sia una bufala per colpire Assad, «dando fiato ai terroristi islamici».
Invece in casa Pd, dove fino a poche settimane fa la linea era sempre stata anti Assad, aspettano che sia il Palazzo di Vetro o Bruxelles a toglierci le castagne dal fuoco. Il segretario reggente Maurizio Martina ha twittato: «Sulla Siria sostegno al governo e all'azione diplomatica di Onu e Ue. Inaccettabile l'uso di armi chimiche del regime». Bene sulle armi chimiche, ma la notizia del giorno erano i missili.
E dai missili si passa ai fumogeni se si torna nel centrodestra, con l'ennesimo duello tra Salvini e «l'alleato» Berlusconi. Nessuno può dargli lezioni di amicizia con Putin, ma ieri il Cavaliere ha approfittato dell'occasione per trattare il leader della Lega come un ragazzetto. Quando gli hanno riportato le dichiarazioni di Salvini, ha scosso la testa: «Questo è il momento di non pensare e di non parlare. In questa situazione italiana è meglio che lasciamo intervenire l'Onu, che dirà quello che emergerà dalle prove». Improvvisamente, tutti appassionati sostenitori dell'Onu. Ma non è stata zitta neppure Giorgia Meloni. Il capo di Fratelli d'Italia ha scritto che «l'attacco in Siria è fuori dalla legalità internazionale, in assenza di un pronunciamento dell'Onu sui presunti attacchi chimici».
Il sospetto di Salvini è che tutta questa improvvisa prudenza da euro-statista del Cavaliere nasconda un progetto di alleanza con il Pd renziano, che metterebbe Berlusconi di nuovo al centro di tutto. E se i grillini sono i primi a sospettare che Mattarella stia cercando di approfittare della crisi siriana per far digerire alle forze «populiste» nuovi governi nati in provetta, e quindi predicano calma, invece il leader leghista crede nella svolta. «La crisi siriana porta un'accelerazione sulla formazione del nuovo governo», sostiene Salvini, che chiude la porta a qualsiasi governo tecnico o istituzionale.
Così l'accelerata che vuole la Lega serve probabilmente a impedire che Forza Italia e Pd trovino un'intesa oggi ancora acerba «e ci si dimentichi chi ha vinto le elezioni», come dicono nel Carroccio. Dove già si immaginano con terrore Berlusconi che dirige con le mani anche il traffico aereo di Sigonella.
Francesco Bonazzi
Ora ripensiamo le nostre alleanze
Gli erotomani del conflitto questa notte si sono soddisfatti: fantozzianamente seduti in poltrona hanno vibromassaggiato anche alcune catene neuronali seguendo gli annunci televisivi dell'attacco sulla Siria, mentre «la Pina», moglie devota russicchiava sommessa nel letto di famiglia. Con grande indignazione del baldo marito, che nel russare quieto trovava un'assonanza politica troppo a favore della Russia putiniana, quasi il raffreddore muliere fosse un rimprovero sotteso. Ma che sfogo, dopo giorni di fibrillazione virtuale sul Web, in un conto alla rovescia collettivo che sfibrava i nervi nell'attesa, finalmente hanno colpito e l'eccitazione è virilmente esplosa.
Così fu anche durante l'attacco a Baghdad: quella notte in cui a tanti sembrò essere il dottor Stranamore che precipitava sul bersaglio a cavallo della bomba. Così come sempre si ripete nelle guerre in cui il primo missile è mediatico e poi, anche, forse, di metallo e fuoco: quest'ultimo tuttavia con una potenza che non si misura in quantità di tritolo equivalente, ma in quantità di share mediatizzata.
Così è stato dunque anche oggi. La guerra mediatizzata è la Guerra Ibrida nella quale ci si confronta dal 2001 con specifiche competenze comunicative. Ieri, Donald Trump ha deciso di parlare alla nazione annunciando l'attacco alle ore 21: solo la sua dichiarazione lo ha reso concreto e reale, alle nove di sera nel periodo di massima audience del suo pubblico interno, americano. Come era stato fatto l'11 settembre 2001, quando erano state scelte le nove del mattino, dodici ore di anticipo rispetto a ieri, perché l'evento potesse andare in diretta per l'audience esterna, globale, massimizzando l'effetto del fuso orario.
