2020-10-21
Gli ospedali rischiano di intasarsi perché i medici di base non filtrano
La pressione sulle strutture sanitarie per ora è nella norma, tuttavia il quadro potrebbe peggiorare: rispetto a marzo molta più gente vi si reca con sintomi lievi. Il governo, poi, non paga per dottori e infermieri.Criticato dalla sinistra, ha un potenziale di 221 letti in intensiva per questa ondata.Lo speciale contiene due articoli. La rapida crescita dei positivi al Covid-19 non mette eccessivamente sotto pressione gli ospedali: attualmente stanno reggendo. Potrebbero però iniziare a ridurre in modo importante l'attività per i pazienti non Covid, per questioni organizzative e di coordinamento. «Abbiamo negli ospedali pazienti che potrebbero stare a casa o in sedi come la Fiera di Bergamo e Milano o in ospedali inutilizzati», ha dichiarato ieri il direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, Giuseppe Remuzzi, in un'intervista a InBlu Radio. «Negli ospedali non utilizzati possiamo mettere tutti quei pazienti che non se la sentono di stare a casa ma che non sono così gravi da affollare gli ospedali. Questo va fatto subito, non abbiamo più tempo di discutere», ha ribadito. «Prima avevamo pazienti a casa che non avevano il coraggio di andare all'ospedale e restavano a domicilio fino a quando non stavano malissimo, arrivando in ospedale in condizioni drammatiche. Ora abbiamo negli ospedali pazienti che hanno paura di stare a casa perché hanno visto che le strutture si sono organizzate». Il problema è vecchio di anni: mentre negli ospedali esiste un sistema abbastanza rodato per lo svolgimento delle attività, sulla medicina territoriale restano dei vuoti. «Il problema è il territorio», dice Gilberto Turati, professore di scienza delle finanze all'Università Cattolica e direttore del corso di Healthcare management. «Da anni gli ospedali fanno da assistenza sociale a casi che potrebbero essere curati in altri modi», con il coinvolgimento del medico di medicina generale e dell'infermiere di territorio. «Nella tregua estiva si è perso tempo», continua il professore. «Non si è pensato a potenziare la medicina territoriale, nemmeno come riflessione generale». Così l'ospedale, accollandosi casi come anche un'influenza in una persona anziana, curabili a casa con una adeguata assistenza, in tempi di Covid-19 finisce per intasarsi. Anche perché restano in reparto coloro che, entrati per un'urgenza, non tornano sul territorio per mancanza di assistenza adeguata. Questa nuova ondata di Covid-19 farebbe quindi esplodere una situazione latente da tempo. In Lombardia, dove si registra una crescita importante di positivi, ci sono ospedali di riferimento (Hub) per il virus e strutture di supporto (Spoke) per i pazienti Covid-19 a bassa intensità di cura o in fase di guarigione. In questo modo si garantiscono letti e personale per i pazienti più gravi (Covid e non Covid). La rete delle terapie intensive è coordinata a livello regionale perché - per garantire la sicurezza dei pazienti - esse possono ospitare in forma esclusiva casi Covid oppure solo non Covid. «Stiamo rispondendo puntualmente all'aumento dei pazienti Covid, anche se, rispetto alla prima ondata pandemica, non abbiamo una contemporanea riduzione di afflusso di pazienti con altre patologie e spesso negativi al tampone», dice Matteo Stocco, direttore generale dell'Azienda sanitaria (Asst) Santi Paolo e Carlo di Milano, hub regionali. «Per ora abbiamo mantenuto intatte le attività chirurgiche e di elezione (non urgenti, ndr), oltre all'attività ambulatoriale ordinaria. In questi giorni la criticità maggiore è ricoverare i numerosi pazienti Covid negativi, dopo aver riconvertito e razionalizzato le disponibilità per far posto ai pazienti Covid positivi in costante aumento». Una situazione simile si registra a Brescia. «Non ci sono attualmente, al pronto soccorso, grandi variazioni rispetto al normale afflusso», osserva Alessandro Triboldi, direttore generale Fondazione Poliambulanza, ospedale covid free (spoke). «In abito di ricoveri programmati si accede solo con tamponi negativi, ma stiamo rallentando l'attività in elezione. Se la regione ci chiede di trattare i Covid con sintomi, siamo pronti a riconvertire i reparti per questi pazienti». Situazione simile anche a Padova dove, nonostante l'ospedale sia hub-Covid per il veneto «non si registra praticamente nessuna riduzione di attività per gli altri pazienti», dichiara Danile Donato, direttore sanitario dell'Azienda Ospedaliera padovana. Sarebbe importante «nelle zone non colpite preservare ambiti per erogare i servizi assistenziali ai pazienti non Covid», osserva Triboldi. Il problema spesso è però nelle risorse umane: medici e infermieri. «Mancano 20.000 infermieri negli ospedali italiani e 30.000 nel territorio, 20.000 per l'assistenza domiciliare e 10.000 nelle Asl», ricorda Barbara Mangiacavalli, presidente della federazione degli ordini degli infermieri. «Ad oggi nel territorio sono previsti 9.600 infermieri, ma in realtà solo il 10% è stato integrato