
Sull’invio di F-16 Joe Biden non segue i falchi francesi e sui tank prende tempo. Il «piano di pace» che l’Ucraina chiede all’Onu non scalda gli animi. Mentre Washington ora valuta a cosa dovranno rinunciare gli invasi.Stavolta, quella isolata è la Francia. Le titubanze non sono solo tedesche. Dopo che Emmanuel Macron aveva aperto all’invio di F-16 all’Ucraina, è stato Joe Biden a mettere i paletti: gli Usa non spediranno caccia a Kiev. Volodymyr Zelensky ha invocato «decisioni tempestive» da parte degli alleati; il presidente americano s’è impegnato a ridiscutere con lui dell’invio di nuovi armamenti; ma i tempi non sono maturi per gli aerei da combattimento. Anche quello dei tank, in fondo, è stato uno sblocco dimidiato: il ministro della Difesa ucraino, Dmytro Kuleba, ieri ha annunciato una «prima ondata» di consegne, per un totale di 120-140 blindati da 12 Paesi. Berlino, però, pur autorizzando la fornitura di Leopard in dotazione ad altri eserciti, ha preso tempo sui suoi. Quanto agli Abrams americani, toccherà assemblarli ex novo, probabilmente per sfrondarli dalle tecnologie segrete che il Pentagono non vorrebbe cadessero in mani russe. I mezzi sarebbero pronti entro tre mesi, ma qualcuno ipotizza che si vada a finire al prossimo autunno. Nelle ultime ore, i falchi si sono appollaiati all’Eliseo: ieri, il ministro francese della Difesa, Sebastien Lecornu, ha ribadito che sugli F-16 «non c’è alcun tabù». Parigi ha anche confermato che metterà a disposizione di Kiev 12 obici Caesar e che manderà un contingente di 150 uomini in Polonia, per addestrare 600 soldati ucraini. La versione ufficiale, comunque, non è mutata: aiuti sì, escalation no. In questa guerra per procura tra la Nato e Mosca, il problema rimane il solito: definire gli obiettivi di ogni mossa. Le opinioni pubbliche, pur condannando la brutale aggressione decisa da Vladimir Putin, sono sempre più spaventate dal coinvolgimento diretto nel conflitto e sempre meno propense a foraggiare la resistenza. Insomma, armiamo gli uomini di Zelensky, ma con quale obiettivo? «Far cessare la guerra, non alimentarla», ha precisato ieri Sergio Mattarella. Sul punto, però, la narrazione oscilla. Nei giorni di massima pressione sulla Germania per i suoi carri armati, sembrava che i Leopard dovessero «cambiare le sorti della guerra» (Repubblica). Poi, i toni si sono ammorbiditi: l’Occidente vuole contribilanciare la mobilitazione russa e la rinnovata offensiva nel Donbass. Se il Cremlino alza il tiro, bisogna che l’Ucraina sia messa nelle condizioni di reggere l’urto. Spiragli per i negoziati, almeno alla luce del sole, non ci sono. Il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Lavrov, ha riferito che Antony Blinken, segretario di Stato Usa, gli ha fatto recapitare, per interposti egiziani, un messaggio che «contiene solo inviti a quit and stop», abbandonare l’impresa e fermarsi. Nessuno dei contendenti ha messo sul piatto spunti utili per un dialogo. Poi, è arrivata la mossa di Zelensky: chiedere la convocazione dell’Assemblea straordinaria dell’Onu il 24 febbraio, anniversario dell’invasione russa e presentare, in quella sede, un «piano di pace in dieci punti», benché i 193 Stati chiamati a votarlo non possano emettere un parere giuridicamente vincolante. L’idea, come notava ieri il Corriere della Sera, non ha entusiasmato i partner nel Vecchio continente e al di là dell’Atlantico, che temono di non poter allargare il fronte di nazioni apertamente ostili allo zar. Pure la Cina, dapprima ambigua sul sostegno a Putin, sta prendendo una posizione più netta in favore di Mosca. E, a primavera, Xi Jinping farà visita al suo omologo russo. Non ci sono dettagli sul documento cui starebbe lavorando il presidente ucraino, ma è improbabile che arrivi all’Onu offrendo in pegno la Crimea. È probabile che il testo ricalchi di più l’ultimatum di Blinken: deponete le armi e ritiratevi. Non un gran passo avanti. Gli americani se ne stanno rendendo conto. Qualche giorno fa, Foreign Affairs ha pubblicato le risposte di una serie di esperti a quella che è la domanda centrale in vista di una pace possibile: l’Ucraina dovrà rassegnarsi a qualche concessione territoriale? Diversi studiosi che si sono detti d’accordo con tale ipotesi. Barry R. Posen, del Mit, ha osservato che «l’Ucraina dovrà pagare un prezzo molto alto per liberare» la patria e, in ultima istanza, «potrebbe semplicemente rivelarsi incapace di riuscirci». A un certo punto si dovrà trattare e non è facile pensare che la Russia «rinunci del tutto, al tavolo dei negoziati, alle zone che potrebbe controllare ancora sul campo di battaglia». Ci vede ancor più lungo Chas W. Freeman, ex ambasciatore Usa a Riad: «L’alternativa è la divisione di fatto dell’Ucraina, con un confronto militare perenne lungo il confine» conteso. John Mearshimer, illustre esponente della scuola realista, scorge all’orizzonte un congelamento dello status quo, «qualcosa di simile alla situazione in Corea». E Dan Altman, della Georgia State university, pur non condividendo la prospettiva di cedimenti ucraini, ha delineato i contorni di una via d’uscita informale: «India e Pakistan hanno iniziato e concluso numerose guerre per il Kashmir - anche fissando una linea di cessate il fuoco come confine di fatto - senza risolvere» la questione. Si arriverebbe a registrare il fragile equilibrio raggiunto nel Donbass, in mancanza di un vero trattato.Il proposito di andare avanti fino alla vittoria, che a volte rimbalza sui media con l’elmetto, non regge, quando dall’altra parte c’è una potenza nucleare. Specie se essa - a riprova del momento tesissimo - interrompe ispezioni e colloqui sulle testate atomiche, come accusa ill Dipartimento di Stato Usa. Per evitare la catastrofe, si dovrà ingoiare qualche rospo. Meglio stringere la mano al diavolo, che trasformare la Terra in un inferno.