Insomma, la guerra è comunicazione, anzi: la comunicazione è guerra. Le ragioni di quanto accaduto in Siria non le esploro: lo stanno facendo in tanti. Ricordando gli interessi di tutti i contendenti per le pipeline di gas che movimentano su opposti fronti economici, prima ancora che religiosi, iraniani e sauditi con i reciproci alleati o la necessità di ricinetizzare una guerra che poteva terminare troppo presto senza avere ridefinito gli assetti di potere globale, nella fatidica crisi del settimo anno che colpisce ogni unione.
Su questi scenari si dipanano le alleanze funzionali in un'alternanza frenetica dove impropriamente lo spettatore confonde l'alleato con l'amico. Nulla di più falso: l'alleanza è una forma strumentale di reciproca utilità temporanea tra partner tesi a consolidare i propri interessi. Non confondiamo le narrative dell'alleato amico fraterno con cui combattere spalla a spalla propinate a chi lotta, con la realtà sostanziale del patto d'alleanza contrattato con clausole specifiche, redatto da chi il combattimento lo gestisce.
In sintesi la giustificazioni dell'attacco franco-britannico-americano rappresentano una azione non logica «paretiana», mossa da «residui» spiegati dall'intero sistema di «derivazioni»: il gas è stato usato l'ha detto subito Trump («figurati se non lo sa!»), e poi anche Emmanuel Macron («così carino e che parla bene») ne è sicuro, dunque la linea rossa dell'innominabile («siamo andasti oltre ogni principio!») è stata superata e pertanto si deve fare così («a questo punto non resta altro»). Grazie Vilfredo Pareto, perché «paretiana» è appunto l'ispirazione della narrativa pubblica per la produzione del consenso, per permettere lo schieramento. Non la sostanza che ha invece lanciato l'azione in questo quadro di alleanze, misurata sulle necessità degli scenari energetici e di potere che ho accennato. Povera Italia, non mi resta che dire perché i missili sulla Siria possono diventare i razzi, veri, per il nostro Paese.
Mai come in questi giorni è risuonata la parola Occidente come richiamo alla bandiera, alla identità che dovrebbe farci muovere tutti insieme, ovviamente schierati per l'alleanza santa e punitrice. Subito abbiamo assistito a una rapida conversione atlantista del Movimento 5 stelle, già da tempo coltivato dagli americani per la sua potenziale utilità e per una certa consonanza spiritatamente messianica che condividono, senza se e senza ma nell'appoggio all'azione «trump-ettiana». Nella medesima linea la pasionaria datata di +Europa non smentisce la tradizione acritica delle sue radici, fertilizzate nei tempi da consistenti concimi americani. Infine il Pd, che può finalmente ergersi con tutta la potente messe dei suoi consensi a paladino dell'Occidente, che per decenni, per quella gente, era stato solo una espressione geografica, non altro.
Eccoci finalmente di fronte a uno schieramento atlantista, che può solo ingrassare, che ha i numeri per stabilizzare l'Italia, darle un governo nell'ora buia, perché riconfermi l'alleanza storica con l'altra sponda dell'Atlantico. Senza pensarci troppo. Calma e gesso diciamo a Milano. Infatti, la crisi di questi giorni fornisce una grande occasione al mondo, a noi europei per primi, che è quella di non dare per scontata alcuna delle alleanze tradizionali: rimettiamole in gioco, sono contratti, sulla base dell'utilità reciproca che ormai, qualora ai tempi ci fosse stata per entrambi, ormai si è ampiamente logorata nel nuovo sistema globale.
Oggi, una riconsiderazione di dove collocarsi tra New York e San Pietroburgo è possibile, è opportuna, soprattutto deve essere consapevole per le sue conseguenze. A questo punto meglio non avere un governo. Tiriamo per le lunghe.
Lo schieramento dell'alleanza, con il supporto fantasma degli americani, consoliderebbe un'Italia quiescente, allineata, adeguata, adagiata, utilizzata, sfruttata come finora è stato: l'attacco alla Siria sarebbe la rivoluzione del non cambiamento delle alleanze Usa. Lo schieramento alternativo contiene solo in Matteo Salvini i germi della riflessione critica internazionale, molto deboli negli altri alleati. Dunque: a questo punto meglio non avere un governo. Tiriamo per le lunghe. Lasciamo a un governo «degli affari correnti» il prendere posizioni contingenti che potremo sempre smentire. Dopo. Per non perdere questa occasione epocale che porta l'Italia a non vivere più delle conseguenze scritte in una guerra mondiale che oramai è passata alla storia per essere stata la penultima.