nelle varie regioni». La carenza, come per le migliaia di medici è chiaramente strutturale: la scuola non ne prepara quanti sarebbero necessari. Nell'emergenza sono stati mandati di supporto 5-6.000 infermieri e migliaia di specializzandi negli ospedali, ma con contratti atipici e un bonus Covid, 1.000 euro di media, erogato solo in parte. Ci sarebbero 9.000 medici, che non hanno accesso alla specialità per un errore di programmazione, da impiegare sul territorio, ma non pare si stia verificando. I fondi per assumere nuovo personale e per potenziare i posti letto, oltre al territorio, ci sono: 4 miliardi stanziati, ma «non basta fare le leggi, bisogna che ci sia modo di applicarle», ricorda Turati. «Ci vuole un coordinamento», conclude il professore. «In una situazione di emergenza ci vuole un piano pandemico. La protezione civile ne aveva fatto uno, esisteva. Non è stato applicato. Bastava aggiornarlo. Abbiamo imparato poco». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/gli-ospedali-rischiano-di-intasarsi-perche-i-medici-di-base-non-filtrano-2648414603.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="servono-posti-ora-il-padiglione-della-fiera-non-fa-piu-ridere" data-post-id="2648414603" data-published-at="1603220748" data-use-pagination="False"> Servono posti. Ora il padiglione della Fiera non fa più ridere I letti di terapia intensiva pronti per la nuova emergenza oggi sono 54, ma altri 104 potrebbero essere allestiti in due giorni, e il potenziale è di 221 postazioni. L'ospedale Fiera di Milano è pronto a dare il suo contributo nella seconda ondata della pandemia. La struttura era stata creata in primavera a tempo di record, con un progetto affidato a Guido Bertolaso da Regione Lombardia. In marzo, quando l'ondata di contagi e morti pareva inarrestabile, e mentre i letti di terapia intensiva erano pericolosamente vicini all'esaurimento, l'ex capo della Protezione civile e la sua squadra erano riusciti a realizzare il nuovo ospedale in meno di tre settimane, attingendo a parte delle donazioni per oltre 21 milioni (10 dei quali versati da Silvio Berlusconi) ricevute dalla Regione. Malgrado la sua evidente utilità, l'ospedale Fiera era subito entrato nel mirino dei critici. Già il 24 marzo, quando Bertolaso era stato ricoverato perché contagiato dal Covid-19, Marco Travaglio aveva salutato la notizia con sottile compiacimento: «La Lombardia era perfettamente in grado di tirar su un ospedalino da 300 posti senza scomodare Bertolaso», aveva scritto sul Fatto quotidiano. E aveva aggiunto, sarcastico: «Ora che Mister Wolf, più che creare posti letto, ne ha occupato uno, gli auguro sinceramente di guarire presto: sulla salute non si scherza». L'ospedale Fiera era poi entrato in funzione il 6 aprile. La sua logistica aveva acceso qualche perplessità tecnica tra i medici, perché quella maxi terapia intensiva pareva un po' troppo separata dalle altre anime tipiche di un ospedale, e cioè sale operatorie, reparti di degenza. Poi in maggio la pandemia aveva bruscamente rallentato, e alla fine i pazienti gravi curati nella nuova struttura erano stati appena 25. L'ultimo era stato dimesso il 9 giugno. Ma a quel punto lo scarso utilizzo dell'ospedale Fiera, un fatto di per sé positivo viste le terribili premesse della primavera, aveva creato un'ondata di critiche molto meno sensate di quelle tecniche, e innescato anche una gretta polemica politica. C'era chi aveva bollato di totale inutilità «l'astronave di Bertolaso». Alla Camera, il grillino Riccardo Ricciardi aveva parlato di «sperpero di denaro pubblico», altri di «monumento all'incompetenza». In Regione aveva gridato allo spreco il capogruppo dei 5 stelle, Massimo De Rosa: «Con 21 milioni si potevano comprare 5 milioni di test». In Lombardia il Pd aveva chiesto conto di tutte le donazioni ricevute nell'emergenza, e soprattutto di quelle usate per l'ospedale Fiera: «Pretendiamo un'operazione trasparenza, non sono soldi di Attilio Fontana». Inutilmente il governatore aveva suggerito prudenza: «Questo ospedale», aveva spiegato Fontana, «è una garanzia per il futuro. In questa emergenza abbiamo scoperto di avere pochi letti di terapia intensiva. Ma il virus non è stato sconfitto, dobbiamo prepararci a un'altra fase». In luglio, grazie a un esposto del sindacato Adl Cobas, la Procura di Milano aveva aperto anche un'inchiesta. C'erano state perquisizioni e sequestri di documenti, che avevano fatto sperare i detrattori in un epilogo manettaro. Ora tutto è cambiato. Ieri la Commissione indicatori della Regione ha previsto che da qui al 31 ottobre, in Lombardia, almeno 600 pazienti Covid dovranno purtroppo essere ricoverati in terapia intensiva e altri 4.000 affolleranno i reparti. Quando finiranno i posti di rianimazione nei 17 ospedali regionali, entrerà in azione «l'astronave di Bertolaso». Se accadrà, i suoi 221 letti di terapia intensiva salveranno vite, alla faccia di chi soltanto cinque mesi fa rideva. E criticava.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Flaminia Camilletti