Maurizio Landini
Dopo i rinnovi da 140 euro lordi in media per 3,5 milioni di lavoratori della Pa, sono in partenza le trattative per il triennio 2025-27. Stanziate già le risorse: a inizio 2026 si può chiudere. Maurizio Landini è rimasto solo ad opporsi.
Sta per finire quella che tra il serio e il faceto nelle stanze di Palazzo Vidoni, ministero della Pa, è stata definita come la settimana delle firme. Lunedì è toccato ai 430.000 dipendenti di Comuni, Regioni e Province che grazie al rinnovo del contratto di categoria vedranno le buste paga gonfiarsi con più di 150 euro lordi al mese. Mercoledì è stata la volta dei lavoratori della scuola, 1 milione e 260.000 lavoratori (850.000 sono docenti) che oltre agli aumenti di cui sopra porteranno a casa arretrati da 1.640 euro per gli insegnanti e 1.400 euro per il personale Ata (amministrativi tecnici e ausiliari). E il giorno prima, in questo caso l’accordo era stato già siglato qualche mese fa, la Uil aveva deciso di sottoscrivere un altro contratto, quello delle funzioni centrali (chi presta opera nei ministeri o nell’Agenzia delle Entrate), circa 180.000 persone, per avere poi la possibilità di sedersi al tavolo dell’integrativo.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Dopo aver predicato il rigore assoluto sulla spesa, ora l’opposizione attacca Giancarlo Giorgetti per una manovra «poco ambiziosa». Ma il ministro la riporta sulla terra: «Quadro internazionale incerto, abbiamo tutelato i redditi medi tenendo i conti in ordine».
Improvvisamente, dopo anni di governi dell’austerity, in cui stringere la cinghia era considerato buono e giusto, la sinistra scopre che il controllo del deficit, il calo dello spread e il minor costo del debito non sono un valore. Così la legge di Bilancio, orientata a un difficile equilibrio tra il superamento della procedura d’infrazione e la distribuzione delle scarse risorse disponibili nei punti nevralgici dell’economia puntando a far scendere il deficit sotto il 3% del Pil, è per l’opposizione una manovra «senza ambizioni». O una strategia per creare un tesoretto da spendere in armi o per la prossima manovra del 2027 quando in ballo ci saranno le elezioni, come rimarcato da Tino Magni di Avs.
Da sinistra, Antonio Laudati e Pasquale Striano. Sotto, Gianluca Savoini e Francesca Immacolata Chaouqui (Ansa)
Pasquale Striano e Antonio Laudati verso il processo. Assieme a tre cronisti di «Domani» risponderanno di accessi abusivi alle banche dati. Carroccio nel mirino: «attenzionati» tutti i protagonisti del Metropol, tranne uno: Gialuca Meranda.
Quando l’ex pm della Procura nazionale antimafia Antonio Laudati aveva sollevato la questione di competenza, chiedendo che l’inchiesta sulla presunta fabbrica dei dossier fosse trasferita da Perugia a Roma, probabilmente la riteneva una mossa destinata a spostare il baricentro del procedimento. Il fascicolo è infatti approdato a Piazzale Clodio, dove la pm Giulia Guccione e il procuratore aggiunto Giuseppe Falco hanno ricostruito la sequenza di accessi alle banche dati ai danni di esponenti di primo piano del mondo della politica, delle istituzioni e non solo. Il trasferimento del fascicolo, però, non ha fermato la corsa dell’inchiesta. E ieri è arrivato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari.
Angelina Jolie a Kherson (foto dai social)
La star di Hollywood visita Kherson ma il bodyguard viene spedito al fronte, fino al contrordine finale. Mosca: «Decine di soldati nemici si sono arresi a Pokrovsk».
Che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, trovi escamotage per mobilitare i cittadini ucraini è risaputo, ma il tentativo di costringere la guardia del corpo di una star hollywoodiana ad arruolarsi sembra la trama di un film. Invece è successo al bodyguard di Angelina Jolie: l’attrice, nota per il suo impegno nel contesto umanitario internazionale, si trovava a Kherson in una delle sue missioni.