Marco Lombardi
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Un centinaio di missili, obiettivi circoscritti, la Russia avvisata per tempo. America, Francia e Inghilterra parlano di «missione compiuta». In realtà Bashar Al Assad è ancora lì ma ora Donald Trump avrà voce in capitolo sulla pace. Lo schieramento atlantista si è affrettato a giurare fedeltà incondizionata agli Stati Uniti per l'ennesima volta Il prossimo governo potrebbe cambiare le carte in tavola, portandoci a scegliere in libertà amici e nemici.La differenza di lettura dell'attacco scava il solco tra Lega e Forza Italia. Matteo Salvini: «Così si fomentano i terroristi». Silvio Berlusconi: «Era meglio se taceva». Luigi Di Maio, invece, fa l'atlantista: «Vicini ai nostri alleati». Avanza l'ipotesi del governissimo con il Pd che piace al Cav. Lo speciale contiene tre articoli. Parigi ha lanciato 12 missili da crociera sulla Siria. Gli altri 80 Tomahawk sono stati mandati a bersaglio da Stati Uniti e Gran Bretagna dopo che unilateralmente il trio ha deciso che anche senza prove certe sull'uso di gas chimici era necessario intervenire e bombardare la periferia di Damasco. «L'attacco è stato eseguito perfettamente. Missione compiuta», ha commentato su Twitter Donald Trump di fatto lasciando il campo libero a Emmanuel Macron che, utilizzando per la prima volta missili di tale portata in una situazione reale, è riuscito così a conquistare il proprio posto al sole in Medioriente. «La linea rossa fissata dalla Francia nel maggio 2017 è stata oltrepassata», ha detto il presidente francese, mentre da parte sua, la premier britannica Theresa May ha chiarito che lo scopo dell'azione «non è un cambio di regime», ma dissuadere il numero uno di Damasco, Bashar Al Assad, dal fare uso di armi chimiche e ammonire che non ci può essere «impunità» al riguardo. Al di là delle parole, il blitz -della durata di un'ora - avrebbe colpito tre obiettivi legati alla produzione o stoccaggio di armi chimiche: un centro di ricerca scientifica e allontanandosi dalla capitale un sito industriale a ovest della città di Homs. Nessun punto sensibile né per i russi né per gli iraniani è stato sfiorato, segno che l'intervento ha soltanto uno scopo politico. Tanto più che la versione di Mosca sull'attacco ha aperto numerosi punti oscuri, a partire dalle modalità del coordinamento dell'azione e dal fatto che questa sia stata preventivamente comunicata al Cremlino: una circostanza negata dal capo di Stato maggiore delle forze armate americane, Joseph Dunford, sostenuta dal ministro della Difesa francese, Florence Parly e poi pure dal Pentagono. Una quarta versione è arrivata dall'ambasciatore americano Jon Huntsman il quale ha riferito che Washington avrebbe contattato la Russia poco prima dell'attacco solo per evitare vittime fra i militari russi e la popolazione civile. Non conosceremo mai l'esatta dinamica. Ma per la sostanza delle nuove mosse geopolitiche è quasi irrilevante. Le sacche di territorio ancora controllate dall'Isis si sono quasi dissolte e quando ci sarà un tavolo per trattare la prossima pace (più o meno lontana nel tempo) con la mossa dell'altra notte potranno sedersi oltre a Russia, Turchia, Arabia Saudita anche gli Usa che negli ultimi tempi si erano sfilati e ovviamente la Francia. Londra si accontenterà di stare in scia a Washington. Sempre che il blitz non inneschi reazioni al momento impreviste. Gran parte dei missili sono stati intercettati e distrutti dai sistemi di difesa siriani, tutti «fabbricati in Urrs oltre 30 anni fa», ha detto Vladimir Putin parlando comunque di aggressione. Anche Teheran, l'altro grande alleato di Assad, ha fatto sapere che «gli Stati Uniti e i loro alleati sono responsabili per le conseguenze regionali che seguiranno all'attacco», con la guida suprema Khamenei che ha definito Trump, Macron e May «criminali». E mentre il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha invitato alla «moderazione e alla responsabilità», il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dato il suo sostegno all'operazione. In serata tensione al consiglio di sicurezza Onu tra Usa e Russia, con la rappresentante americana Nikki Haley che ha detto: «Pronti a nuovi raid se la Siria userà ancora i gas». Un appoggio all'attacco era arrivato con una frase sibillina pure da Angela Merkel: «Risposta necessaria e appropriata in caso di attacchi chimici». È la prima volta che la cancelliera apre bocca per una dichiarazione ufficiale. Un atto praticamente dovuto anche se imposto dallo scatto in avanti fatto da Macron. Berlino e Parigi hanno rotto il fronte europeo archiviando una volta per tutte l'ipotesi di esercito unico Ue e di Difesa comune ma soprattutto hanno creato una faglia tra gli interessi in gioco. Da un lato la Germania è nella sfera russa, iraniana e cinese (il Dragone ha inviato le sue navi di fronte a Damasco in sostegno della coalizione pro Assad). Dall'altro, la Francia, con Inghilterra, è stabilmente nella sfera americana. Un nuovo scenario che impatta anche sulle relazioni all'interno della lega araba e di tutti i Paesi mediorientali. Ieri Recepp Erdogan, il numero uno di Ankara, si è limitato a gettare acqua sul fuoco, mentre il Qatar ha addirittura rilasciato una nota ufficiale per definirsi a fianco di Stati Uniti, Francia e Inghilterra. Doha non poteva fare diversamente. Macron nelle ultime settimane ha sterzato verso l'Arabia Saudita e Hamid Bin Al Thani ha imparato la lezione subita la scorsa estate dopo essere stato messo in un angolo da Ryad e Trump. Le bombe su Damasco dell'altra notte hanno avuto anche questo effetto politico: riallineare il Qatar all'Arabia Saudita che nell'area è sempre più la potenza di riferimento. Non a caso ieri, nonostante un attentato subito in casa, il capo dell'Egitto Abdel Fatah Al Sisi, si è recato a Dammam per discutere di una serie di temi che richiedono l'unità di tutti di Stati membri della Lega: principalmente Siria e Libia. Se il primo scenario è in evoluzione il secondo, quello di Tripoli e Tobruk, è tutto ancora da definire. Molto si capirà dalle reali condizioni del generale Khalifa Haftar, ricoverato a Parigi. Fino a oggi la Cirenaica è stata filo Doha e vicina alla Russia oltre che alla Francia. I punti di riferimento sono tutti cambiati ora. 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Tutti spaventati di dispiacere Washington, Londra e Parigi, con l'eccezione di Matteo Salvini, immediatamente sgridato da Silvio Berlusconi, e Luigi Di Maio, che parla come Arnaldo Forlani e prega in cuor suo che nessuno ci chieda le basi di Sigonella. Che se no, Grillo e Alessandro Di Battista chi li tiene più? Ma il tema è ancora una volta la divisione del centrodestra, sempre più difficile da nascondere.Va detto che, uso delle basi militari a parte, a nessuno nel mondo importa che cosa pensano i leader politici italiani della crisi siriana. Ma Sergio Mattarella era preoccupato da giorni, più che altro per possibili dibattiti sguaiati tra le forze politiche su temi come la politica estera e le alleanze internazionali.Ieri nessuno è andato sopra le righe. Anzi. Chi sperava, tra i detrattori del Movimento 5 stelle, di godersi una bella sfuriata di Di Battista, che ancora l'anno scorso ripeteva che «Su Assad e le armi chimiche non ci sono prove», ha invece dovuto registrare le ennesime parole da giovane vecchio di Di Maio. Il candidato premier ha garantito: «Restiamo al fianco dei nostri alleati, soprattutto perché in questa fase delicatissima credo che l'Ue debba avere la forza di farsi vedere compatta e unita anche nell'invitare le Nazioni unite a compiere ispezioni sul terreno in Siria affinché si accertino le responsabilità sull'uso di armi chimiche da parte di Assad». E per finire, dalla grisaglia alla papalina: «Siamo preoccupati per quel che sta accadendo e riteniamo che in Siria occorra accelerare con urgenza il lavoro della diplomazia, incrementando i canali di assistenza umanitaria». Per queste dichiarazioni ha avuto il plauso di Pier Ferdinando Casini («parole responsabili»), che per la pancia grillina non è esattamente una medaglia.Ma M5s ritiene giusto o sbagliato l'intervento in Siria? Nel programma aggiornato al 2017 c'era anche la politica estera e la linea era abbastanza chiara: niente esportazione di democrazia a mano armata e quando c'è un dittatore, aspettare che il suo popolo lo rovesci.E sulla Siria di Assad, sfoggio di grande scetticismo. Ancora a marzo scorso, Di Battista ripeteva in tv che sui presunti crimini del presidente siriano non c'erano prove e quando a Piazza Pulita, su La7, Corrado Formigli gli mostrò una serie di immagini di bambini siriani morti per i gas, il colonnello penstastellato rispose sventolando una bella fotografia di Giorgio Napolitano a pranzo con Assad, nel 2010. La faccenda si chiuse lì.Di Maio, però, non è certo l'unico a essere sotto esame in queste ore. Salvini ha ribadito di condividere la scelta del non intervento del governo italiano, al pari di quello di Angela Merkel, ma non ha resistito alla tentazione di confermare il pieno appoggio della Lega alle tesi di Mosca, ovvero che la storia dell'uso di armi cliniche sia una bufala per colpire Assad, «dando fiato ai terroristi islamici».Invece in casa Pd, dove fino a poche settimane fa la linea era sempre stata anti Assad, aspettano che sia il Palazzo di Vetro o Bruxelles a toglierci le castagne dal fuoco. Il segretario reggente Maurizio Martina ha twittato: «Sulla Siria sostegno al governo e all'azione diplomatica di Onu e Ue. Inaccettabile l'uso di armi chimiche del regime». Bene sulle armi chimiche, ma la notizia del giorno erano i missili.E dai missili si passa ai fumogeni se si torna nel centrodestra, con l'ennesimo duello tra Salvini e «l'alleato» Berlusconi. Nessuno può dargli lezioni di amicizia con Putin, ma ieri il Cavaliere ha approfittato dell'occasione per trattare il leader della Lega come un ragazzetto. Quando gli hanno riportato le dichiarazioni di Salvini, ha scosso la testa: «Questo è il momento di non pensare e di non parlare. In questa situazione italiana è meglio che lasciamo intervenire l'Onu, che dirà quello che emergerà dalle prove». Improvvisamente, tutti appassionati sostenitori dell'Onu. Ma non è stata zitta neppure Giorgia Meloni. Il capo di Fratelli d'Italia ha scritto che «l'attacco in Siria è fuori dalla legalità internazionale, in assenza di un pronunciamento dell'Onu sui presunti attacchi chimici».Il sospetto di Salvini è che tutta questa improvvisa prudenza da euro-statista del Cavaliere nasconda un progetto di alleanza con il Pd renziano, che metterebbe Berlusconi di nuovo al centro di tutto. E se i grillini sono i primi a sospettare che Mattarella stia cercando di approfittare della crisi siriana per far digerire alle forze «populiste» nuovi governi nati in provetta, e quindi predicano calma, invece il leader leghista crede nella svolta. «La crisi siriana porta un'accelerazione sulla formazione del nuovo governo», sostiene Salvini, che chiude la porta a qualsiasi governo tecnico o istituzionale.Così l'accelerata che vuole la Lega serve probabilmente a impedire che Forza Italia e Pd trovino un'intesa oggi ancora acerba «e ci si dimentichi chi ha vinto le elezioni», come dicono nel Carroccio. 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Ma che sfogo, dopo giorni di fibrillazione virtuale sul Web, in un conto alla rovescia collettivo che sfibrava i nervi nell'attesa, finalmente hanno colpito e l'eccitazione è virilmente esplosa. Così fu anche durante l'attacco a Baghdad: quella notte in cui a tanti sembrò essere il dottor Stranamore che precipitava sul bersaglio a cavallo della bomba. Così come sempre si ripete nelle guerre in cui il primo missile è mediatico e poi, anche, forse, di metallo e fuoco: quest'ultimo tuttavia con una potenza che non si misura in quantità di tritolo equivalente, ma in quantità di share mediatizzata. Così è stato dunque anche oggi. La guerra mediatizzata è la Guerra Ibrida nella quale ci si confronta dal 2001 con specifiche competenze comunicative. Ieri, Donald Trump ha deciso di parlare alla nazione annunciando l'attacco alle ore 21: solo la sua dichiarazione lo ha reso concreto e reale, alle nove di sera nel periodo di massima audience del suo pubblico interno, americano. Come era stato fatto l'11 settembre 2001, quando erano state scelte le nove del mattino, dodici ore di anticipo rispetto a ieri, perché l'evento potesse andare in diretta per l'audience esterna, globale, massimizzando l'effetto del fuso orario. Insomma, la guerra è comunicazione, anzi: la comunicazione è guerra. Le ragioni di quanto accaduto in Siria non le esploro: lo stanno facendo in tanti. Ricordando gli interessi di tutti i contendenti per le pipeline di gas che movimentano su opposti fronti economici, prima ancora che religiosi, iraniani e sauditi con i reciproci alleati o la necessità di ricinetizzare una guerra che poteva terminare troppo presto senza avere ridefinito gli assetti di potere globale, nella fatidica crisi del settimo anno che colpisce ogni unione. Su questi scenari si dipanano le alleanze funzionali in un'alternanza frenetica dove impropriamente lo spettatore confonde l'alleato con l'amico. Nulla di più falso: l'alleanza è una forma strumentale di reciproca utilità temporanea tra partner tesi a consolidare i propri interessi. Non confondiamo le narrative dell'alleato amico fraterno con cui combattere spalla a spalla propinate a chi lotta, con la realtà sostanziale del patto d'alleanza contrattato con clausole specifiche, redatto da chi il combattimento lo gestisce. In sintesi la giustificazioni dell'attacco franco-britannico-americano rappresentano una azione non logica «paretiana», mossa da «residui» spiegati dall'intero sistema di «derivazioni»: il gas è stato usato l'ha detto subito Trump («figurati se non lo sa!»), e poi anche Emmanuel Macron («così carino e che parla bene») ne è sicuro, dunque la linea rossa dell'innominabile («siamo andasti oltre ogni principio!») è stata superata e pertanto si deve fare così («a questo punto non resta altro»). Grazie Vilfredo Pareto, perché «paretiana» è appunto l'ispirazione della narrativa pubblica per la produzione del consenso, per permettere lo schieramento. Non la sostanza che ha invece lanciato l'azione in questo quadro di alleanze, misurata sulle necessità degli scenari energetici e di potere che ho accennato. Povera Italia, non mi resta che dire perché i missili sulla Siria possono diventare i razzi, veri, per il nostro Paese. Mai come in questi giorni è risuonata la parola Occidente come richiamo alla bandiera, alla identità che dovrebbe farci muovere tutti insieme, ovviamente schierati per l'alleanza santa e punitrice. Subito abbiamo assistito a una rapida conversione atlantista del Movimento 5 stelle, già da tempo coltivato dagli americani per la sua potenziale utilità e per una certa consonanza spiritatamente messianica che condividono, senza se e senza ma nell'appoggio all'azione «trump-ettiana». Nella medesima linea la pasionaria datata di +Europa non smentisce la tradizione acritica delle sue radici, fertilizzate nei tempi da consistenti concimi americani. Infine il Pd, che può finalmente ergersi con tutta la potente messe dei suoi consensi a paladino dell'Occidente, che per decenni, per quella gente, era stato solo una espressione geografica, non altro. Eccoci finalmente di fronte a uno schieramento atlantista, che può solo ingrassare, che ha i numeri per stabilizzare l'Italia, darle un governo nell'ora buia, perché riconfermi l'alleanza storica con l'altra sponda dell'Atlantico. Senza pensarci troppo. Calma e gesso diciamo a Milano. Infatti, la crisi di questi giorni fornisce una grande occasione al mondo, a noi europei per primi, che è quella di non dare per scontata alcuna delle alleanze tradizionali: rimettiamole in gioco, sono contratti, sulla base dell'utilità reciproca che ormai, qualora ai tempi ci fosse stata per entrambi, ormai si è ampiamente logorata nel nuovo sistema globale. Oggi, una riconsiderazione di dove collocarsi tra New York e San Pietroburgo è possibile, è opportuna, soprattutto deve essere consapevole per le sue conseguenze. A questo punto meglio non avere un governo. Tiriamo per le lunghe. Lo schieramento dell'alleanza, con il supporto fantasma degli americani, consoliderebbe un'Italia quiescente, allineata, adeguata, adagiata, utilizzata, sfruttata come finora è stato: l'attacco alla Siria sarebbe la rivoluzione del non cambiamento delle alleanze Usa. Lo schieramento alternativo contiene solo in Matteo Salvini i germi della riflessione critica internazionale, molto deboli negli altri alleati. Dunque: a questo punto meglio non avere un governo. Tiriamo per le lunghe. Lasciamo a un governo «degli affari correnti» il prendere posizioni contingenti che potremo sempre smentire. Dopo. Per non perdere questa occasione epocale che porta l'Italia a non vivere più delle conseguenze scritte in una guerra mondiale che oramai è passata alla storia per essere stata la penultima. Marco Lombardi
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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